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BEATO ANGELICO
tratto dal n. 12 - 2001

Beato Angelico: il realismo dell’esperienza


«Il realismo di chi ha conosciuto d’esperienza la santità, di chi ha visto e rappresentato questa realtà che è la grazia di essere abbracciati da Cristo». Così lo storico Giuseppe De Luca commenta la pittura del domenicano Giovanni da Fiesole


di Stefania Falasca


La Cappella Niccolina in Vaticano

La Cappella Niccolina in Vaticano

Diciamo la verità: non è che gli garbasse poi tanto andare nei sacri palazzi. Lo aveva chiamato il Papa in persona per incaricarlo di affrescare la sua cappella privata in Vaticano. Altri al suo posto, per il privilegio di una simile commissione, sarebbero corsi a gambe levate. Ma lui, fra Giovanni da Fiesole, non avrebbe lasciato la sua povera cella del convento domenicano di San Marco per tutto l’oro del mondo. E alla fine, se c’era andato, lo aveva fatto per obbedienza, solo per obbedienza. «Modesto et humilissimo», ci riferisce il Vasari, lì, nella corte rinascimentale del Papa, il frate pittore non cambiò una virgola della sua condotta di vita che l’austera regola del chiostro gli dettava.
«Dicono alcuni» informa ancora il Vasari «che fra Giovanni non harebbe preso i pennelli se prima non avesse fatto orazione». Nella cappella pontificia raffigurò le storie dei diaconi martiri Stefano e Lorenzo mostrando al Vicario di Cristo i tesori della Chiesa così come «l’umile suo cuore» e la sua abilissima mano di «eccelso pittore» gli dettavano.
Si dice che il Papa, entrato in quella cappella ad opera compiuta, guardando quelle figure tanto vivide e presenti non poté trattenere le lacrime.
Erano gli anni 1448-1450 quando fra Giovanni da Fiesole, noto come Beato Angelico, andava fissando sui muri della cappella privata di papa Niccolò V il capolavoro della sua arte matura, l’ultimo dei suoi affreschi. In quel periodo, il coetaneo Masaccio, del quale l’Angelico è l’erede più diretto, era già morto da un ventennio e un altro pittore toscano, Piero della Francesca, da tutti considerato il “maestro della divina proporzione”, punto di riferimento per le future generazioni di pittori, andava dipingendo nel Palazzo Ducale di Urbino la famosa Flagellazione di Cristo. Erano gli stessi anni, eppure come è diverso il modo d’espresýione di quest’artista; un altro mondo, quello dell’Angelico, a confronto. Scrive Albert Camus, annotando le sue impressioni proprio di fronte a quella sacra rappresentazione di Piero della Francesca: «Perché commuoversi per chi non aspetta più nulla? Non un sorriso labile, non un pudore fugace, né rimpianto o attesa, ma facce coagulate in linee eterne. L’angoscia vuol esser scacciata per sempre. A prezzo della speranza. Perché il corpo ignora la speranza, non conosce più il pulsare del sangue. L’eternità è fatta d’indifferenza. Questo supplizio non ha seguito...».
Bastano queste intense osservazioni di Camus per suggerirci indirettamente cosa non è l’opera del Beato Angelico. Lo storico dell’arte Argan ce l’ha invece descritta tutta con queste poche e chiare parole: «C’est la caritas, la foi des simples, la piété des purs de cœur».
Figura davvero singolare quella di Giovanni da Fiesole nella storia dell’arte. E tanto è singolare nella storia dell’arte quanto è unica nella storia della Chiesa. La diffusa fama di santità che lo distinse già in vita, tanto da nominarlo con l’appellativo di Angelicus e di Beatus, è stata riconosciuta ufficialmente: il pittore domenicano è l’unico artista nella storia della Chiesa elevato agli onori degli altari. L’unico al quale, agli atti del processo canonico conclusosi nel 1983, per la prima volta non furono allegati scritti spirituali o teologici, ma il catalogo completo delle opere: le 135 tavole che riproducono i suoi dipinti. Del resto, ad intuire che l’arte del maestro fiorentino non poteva esser compresa se non alla luce della sua vita fu proprio il Vasari, il primo (e per eccellenza) biografo del Beato Angelico, che, nelle Vite, così inizia a scriverne: «Frate Giovanni Angelico da Fiesole, il quale fu al secolo chiamato Guido, essendo non meno stato eccellentissimo pittore e miniatore che ottimo religioso, merita per l’una e l’altra cagione, che di lui sia fatta honoratissima memoria».

