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IL GENOCIDIO DEL POPOLO ARMENO
tratto dal n. 12 - 2001

Un olocausto poco politically correct

Il “Grande Male”


Così gli armeni chiamano l’olocausto del loro popolo: il genocidio di un milione e mezzo di persone quasi cancellato dalla memoria storica dell’Occidente. Era il 1915 quando gli armeni finirono schiacciati nel gigantesco scontro geopolitico tra imperi e nuove potenze che stava cambiando il mondo


di Giovanni Ricciardi



Le immagini qui raccolte sono alcune delle 80 istantanee che l’ufficiale tedesco di sanità Armin T. Wegner scattò clandestinamente in Anatolia tra il 1915 e il 1916, accompagnandole con materiale documentario. Sono in pratica le uniche, eccezionali  testimonianze fotografiche della deportazione e del genocidio degli armeni

Le immagini qui raccolte sono alcune delle 80 istantanee che l’ufficiale tedesco di sanità Armin T. Wegner scattò clandestinamente in Anatolia tra il 1915 e il 1916, accompagnandole con materiale documentario. Sono in pratica le uniche, eccezionali testimonianze fotografiche della deportazione e del genocidio degli armeni

Estate 1915. Mentre infuria il primo conflitto mondiale, nella parte orientale dell’Impero ottomano si consuma silenziosamente una delle tragedie più terribili nella storia del XX secolo: il genocidio degli armeni, progettato e messo in atto dai turchi con una premeditazione e una ferocia inaudite. Scarsissime le notizie che filtrano oltre confine, pochi i testimoni oculari in grado di fornire un quadro dei concitati avvenimenti di quei mesi. Avvenimenti che in seguito sarebbero quasi scomparsi dalla memoria storica dell’Occidente, fugacemente accennati nei libri di storia, nonostante le impressionanti dimensioni e la gravità dei fatti. In breve, tra il 1915 e il 1917, il governo turco dispose e mise in atto lo sterminio dell’intera popolazione armena. ûlla fine della guerra, dei circa due milioni e 100mila armeni residenti nelle province dell’Impero ne restavano in vita solo 600mila. Un popolo sopravvissuto a secoli di dominazioni straniere giunse in pochi mesi alla soglia dell’annientamento.Ma qu]st’evento fu il punto d’arrivo di una dinamica geopolitica che ha radici lontane nel tempo.
Il primo regno cristiano
della storia
L’Armenia è una regione situata tra l’Eufrate e il Caucaso, gravitante intorno ai laghi di Van, Sevan e Urmia. Gli armeni, d’origine indoeuropea, vi giunsero intorno al VII secolo a.C., fondendosi con l’elemento autoctono. Il loro nome (armenioi) era già noto allo storico greco Erodoto, che li accomuna ai Frigi. Dopo aver subito la dominazione persiana e quella macedone, costituirono un regno indipendente, sotto la dinastia degli Artassidi, nel II secolo a. C. Questo regno finì poi per gravitare nell’orbita dell’Impero romano, al quale, pur mantenendo una propria indipendenza, dovette cedere una parte del territorio, la cosiddetta Armenia minore. Nel 301 d.C., ancora prima dell’editto di tolleranza promulgato da Costantino il Grande, il re Tiridate III adottò il cristianesimo come religione di Stato e costituì così il primo regno cristiano della storia. Con il declino dell’Impero romano, gli armeni caddero sia sotto l’influenza di Bisanzio, sia sotto quella persiana, infine subirono, dal VII secolo, la dominazione araba, conservando però sempre una forte identità cristiana e costituendo una Chiesa nazionale. Ancora per brevi periodi, durante il medioevo, gli armeni riuscirono a ricostituire regni autonomi ma, dal XVI secolo in poi, gran parte del loro territorio cqdde sotto la dominazione dei Turchi ottomani. Essi rimasero così isolati anche geograficamente dal resto della hristianitas.
Sudditi cristiani dell’Impero ottomano, gli armeni non godevano dei "diritti civili" riconosciuti ai musulmani. Non avevano titolo al possesso della terra, ma dovevano allo Stato un’imposta fondiaria, e la loro parola non costituiva testimonianza valida nei tribunali dove era in vigore la sharia. Nonostante questa condizione d’inferiorità, che condividevano con altri cristiani — greci, bulgari, rumeni, assiro-caldei, serbi e macedoni — e con gli ebrei, la loro identità non era messa in discussione dai sultani turchi.

