Le carte Pavan
Il saggio di Andrea Riccardi su Pio XII e Alcide De Gasperi, con l’accattivante sottotitolo Una storia segreta, è imperniato su due colloqui ufficiosi che, per incarico della Segreteria di Stato, l’allora monsignor Pietro Pavan, più tardi divenuto cardinale e notoriamente estensore della bozza delle encicliche di Giovanni XXIII, ebbe con il presidente
Giulio Andreotti

Alcide De Gasperi
Degli incontri, Pavan stese un succinto verbale-relazione conservandone copia; ed è su queste che Riccardi ha lavorato, pubblicandole. Non so – ma lo escluderei – se Pavan avesse fatto rivedere il testo al presidente. Comunque sono passati più di cinquanta anni e nella sostanza (se non nelle forme) sembra rispettato il tempo vaticano della segretezza.
Tre anni prima, il 20 dicembre 1948, Pavan aveva scritto a De Gasperi un rimprovero per il suo discorso della sera precedente che con severità egli definiva «spiegabile in una arringa elettoralesca o in un dibattito parlamentare, ma non in una conversazione che il capo del governo tiene attraverso la radio a tutta la nazione».
Il presidente aveva stigmatizzato lo sciopero indetto dai pubblici dipendenti, per il danno che arrecava alla collettività in quel difficile momento. Al radiodiscorso aveva reagito duramente la Confederazione generale italiana del lavoro (onorevole Di Vittorio) auspicando che il Parlamento si dissociasse dal governo.
Perché il responsabile dell’Istituto cattolico attività sociali (il centro prepolitico e presindacale al quale monsignor Montini aveva fatto preporre Pavan) intervenisse così bruscamente non è chiaro. Non ignoravano certamente le condizioni asfittiche del bilancio statale.
De Gasperi fu amareggiato, ma non reagì troppo. Questa volta però Pavan non rappresentava l’Icas, ma ben di più.
L’incontro, richiesto dal Pavan, avvenne il 5 dicembre 1951. La prima legislatura della Repubblica stava procedendo con molte difficoltà. Una parte degli elettori non gradiva le riforme degasperiane (latifondi frazionati e dati ai contadini e la Cassa per il Mezzogiorno). Avevano votato come difesa dal Fronte comunista, ma non condividevano – per interessi o psicologicamente – questo tipo di effettiva innovazione. Serpeggiava anche un malcontento circa una presunta debolezza del governo verso i comunisti. Così, mentre da sinistra si imprecava contro il governo dei borghesi, il moderatismo – cattolico e no – considerava la non messa fuori legge delle estreme un segno di imbelle timidezza. Questo mugugno sarebbe durato a lungo: e non fu estraneo anche all’azione di certi “deviazionisti”, increduli o almeno scettici sulla efficacia del metodo democratico.
Pavan disse senza perifrasi a De Gasperi che Pio XII riteneva l’azione del governo non sufficientemente decisa a contrastare con efficacia l’estrema sinistra. Una vittoria di questa avrebbe fatto trovare la Chiesa universale nelle più gravi difficoltà.
De Gasperi espresse il suo rammarico perché chi informava il Papa lo faceva sulle manchevolezze, reali o supposte, della politica del governo, e poco «sullo sforzo continuo, intenso, logorante, sostenuto per procedere nell’opera di ricostruzione, in un contesto di avversione di uomini e di partiti, pochezza di mezzi, necessità di armamenti, disastri imprevisti come le alluvioni». La lotta politica sarebbe stata certamente dura, ma non era disperata e le forze sane avrebbero avuto certamente il sopravvento.