Via pulchritudinis
Il ciclo di affreschi del convento 
di San Marco, che l’Angelico realizzò tra il 1436 e il 1445, è considerato 
una preghiera dipinta. Nelle tre immagini 
a destra,  sono riprodotti alcuni particolari. Da sinistra: Maria di Cleofa, compianto su Gesù Cristo morto

Il ciclo di affreschi del convento di San Marco, che l’Angelico realizzò tra il 1436 e il 1445, è considerato una preghiera dipinta. Nelle tre immagini a destra, sono riprodotti alcuni particolari. Da sinistra: Maria di Cleofa, compianto su Gesù Cristo morto

Guido di Piero era nato nell’anno 1400 a Vicchio del Mugello, nella campagna fiorentina. Proprio nella Firenze dei Medici, agli inizi del Quattrocento, cominciò l’attività di “dipintore”. Poco più che bambino lo troviamo già all’opera nella bottega di Lorenzo Monaco, dove apprese la tecnica della miniatura e dell’affresco e si specializzò nella pittura su tavola. La sua pittura dovette essere apprezzata ben presto, se già nel 1417 risulta pagata a suo nome un’opera commissionata per la chiesa di Santo Stefano a Firenze. Un enfant prodige, si direbbe oggi. Certo è che Guido di Piero, stando ai documenti e alle testimonianze riguardo alla sua precoce e dimostrata abilità in quest’arte, aveva già avviata davanti a sé una brillante carriera di pittore. E ben remunerata anche, considerato lo status sociale di cui godevano i pittori affermati in un’epoca così favorevole per chi esercitava l’arte. Ma tre anni più tardi, poco più che ventenne, lo vediamo bussare, insieme al fratello Benedetto, alla porta del convento di San Domenico a Fiesole. Il “conventino”, come lo chiamavano quasi con disprezzo gli stessi domenicani della storica e ben più celebre sede conventuale di Santa Maria Novella a Firenze. Un conventino abbandonato e sperduto tra le colline fiesolane, di stretta osservanza, dove la vita comunitaria si svolgeva secondo la regola originaria, nella più radicale povertà. Era stato fondato pochi anni prima dal riformatore dell’ordine domenicano, il beato Giovanni Dominici, discepolo di santa Caterina da Siena, e tra i primi monaci vi aveva spiccato la semplice e umanissima figura di fra Antonino Pierozzi, poi canonizzato da papa Adriano VI. È sotto il priorato di questo santo frate che l’Angelico e suo fratello abbracciarono il chiostro, insieme a non pochi altri loro coetanei.
Dunque, Guido di Piero «se bene harebbe potuto commodissimamente stare al secolo, et oltre quello che haveva, guadagnandosi cioche havesse voluto con quell’arti, che ancor giovinetto benissimo fare sapeva... volle farsi religioso dell’ordine de’ frati predicatori» commenta il Vasari. E “harebbe potuto”, potremmo dire ancora col Vasari, bussare al ben più noto convento domenicano di Santa Maria Novella, pieno d’opere di insigni maestri, dove non gli sarebbe stato difficile mantenere contatti per progredire nella sua arte. “Harebbe potuto” anche, una volta finito il noviziato, non proseguire con l’ordinazione sacerdotale, restando così più libero di esercitare la pittura, come altri frati pittori avevano fatto (e ce ne sono tanti che a un certo punto sono rimasti solo pittori). Ma fra Giovanni no. Aveva bussato a quel conventino. Non c’era altro. Lo aveva fatto per sempre. Già, per sempre. Perché in convento rimase tutta la vita. «Non si cavò mai l’abito», «mai abbandonò la Religione», «nulla stimava più caro e bello che la compagnia di Christo solo» dice il Vasari, sottolineando con sorpresa, più che l’aspetto della sua vocazione, la sua fedeltà fino alla fine, il suo perseverare nella vita religiosa. Continuata vitae innocentia (nonostante, anche, la fama e la celebrità raggiunte).
Il noto storiografo ce lo descrive così: «Era humanissimo e molto sobrio», «semplice ne’ suoi costumi» e «in tutte le opere e ragionamenti suoi humilissimo e modesto». «Non lasciò mai huficio ecresiasticho per dipingere e con amorevolezza incredibile, a úhiunque ricercava opere da lui diceva che ne facesse esser contento il priore, e che, poi non mancherebbe». «Era solito dire che chi fa cose di Christo, con Christo deve star sempre». «Non fu mai veduto in collera tra i frati; il che grandissima cosa, e quasi impossibile mi pare a credere: et soghignando semplicemente haveva in costume d’amonire gli amici». «Poté havere dignità ne’ frati, e fuori, e non le stimò, affermando non cercare altra dignità che cercare di fuggire lo Inferno». «Potette comandar a molti, e non volle; dicendo esser men fatica, et manco errore ubbidire altrui». Per nessuna delle circa duecento Vite di eccellenti pittori, scultori e architetti scritte dal Vasari sono riportati tanti fatti e detti (oltremodo veritieri e documentati) come in quella del Beato Angelico. Non ce ne sono così nemmeno per il «sommo Michelangelo» (al cui cospetto, per lo storico Vasari, tutti gli altri artisti non sono che ombre). Sembra quasi che di fronte all’Angelico non abbia potuto fare altrimenti. Come resistere al fascino di questo pittore «non minore a Giotto» e padre «humanissimo», dall’umiltà tanto vera e profonda da renderlo persino inconsapevole della sua stessa arte, che mai firmò le sue opere e nemmeno volle mai lasciare autoritratti, che «mai fece crucifisso che non si bagnasse le gote di lacrime»? Senza la sua vita, è vero, non si può dire tutta la bellezza delle sue opere. «A San Marco fece storie del Testamento nuovo belle quanto più non si può dire». Basta guardarle.