Ingerenze umanitarie
Gli avvenimenti politici e militari del XIX secolo, che sfociarono nella dissoluzione dell’Impero ottomano al termine della prima guerra mondiale, cambiarono però radicalmente i rapporti tra gli armeni e i loro dominatori. Sotto la spinta di questi eventi, si andava preparando la scena finale di un dramma i cui autori sono da ricercare, oltre che all’interno dell’Impero ottomano, anche nelle cancellerie e nelle corti d’Europa, soprattutto in quella degli zar.
A partire dal XVIII secolo la formidabile compagine dell’Impero ottomano entra in crisi. Le potenze europee assumono nei confronti del "grande malato" un atteggiamento contraddittorio. Da un lato, favoriscono il sorgere dei nazionalismi nei Balcani, allo scopo di sottrarre all’Impero i possedimenti europei. Dall’altro, esitano a sbarazzarsi del "gigante dai piedi d’argilla", nel timore che la Russia zarista approfitti del vuoto per espandersi sul versante caucasico. Del resto, gli zar non nascondevano propositi d’espansione in questa direzione ai danni della Sublime Porta.
Nel 1876 sale al potere il sultano Abdul Hamid. All’inizio del suo regno i russi infliggono una grave sconfitta all’Impero nelle regioni del Caucaso abitate dagli armeni. Nel successivo Congresso di Berlino (1878), gli zar inseriscono una clausola che permette loro di esercitare un diritto di "protezione" nei riguardi degli armeni, in quanto cristiani. S’inaugura così un principio di "ingerenza umanitaria" che risulterà nefasto per la nazione armena, fino allora considerata il millet-y-sadyka, "la comunità più fedele". I sospetti di collaborazionismo col nemico iniziano a serpeggiare, insieme con il risveglio del sentimento nazionale armeno.
Gli armeni, in realtà, non vagheggiavano sogni d’indipendenza o addirittura d’annessione alla cristiana Russia. Gelosi della propria autonomia e identità, non spingevano tuttavia per staccarsi dall’Impero. Nella loro middle class cominciava però a farsi strada la volontà di rivendicare quei diritti civili negati per secoli. Interprete di questo movimento fu anche il patriarcato armeno di Costantinopoli, che contribuiva a rappresentare la causa armena sulla scena internazionale.
La sfida di Hamid
In questo stato di cose, il sultano Abdul Hamid, soffiando sul fuoco dei sospetti e sfruttando il pretesto di alcuni attentati provocati da nazionalisti armeni, diede il via, tra il 1894 e il 1896, a una serie di massacri, servendosi per lo più di reggimenti di cavalleria formati da curdi. Le vittime furono circa 300mila, senza contare le migliaia di conversioni forzate all’islam. Il dado era tratto. L’Impero era pronto a misurare sulla pelle degli armeni le reali intenzioni dei suoi nemici storici. Dalle cancellerie dell’Occidente e dalla Russia vennero solo dichiarazioni d’indignazione e solidarietà, ma nulla più. Il sultano aveva saggiato la debole consistenza della "protezione" di cui godevano teoricamente i suoi sudditi cristiani. Questi massacri ebbero d’altra parte l’effetto di rafforzare tra gli armeni i sentimenti antimperiali, alimentando l’azione di quelle frange che fomentavano la resistenza armata contro i turchi, e che si coalizzarono nella nascente Federazione rivoluzionaria armena.

