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DOPO L'11 SETTEMBRE
tratto dal n. 12 - 2001

UNO SPARTIACQUE STORICO. I fenomeni emergenti dopo l’11 settembre

Attenti ai contesti


«Chi pensava che la finanza, con il suo pensiero unico, sarebbe stata sempre vincente, sbagliava. Quello che è accaduto dopo l’11 settembre ha evidenziato che non era onnipotente e ci ha fatto scoprire l’importanza di tutti quei contesti, politico, diplomatico, culturale, religioso, linguistico con cui la finanza globalizzata ora deve fare i conti». Intervista con il presidente del Censis Giuseppe De Rita


di Roberto Rotondo


La statua di bronzo dedicata agli operatori di Borsa  coperta di polvere, tra i resti delle Twin Towers a New York

La statua di bronzo dedicata agli operatori di Borsa coperta di polvere, tra i resti delle Twin Towers a New York

«Chi pensava che la finanza, con il suo pensiero unico, sarebbe stata sempre vincente, sbagliava. Quello che è accaduto dopo l’11 settembre ha evidenziato che non era onnipotente e ci ha fatto scoprire l’importanza dei “contesti”. Se dovessi scrivere un articolo su cosa sta accadendo oggi, a quattro mesi dagli attacchi terroristici in Usa, lo titolerei proprio così: attenti ai “contesti”». Giuseppe De Rita, presidente del Censis, tra i più intelligenti analisti dell’evoluzione della società contemporanea, ha il pregio di saper sintetizzare in immagini i fenomeni emergenti. Gli abbiamo chiesto se anche lui condivide la preoccupazione per un neocapitalismo puramente speculativo che consente di mettere in ginocchio intere aree geografiche. E se, anche lui come altri autorevoli osservatori, riscontra un legame tra ciò che è accaduto l’11 settembre e i recenti sommovimenti nelle Borse mondiali.