Facilità espressiva
Bisogna allora entrare a San Marco. In quel convento domenicano a Firenze del quale l’Angelico decorò tutti gli ambienti: i corridoi, il chiostro, la sala capitolare e le quarantadue celle destinate ai frati, suoi confratelli. L’Angelico realizzò queste opere tra il 1436 e il 1445. Il suo più grande ciclo di affreschi destinato a un luogo privato. Un luogo di clausura, frequentato da soli monaci. Il ciclo di affreschi di San Marco, universalmente considerato un capolavoro assoluto dell’arte italiana, fra Giovanni lo dipinse così come aveva fatto tutto il resto della sua vita: per obbedienza, «pregando Dio che gli facesse ogni cosa a gloria di Lui»; e per il frate non era nient’altro che quello che è: una preghiera dipinta.
Vi raffigurò scene della vita di Cristo insieme ai misteri fondamentali della salvezza «con tale ardente amore, tale viva partecipazione e semplicità cristiana quanto alcun altro mai». Non un gesto, in queste immagini, è inutile. E non c’è sforzo, non smania, non gratuito divincolarsi. «Solo la sua immaginazione lo tradiva, ed egli diventava come un bambino» scrive lo storico dell’arte Berenson. Si è detto molto sulla “facilità espressiva” di queste opere e sulla loro evangelica semplicità. L’Angelico infatti non inventa mai dei racconti o dei dettagli. Le sue raffigurazioni si attengono a quanto riferiscono le Sacre Scritture o le fonti della Tradizione. Non introduce mai elementi scenografici, curiosi o superflui che possono distogliere l’attenzione dal fatto narrato. «Ciò che qui si esprime» ebbe a dire Paolo VI, visitando San Marco «è una voce cavata proprio dal profondo dell’animo, una forma che si distingue da ogni travisamento di palcoscenico, di rappresentazione puramente esteriore».
È stata sottolineata dai critici l’umanità che trapela dai volti dei suoi crocifissi, dai gesti di Gesù. Scriveva già Lorenzo Valla: «L’aspetto di Cristo è tale che chi lo guardi, quasi infiammato di incontenibile letizia, non cessa di esclamare, giorno e notte: santo, santo, santo». Come pure la singolare bellezza delle sue moltissime Madonne: «Gratia fingendae Virginis una fuit/ Ut docet eiusdem manibus descripta Iohannis/ Saepe salutatae forma venusta deae» (Del tutto particolare fu la grazia con cui venne effigiata la Vergine, come dimostra la leggiadra bellezza divina con cui fu dipinta dalle mani dello stesso Giovanni, spesso nell’atto di ricevere il saluto [dall’Angelo]), scrive Domenico di Corrella nel suo Theotocon del 1468. Non c’è dunque da stupirsi se l’Angelico, come pictor mansuetudinis Christi, possa essere paragonato in questo allo scriba mansuetudinis Christi, l’evangelista autore degli Atti degli apostoli.
Si è anche notato che pur dipingendo sempre santi, il Beato Angelico non ne ha mai rappresentato i “trionfi”, come era in uso, secondo la volontà delle committenze (come ad esempio il celebre Trionfo di san Tommaso dell’Orcagna nella Cappella Strozzi). I suoi santi sempre sono raffigurati nell’atto di adorare. Bisogna allora entrare nella direzione di quegli sguardi. Solo guardando. Perché «l’affetto ama ciò che vede e capisce» diceva san Tommaso. Guardando. Ma bisogna più che guardare: bisogna lasciarsi trafiggere il cuore. E la reazione di chi guarda è quella degli ascoltatori di Pietro, che, come è scritto negli Atti, «all’udir tutto questo, si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”».