I Giovani Turchi
Il sacrificio degli armeni non servì a restituire ossigeno all’Impero agonizzante. Sul principio del secolo, infatti, i possedimenti ottomani in Europa si ridussero a un fazzoletto di terra intorno a Costantinopoli. L’Impero venne così a perdere la sua connotazione multietnica.
Esaurita la funzione storica del sultanato, una nuova forza cerca di restituire vigore alla compagine statale. Sono i cosiddetti Giovani Turchi, organizzati nel partito Unione e Progresso (Ittihad ve Terakki), che assume il potere nel 1908. La loro "modernità" li rende ben accetti agli europei. Proclamano di voler riformare l’Impero, laicizzando le sue istituzioni, e impongono al sultanato un regime costituzionale. "Democratizzare", appianare le diversità di trattamento tra i sudditi della Sublime Porta: gli armeni stessi all’inizio sono attratti da questa prospettiva. Ma le sirene riformatrici nascondono una realtà meno presentabile: una versione radicale di nazionalismo, inconciliabile con il vecchio potere. Il panturchismo dei Giovani Turchi vede nell’esaltazione del sentimento nazionale la via per restituire orgoglio e unità a un Impero sfilacciato. Risorge il mito di Turan, leggendario capostipite dell’etnia turca, e l’idea di ricomporre sotto la sua egida tutti i popoli che si riconoscono nella lingua, nella religione e nella razza turca. Questi popoli vivono a Oriente, nelle regioni che vanno dal Caucaso all’Asia centrale: uzbeki, tagiki, kazaki e azeri. L’Impero, umiliato a ovest, guarda ormai a est. E a est, a frapporsi fra i turchi e le etnie che si riconoscono in Turan, ci sono, oltre ai curdi, gli armeni. Ma, nella propaganda dei Giovani Turchi, sono soprattutto gli armeni a rappresentare un pericolo. Sono cristiani, sono implicitamente alleati delle potenze europee, sono a forte rischio di "secessione", come insegnavano i recentissimi avvenimenti, che avevano visto la nascita di una Bulgaria e di una Serbia indipendenti.
Nel congresso del partito Unione e progresso del 1912 viene adottata una risoluzione che prevede la "turchificazione" di tutti i residenti nell’Impero e segnatamente delle popolazioni cristiane. Turchificazione che "non potrà mai essere realizzata con mezzi persuasivi, ma solo con la forza delle armi".


Metz Yeghérn:
il "Grande Male"
Già nel 1909 il partito Ittihad aveva orchestrato una prova generale di quanto stava per compiersi di lì a poco, organizzando il massacro di 30mila armeni residenti in Cilicia. Gli armeni s’illusero di vedervi solo un rigurgito della vecchia politica del sultanato. Gli europei, da parte loro, mostrarono di non volerne creare un caso, troppo preoccupati di mantenere in vita il vacillante Impero. Iniziava così quello che gli armeni chiamano Metz Yeghérn: il "Grande Male", un’espressione che indica insieme il male fisico e morale, la tortura e il dolore di un popolo.
Nel 1913, esautorando quasi completamente il sultanato, i Giovani Turchi inaugurano una dittatura militare in cui spiccano tre figure dominanti: Djemal, Enver Pascià e Talaat Pascià, futuri ministri della Marina, della Guerra e dell’Interno. In seno al partito Unione e progresso si teorizza e si pianifica la "soluzione finale" della questione armena. Viene messa in piedi a questo scopo una "Organizzazione speciale" guidata da due medici, Nazim e Beheaddine Chakir. Al loro servizio, bande di irregolari, detenuti per crimini comuni nelle carceri turche, vengono organizzati in squadre del terrore.
Per giunta, nel febbraio del 1914, la Russia costringe i turchi a firmare un trattato che impone loro il controllo di ispettori stranieri sulle province armene, a tutela della minoranza cristiana.
Alla vigilia della guerra, gli armeni, che dal 1909 erano stati ammessi al servizio militare, chiedono al governo turco di mantenere la neutralità, ma, in caso di intervento, si dichiarano pronti a servire fedelmente l’Impero ottomano. La gran parte dei maschi adulti si arruola nell’esercito. Il governo turco, nell’estate del 1914, in previsione dell’intervento, chiede agli armeni di impegnarsi a suscitare ribellioni tra i loro connazionali che vivono al di là del confine, in territorio russo. La richiesta appare ai dirigenti armeni troppo compromettente, e non se fa nulla.
La guerra per i turchi si apre, nell’inverno del 1914, con la campagna contro i russi. Teatro degli scontri, il Caucaso. La disfatta degli ottomani su questo fronte è pressoché totale. La III Armata turca è annientata a Sarikamish il 15 gennaio 1915. I turchi additano gli armeni come responsabili della disfatta. I russi sono penetrati in territorio turco sotto la guida di quattro legioni formate da armeni sudditi dello zar, che ben conoscono l’intricato labirinto delle montagne armene. Gli armeni di Turchia non sono complici di questa strategia. Ciononostante, l’accusa di tradimento è la molla che fa scattare un piano di sterminio premeditato da tempo, e ora favorito dalla situazione internazionale.