Ma cosa sono i “contesti”, professore?
GIUSEPPE DE RITA: Sono tutti quegli ambiti, diplomatico, politico, culturale, religioso, militare che improvvisamente, dopo l’11 settembre, hanno reagito, diventando fondamentali. E quella forza della finanza mondializzata che fino ad un attimo prima sembrava irresistibile ora deve farci i conti.
L’economia è diventata finanza e la finanza ha globalizzato l’economia, scriveva in un recente editoriale sulla Repubblica Eugenio Scalfari. E il premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel, argentino, ha parlato di “terrorismo della finanza”...
DE RITA: Il problema esiste, ma va in parte storicizzato. Dobbiamo sempre tener conto che lo sviluppo anche se continuo è asimmetrico: qualche volta è in un settore o in un territorio, poi passa in un altro. Lo sviluppo è composto di squilibri continui, di logiche che si succedono l’una all’altra in reazione e controreazione. Diamo giudizi morali sul nuovo che distrugge il vecchio e non capiamo che lo sviluppo stesso è questo squilibrio continuo. Il mondo è asimmetrico e non può essere che così. La finanza ha certamente creato dei problemi all’economia reale, all’economia della produzione, al mercato, al rapporto tra uomo e lavoro. Ha creato problemi anche ai capisaldi della rivoluzione industriale che, nata nell’Ottocento, è arrivata fino ai nostri giorni: capitale e organizzazione industriale. In particolare modo ha creato problemi a quella grande rivoluzione, secondo me non abbastanza studiata, che è stata la moltiplicazione imprenditoriale, cioè lo sviluppo della piccola impresa e del lavoro indipendente.
Ma, sostanzialmente, cosa ha portato di nuovo la finanza? Primo: un’assoluta velocità nel suo modo di espandersi e lavorare: ventiquattro ore su ventiquattro, in un lasso di qualche decina di secondi, puoi guadagnare o perdere miliardi. Secondo: un meccanismo di pensiero unico, perché ad un certo punto la globalizzazione finanziaria è stata ritenuta l’unica via possibile di sviluppo. Terzo: un cambiamento dei comportamenti individuali tesi oggi ad un arricchimento immediato attraverso investimenti in Borsa. C’è da notare che la logica finanziaria è anche in rotta di collisione con l’idea stessa di consumismo nata negli anni Cinquanta-Sessanta. Oggi l’obiettivo non è più aumentare il consumo dei beni, quindi la produzione, ma è risparmiare per giocare in Borsa, per investire comprando fondi, azioni eccetera. L’imperialismo della finanza si basa su queste tre forze, che in qualche maniera sono oggettive, quindi vere, che hanno creato una frattura con il passato.
E dopo l’11 settembre cosa è cambiato?
DE RITA: Ha iniziato ad affermarsi una curva nuova che è appunto quella del contesto. La globalizzazione finanziaria improvvisamente non è stata più l’unico motore del mondo, è stata messa in secondo piano da altri contesti. Quello della politica internazionale, ad esempio. Perché è nata l’esigenza di fare diplomazia a 360 gradi. Una diplomazia non più americanocentrica. Bush dopo l’11 settembre nel giro di due ore ha cambiato alleanze e referenti. Il problema non era più l’allargamento della Nato, ma l’alleanza con il Pakistan, con la Cina, con Putin e Blair. Il presidente Usa ha compreso che i rapporti con la Cina di Jiang Zemin non potevano più raffreddarsi o intensificarsi secondo l’andamento delle Borse, ma dovevano passare anche attraverso la crescita del mercato cinese. Lo stesso contesto culturale ha acquistato un’importanza che prima non gli veniva riconosciuta: perché oggi si capisce che al mondo non esiste solo la logica degli automatismi e dei tracciati tipica delle Borse, ma che ci possono essere diversità di pensiero e di approccio ai problemi tra cinesi, pakistani, americani. Insomma si sono aperti scenari impensabili fino ad un momento prima per chi ha saputo gestire il contesto politico-diplomatico. Certo, se invece si resta come gli europei, fermi lì a pensare che il problema è lo scontro tra Oriente ed Occidente, tra islam e cristianesimo, quando lo stesso Papa dice di digiunare per la pace l’ultimo giorno del ramadan, si è tagliati fuori. Giovanni Paolo II ha percepito l’asimmetria del contesto cambiato, perché a suo modo è un vecchio geniale. Ma tutti quegli ecclesiastici in Italia che hanno puntato il dito accusatorio sull’islam hanno dimostrato di non aver neanche capito quello che era successo l’11 settembre.
Vorrei anche aggiungere un altro contesto dove è cambiato lo squilibrio. Può far sorridere ma è il contesto linguistico. Dopo l’11 settembre ci siamo accorti che il linguaggio su cui la finanza vive, l’inglese, di cui molti termini specialistici usati nelle transazioni di Borsa sono entrati nell’uso comune delle persone, non è l’unico linguaggio in grado di collegarti con il mondo. Improvvisamente, ad esempio, ci accorgiamo di quanto pesa il fatto che nella nostra diplomazia e nei servizi di intelligence quasi nessuno conosca l’arabo.
Molti osservatori hanno avanzato ipotesi sul possibile rapporto tra mondo della finanza e attentato alle Torri gemelle. Lei cosa ne pensa?
DE RITA: Io sono sempre istintivamente sospettoso verso questi scenari in cui si muovono dietro le quinte apparati finanziari o tecnologici onnipotenti, capaci di decidere e prevedere tutto. Certo, ci sono aspetti non chiari nella vicenda. Ho letto di alcuni responsabili della Cia che hanno affermato che senza complicità interne, loro non sarebbero riusciti a fare al Cremlino quello che Bin Laden ha fatto alle Torri gemelle, neanche nei momenti più neri delle ultime crisi politiche della Russia. Ma se pensassi che ci sono apparati della tecnica, o apparati finanziari, o militari, capaci di scatenare una crisi del genere controllandone a proprio vantaggio gli sviluppi, oppure un apparato addirittura in grado di governare il mondo muovendo chi sa quali fili, chiuderei baracca e spererei nella lungimiranza di questi apparati. Ma non ci credo. Anche perché, se tutta questa operazione fosse stata fatta per una gigantesca operazione finanziaria legata al petrolio, il risultato è stato l’opposto: il prezzo dell’oro nero è sceso e la globalizzazione finanziaria oggi non è più il pensiero unico dominante.
Dimostranti nelle vie di Buenos Aires il 20 dicembre 2001