San Tommaso abbraccia il crocifisso, convento di San Marco, Firenze

San Tommaso abbraccia il crocifisso, convento di San Marco, Firenze

Una preghiera dipinta
Contemplari et contemplata aliis tradere
. Quello che fra Giovanni vide ha trasmesso, con intensità tale da muovere a «divozione» chi guarda. Ed è questo che dovette provare lo stesso pontefice Eugenio IV quando, il 6 gennaio 1443, andò a presenziare alla consacrazione della chiesa di San Marco, pernottando nel convento. Ne rimase così sorpreso e intimamente commosso che chiamò fra Giovanni a Roma incaricandolo di eseguire alcuni affreschi nella Basilica di San Pietro. Quella stessa sorpresa il Papa dovette provarla anche quando un giorno, chiamato il buon frate a pranzare alla sua tavola, si sentì da lui candidamente declinare l’invito, dicendo che avrebbe dovuto chiedere la dispensa al suo superiore poiché nella regola è proibito mangiare carne. E questa, non fu certo minore di quella volta che lo stesso Pontefice, volendolo ricompensare per la stima che nutriva nei suoi confronti, gli offrì l’arcivescovado di Firenze. Non solo l’angelico frate rifiutò, supplicando «Sua Santità che provvedesse d’uno altro», perché, disse, non si sentiva «buono a governar popoli» ed «è men fatica e manco errore ubbidire altrui», ma indicò anche al Papa chi avrebbe potuto degnamente ricoprire quell’incarico.
Dopo questo periodo trascorso a Roma, fra Giovanni ritornò a Fiesole dove ricevette l’incarico di dipingere l’Armadio degli Argenti per la chiesa della Santissima Annunziata in Firenze. L’armadio era destinato a contenere gli ex voto offerti alla Vergine. Ancora una volta l’Angelico vi illustrò con estremo realismo tutti gli episodi della vita di Gesù. Con estremo realismo, è proprio il caso di dire. «Perché di realismo si tratta» disse lo storico Giuseppe De Luca, commentando quest’opera dell’Angelico in occasione del centenario della morte del pittore (occasione nella quale egli difese il frate dalla critica che lo inseriva nella corrente degli artisti misticheggianti, secondo la quale il fervoroso frate avrebbe dipinto i suoi santi rapito in inconscie estasi). «È il realismo di un uomo reale e realista, il realismo di chi ha conosciuto d’esperienza la santità, di chi ha visto e rappresentato questa realtà che è la grazia di essere abbracciati da Cristo».
Quel realismo che uno come Michelangelo aveva capito subito, al primo sguardo. Raccontano i biografi del Buonarroti che un giorno egli volle salire nella chiesa di San Domenico a Fiesole. Entrato, si fermò in silenzio davanti all’Annunziata dell’Angelico. «Bisogna che La vedesse sì fatta in Paradiso» disse poi, e aggiunse: «quest’huomo l’ha veduto il Paradiso».
Nel 1453, svolto l’incarico di priore nel convento di San Domenico succedendo al fratello Benedetto, l’Angelico venne nuovamente richiamato a Roma. Al suo amato chiostro fiesolano non farà più ritorno.
Fra Giovanni moriva al canto del Salve Regina nel convento domenicano della Minerva. Era il 18 febbraio 1455. Il suo corpo è ancora lì, nella basilica romana dell’ordine dei Frati predicatori, accanto alle spoglie mortali di santa Caterina da Siena. «Ai tuoi, o Cristo, donavo tutti i miei guadagni. Alcune opere sono in terra, altre in cielo [Altera nam terris opera exstat, altera coelo]», è scritto nell’epitaffio che riassume la sua vita. Ma forse, ancora una volta, più che le parole possono le immagini. Quelle da lui stesso lasciate nel convento di San Marco. Quella nel chiostro del convento dove Tommaso d’Aquino abbraccia il legno della croce ai piedi di Cristo. L’Angelico è tutto lì, in quell’immagine. Immagine che sembra rievocare il dialogo tra il Crocifisso e il Santo aquinate, quando Gesù dalla croce volgendosi verso di lui gli aveva detto: «Hai scritto bene di me, Tommaso, che ricompensa vuoi?»; e Tommaso: «Nessun’altra che Te», Non aliam quam Te. Non aliam mercedem quam Te.


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