24 aprile: il giorno
della memoria
Gli armeni celebrano il 24 aprile come "giorno della memoria". In quella data, nel 1915, fu eseguito l’arresto di cinquecento tra notabili e intellettuali armeni di Costantinopoli. Essi furono deportati verso l’interno e uccisi. Fu così decapitata l’intellighenzia del popolo. Ma già dal gennaio di quell’anno lo sterminio degli armeni che militavano nell’esercito era a buon punto. Essi vengono inizialmente privati delle armi. Ridotti in squadre di 300 o 500 unità, sono utilizzati per alcuni mesi per compiere lavori pesanti: "Invece di servire la loro patria come artiglieri o cavalleggeri" scrisse Henry Morgenthau, ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Impero ottomano, "questi soldati scoprono improvvisamente di essere spaccapietre per lavori stradali e bestie da soma. I pezzi di artiglieria e le munizioni vengono caricati sulle loro spalle, i giovani armeni di leva incespicano sotto i carichi, spinti dalle frustate e dalle baionette dei turchi, forzati a trascinare i loro fardelli verso le montagne del Caucaso. Alle volte devono farsi strada, caricati oltre misura, con la neve fino alla cintola".
Terminata questa fase, i soldati vengono sistematicamente eliminati dalle squadre delle Organizzazioni speciali. Nell’estate del 1915 tutti gli armeni arruolati sono stati già passati per le armi.
Nei distretti orientali rimangono ormai solo donne, vecchi e bambini. Anche per loro la sorte è segnata. Ufficialmente il governo turco emana, il 24 giugno, un ordine di trasferimento delle popolazioni civili armene dal teatro dei combattimenti verso zone più sicure. In realtà, un viaggio verso il nulla.

In viaggio
verso il nulla
Deir ez-Zor è una località nel deserto della Siria, non distante da Aleppo. Fu il capolinea della morte per centinaia di migliaia di armeni, tra il giugno del 1915 e il luglio del 1916. Assaliti durante il viaggio dalle bande della Organizzazione speciale di Nazim e Chakir, lasciati per giorni senza cibo o costretti a marce forzate, erano pochi, in proporzione, quelli che giungevano alla infame destinazione, dove avrebbero comunque trovato la fine.
Le stragi iniziavano a partire dai villaggi di provenienza. Così ricordava quei giorni Giacomo Gorrini, console generale d’Italia a Trebisonda e testimone oculare dei fatti: "Dal 24 giugno" — raccontava in un’intervista apparsa sul quotidiano romano Il Messaggero il 25 agosto 1915 — "giorno della pubblicazione dell’infame decreto, fino al 23 luglio, giorno della mia partenza da Trebisonda, io non avevo dormito: non avevo mangiato più, ero in preda ai nervi, alla nausea, tanto era lo strazio di dover assistere ad una esecuzione in massa di creature inermi, innocenti. Il passaggio delle squadre degli armeni sotto le finestre e davanti la porta del consolato, le loro invocazioni al soccorso senza che né io né altri potessimo fare nulla per loro, la città essendo in stato d’assedio, guardata in ogni punto da 15mila soldati in pieno assetto di guerra, da migliaia di agenti di polizia, dalle bande dei volontari e dagli addetti del comitato Unione e progresso; i pianti, le lacrime, la desolazione, le imprecazioni, i numerosi suicidi, le morti subitanee per lo spavento, gli impazzimenti improvvisi, gli incendi, le fucilate in città, la caccia spietata nelle case e nelle campagne; i cadaveri a centinaia trovati ogni giorno sulla strada dell’internamento, le giovani donne ridotte a forza musulmane o internate come tutti gli altri, i bambini strappati alle loro famiglie o alle scuole cristiane e affidati per forza alle famiglie musulmane, ovvero posti a centinaia sulle barche con la sola camicia, poi capovolti e affogati nel mar Nero o nel fiume Dére Méndere, sono gli ultimi incancellabili ricordi di Trebisonda, ricordi che, ancora, a un mese di distanza, mi straziano l’anima, mi fanno fremere".
All’ambasciatore Morgenthau, che protestava invano per quest’immane disegno criminoso, Talaat Pascià rispondeva: "Perché v’interessate tanto agli armeni? Voi siete ebreo e questa gente è cristiana. I musulmani e gli ebrei si capiscono meglio".