Dimostranti nelle vie di Buenos Aires il 20 dicembre 2001

Nel 1931, Pio XI, nell’enciclica Quadragesimo anno, denunciava «l’imperialismo internazionale del denaro». Quanto sono ancora attuali quelle parole?
DE RITA: Io su questi temi non sono abituato a ragionare sulla lunghezza d’onda del mondo cattolico. E non credo che andiamo verso un sempre maggiore accentramento del potere finanziario. Verso un potere che può permettersi di non fare i conti con le persone. Anche sul piano del lavoro noi non andiamo verso le grandi imprese, verso le grandi fabbriche ma andiamo verso la moltiplicazione della piccola impresa, di cui il lavoro indipendente è l’espressione più chiara. La società è sempre più formata da molecole, da milioni di persone che costruiscono la loro rendita, la loro pensione, il proprio lavoro anche sulla finanza. Il mondo moderno non è quello della catena di montaggio. È vero che le grandi banche hanno risorse immense di denaro ma devono tener conto della soddisfazione di milioni di piccoli risparmiatori, di professionisti, di artigiani. È come se la società fosse costituita da tanti strati di molecole divisi da guaine formate da concentrazioni, da grandi imprese. Sopra queste concentrazioni ci sono altri strati di molecole e altre concentrazioni. Per questo il potere oggi non può essere immaginato come una grande multinazionale che sta al vertice, ma più realisticamente oggi stanno vincendo i poteri trasversali cioè quei gruppi che riescono a stare un po’ dappertutto, cioè ad attraversare vari strati di molecole.
Nel 2001 cadevano i centodieci anni dalla Rerum novarum, l’enciclica sociale di Leone XIII. Nel passato sono stati molti i documenti del magistero sociale della Chiesa in occasione degli anniversari di questa enciclica. Dalla già citata Quadragesimo anno alla Centesimus annus di Giovanni Paolo II, nel 1991. Nel 2001, invece, nonostante si sia parlato molto di globalizzazione anche nel mondo cattolico, non è uscito nulla in proposito…
DE RITA: E per fortuna. La Chiesa è un po’ imprigionata nella sua dottrina sociale, in alcuni concetti come solidarietà e sussidiarietà. Concetti che non reggono perché troppo simmetrici. La sussidiarietà, sia in orizzontale che in verticale, sembra la creazione del regno di Dio in terra. Mentre la solidarietà, alla fine, è un patrimonio di tutti, da Telethon alle campagne umanitarie per l’Afghanistan. Delle encicliche sociali salverei solo la Populorum progressio di Paolo VI, perché, a differenza degli altri, non era un documento papale pieno di citazioni e di autocitazioni del magistero precedente, ma un tentativo fatto in piena autonomia di dare un indirizzo, tenendo conto anche delle idee di alcuni studiosi dello sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta.
Non è eccessivamente critico?
DE RITA: Lo dico da cattolico praticante: questi documenti di dottrina sociale, dove la Chiesa continua a guardare indietro, inseguendo un generico pauperismo, sono una noia. Meglio un libro sulla globalizzazione del cardinale Dionigi Tettamanzi. Può piacere o non piacere, ma almeno parla d’altro. Quello che ci vorrebbe nella Chiesa è un po’ di libertà per interrogarsi ed esplorare queste nuove tematiche. Invece nel mondo cattolico tutti, in primis i vescovi, aspettano l’uscita di un ennesimo documento papale da citare e dietro cui ripararsi, per non mettere a rischio la carriera. Altro che percezione degli squilibri.


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