Una tragica
testimonianza
Henry Morgenthau era nato a Mannheim nel 1856 da famiglia ebrea. Trasferitosi in America, divenne avvocato di successo e membro del Partito democratico. Fu nominato ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Impero ottomano nel 1913, all’indomani dell’elezione del presidente Wilson. Alla fine del conflitto, nel libro di memorie Ambassador Morghentau’s Story, dedicò un lungo capitolo al genocidio armeno (The murder of a nation), preziosissimo per la ricostruzione storica dei fatti. Così descrive le deportazioni di cui fu testimone oculare: "Alla partenza, questi disgraziati assomigliavano ancora a degli esseri umani, ma dopo qualche giorno, quando la polvere della strada aveva imbiancato le facce e i vestiti, e il fango si era indurito sulle gambe e sui piedi, distrutti dalla fatica e annichiliti dalla brutalità dei loro "protettori", avevano l’aria di animali strani e sconosciuti. Durante circa sei mesi, dall’aprile all’ottobre del 1915, quasi tutte le grandi vie dell’Asia Minore erano intasate da queste orde di esiliati. Si poteva vederle affollare le valli, o scalare i fianchi di quasi tutte le montagne, marciando e marciando sempre senza sapere dove, se non che ogni sentiero conduceva alla morte. Villaggi dopo villaggi, città dopo città, furono spogliati della loro popolazione armena, in condizioni simili. Durante questi sei mesi, da quanto si può sapere, circa 1.200.000 persone furono indirizzate verso il deserto della Siria. "Pregate per noi", dicevano, abbandonando i focolari che 2.500 anni prima avevano fondato i loro avi. "Non torneremo mai più su queste terre, ma noi ci ritroveremo un giorno. Pregate per noi!". Avevano appena abbandonato il suolo natale che i supplizi cominciavano; le strade che dovevano seguire non erano che dei sentieri per muli dove procedeva la processione, trasformata in una ressa informe e confusa. Le donne erano separate dai bambini, i mariti dalle mogli. I vecchi restavano indietro esausti, i piedi doloranti. I conduttori dei carri trainati dai buoi, dopo avere estorto ai loro clienti gli ultimi quattrini, li gettavano a terra, loro e i loro beni, facevano dietro front e se ne tornavano ai villaggi, alla ricerca di nuove vittime. Così, in breve tempo, tutti, giovani e vecchi, si ritrovavano costretti a marciare a piedi; e i gendarmi che erano stati inviati, per così dire, per proteggere gli esiliati, si trasformavano in veri carnefici. Li seguivano, baionetta in canna, pungolando chiunque facesse cenno di rallentare l’andatura. Coloro i quali cercavano di arrestarsi per riprendere fiato, o che cadevano sulla strada morti di fatica, erano brutalizzati e costretti a raggiungere al più presto la massa ondeggiante. Maltrattavano anche le donne incinte e se qualcuna, e ciò avveniva spesso, si accovacciava ai lati della strada per partorire, l’obbligavano ad alzarsi immediatamente e a raggiungere la carovana. Inoltre, durante tutto il viaggio, bisognava incessantemente difendersi dagli attacchi dei musulmani. Distaccamenti di gendarmi in testa alle carovane partivano per annunciare alle tribù curde che le loro vittime si avvicinavano e ai paesani turchi che il loro desiderio finalmente si realizzava. Lo stesso governo aveva aperto le prigioni e rilasciato i criminali, a condizione che si comportassero da buoni maomettani all’arrivo degli armeni. Così ogni carovana doveva difendere la propria esistenza contro più categorie di nemici: i gendarmi di scorta, i paesani dei villaggi turchi, le tribù curde e le bande di cetè o briganti. Senza dimenticare che gli uomini che avrebbero potuto proteggere questi sfortunati erano stati tutti uccisi o erano stati arruolati come lavoratori, e che i malcapitati deportati erano stati sistematicamente spogliati delle armi. A qualche ora di marcia dal punto di partenza, i curdi accorrevano dall’alto delle loro montagne, si precipitavano sulle ragazze giovani e, spogliandole, stupravano le più belle, come pure i bambini che piacevano loro, e rapinavano senza pietà tutta la carovana, rubando il denaro e le provvigioni, abbandonando così gli sfortunati alla fame e allo sgomento".

Armin T. Wegner

Armin T. Wegner

Gli scampati
A pochi fu risparmiata la vita: a bambini in tenera età, indirizzati in orfanotrofi turchi e destinati a smarrire la memoria della loro origine; a coloro che forzosamente si convertivano all’islam; alle donne rapite e date in spose a turchi o rinchiuse negli harem. Oltre a questi, scamparono al genocidio gli abitanti della regione di Van, circa 300mila, salvati dall’avanzata delle truppe russe; gli armeni di Costantinopoli, troppo vicini alle rappresentanze diplomatiche, e quelli di Smirne, difesi dall’intervento del generale tedesco Liman von Sanders; infine, gli armeni del Libano e della Palestina. È passato alla storia il caso dei cinquemila armeni assediati per un mese e mezzo sulla montagna del Mussa-Dagh, a nord del Libano, e messi in salvo da una nave francese allertata da una bandiera issata dagli assediati, che recava la scritta: "Christians in distress: rescue!" (Cristiani in pericolo, soccorso!). La loro vicenda fu narrata nell’epico romanzo I Quaranta giorni del Mussa-Dagh con cui Franz Werfel, scrittore ebreo praghese, volle rendere giustizia a una tragedia che già in quegli anni pareva dimenticata dalla memoria collettiva.
"Chi si ricorda oggi del
massacro degli armeni?"
Osservava Morgenthau nel 1918: "Le grandi persecuzioni dei tempi passati sembrano insignificanti di fronte alle sofferenze sopportate dalla razza armena nel 1915. […] Il solo precedente nella storia, che più assomiglia alle deportazioni armene, sembra essere l’espulsione degli ebrei di Spagna da parte di Ferdinando e Isabella. Secondo Prescott, 160mila ebrei furono strappati dalle loro case e dispersi per tutta l’Africa e l’Europa. Ma tutte queste persecuzioni non sono nulla se paragonate a quella degli armeni, che causò la morte di almeno 600mila, o forse un milione di persone. Ma l’ideale che ispirò queste barbare esecuzioni fu un pretesto: esse furono il risultato del proselitismo e la maggior parte degli istigatori credeva sinceramente di servire fedelmente il Creatore. Senza alcun dubbio il popolino turco e curdo immolò gli armeni per far piacere al Dio di Maometto, spinto da zelo religioso; ma gli uomini che concepirono il crimine avevano tutt’altro scopo, essendo tutti atei, non rispettando né il maomettanesimo, né il cristianesimo, la loro unica ragione fu una questione di politica di Stato, premeditata e spietata".
Certamente né Werfel né Morgenthau immaginavano, contribuendo al nobile intento di perpetuare la memoria del primo genocidio del XX secolo, che pochi anni più tardi un destino altrettanto tragico sarebbe toccato a quel popolo ebraico di cui erano figli. Il romanzo di Werfel vide la luce nel 1933, l’anno in cui Hitler saliva al potere in Germania. Proprio Hitler, alla vigilia dell’invasione della Polonia, il 22 agosto del 1939, di fronte agli ufficiali dello Stato maggiore, mentre disegnava lo scenario che avrebbe insanguinato l’Europa col genocidio del popolo ebraico, alle obiezioni dei suoi collaboratori replicò: "Chi si ricorda oggi del massacro degli armeni?".
Gli armeni subirono, infatti, a partire dagli anni Venti, un "secondo" sterminio: un vero e proprio "genocidio della memoria", che ha avuto non pochi complici, in primis i nuovi governanti turchi. E la questione del riconoscimento internazionale del genocidio armeno è oggi, a più di ottant’anni di distanza, ancora aperta.




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