Era poi errata, secondo De Gasperi, la censura per aver messo fuori legge il fascismo, senza adottare alcuna normativa verso il comunismo. Non andava dimenticato che una percentuale dal 35 al 40 per cento degli elettori italiani aveva votato socialcomunista. Come si poteva prendere di petto il comunismo in Italia? Sarebbe stata la guerra civile, e forse anche la guerra vera e propria. D’altra parte nessuno minacciava l’esistenza del Movimento sociale italiano. Il presidente non eccepì – come avrebbe potuto fare – l’incompetenza circa la critica alla sua titolarità ad interim del Ministero degli Esteri (a Berlusconi nel 2002 sfuggì questo precedente). Accennò invece alle ampie deleghe che aveva il sottosegretario Taviani. La conclusione del verbale è questa: «Si immagini, monsignore, se non mi impegno a fondo. Qualora dovesse avere il sopravvento il comunismo anche per brevissimo tempo, il primo ad essere impiccato sarei io».
Non sappiamo se, con autografo o a voce (in questo caso annotati da Tardini) il Papa espresse commenti sui singoli punti. Sta di fatto che poche settimane dopo prese corpo quella che venne chiamata l’Operazione Sturzo.
In vista delle elezioni amministrative di Roma del maggio 1952 fu posto al segretario politico della Democrazia cristiana il quesito se vi fosse il rischio di un sindaco comunista. Onestamente Gonella rispose che in tutte le libere elezioni non si possono escludere rischi. Di qui lo scatenamento di una iniziativa sfrenata di Luigi Gedda e di padre Lombardi: dato che l’apparentamento dei partiti governativi non dava la certezza di vincere si dovevano mettere da parte. Lo stesso dovevano fare monarchici e missini, facendo tutti confluire l’elettorato verso una lista civica. A fugare dubbi democratici fu chiesto all’obbedientissimo (verso la Chiesa sempre) don Sturzo di benedire la spoliticizzazione, anzi di assumerne la paternità. E con rara imprudenza si andava ripetendo che il Papa voleva così.
Ora, che Gedda (anche se i Comitati civici non erano solo Gedda) fosse benemerito per le elezioni del 18 aprile era fuori dubbio. Ma l’antica Roma ai combattenti vincitori riservava trionfi e distribuiva terre; ma non dava incarichi politici. Gedda in quei primi mesi del 1952 si sentiva plenipotenziario. Ha scritto più tardi – incredibile totalmente – che Pio XII lo incaricò perfino di andare a dire a monsignor Montini di non occuparsi di cose italiane.
In vista delle elezioni amministrative di Roma del maggio 1952 fu posto
al segretario politico della Democrazia cristiana il quesito se vi fosse il rischio
di un sindaco comunista. Onestamente Gonella rispose che in tutte le libere elezioni non si possono escludere rischi. Di qui lo scatenamento di una iniziativa sfrenata di Luigi Gedda e di padre Lombardi...
La situazione stava prendendo una bruttissima piega. Per propagandare l’Operazione Sturzo padre Lombardi non tralasciava sforzi oratori e fece persino una visita intimidatoria alla signora De Gasperi. Qui devo aprire una parentesi sull’importante gesuita del dopoguerra, per tanti versi eccellente ed acuto. Su due risvolti in particolare fu efficace e serio: 1) l’organizzazione di esercitazioni spirituali per uomini politici, integrando il modello di esercizi ignaziano con scambi di idee intrecciati tra tutti i partecipanti; 2) prospettiva di illuminate linee di riforma delle strutture ecclesiastiche per le quali catechizzò uno ad uno tutti i cardinali (un giorno lo trovai a Palestrina e mi disse che era lì per indottrinare il cardinale Aloisi Masella, in visita sul posto). Nell’attualità politica invece – che non era il suo campo – il padre prendeva terribili cantonate. Posso citare un episodio specifico. Eravamo ad Assisi per il Congresso eucaristico del settembre 1951 e ci trovavamo in un ristretto gruppo alla mensa del vescovo diocesano, presieduta dal cardinale Schuster, legato pontificio. Padre Lombardi descrisse in toni angosciosi la situazione italiana e, esemplificando, disse che a Torino ormai erano tutti comunisti. Quando gli obiettai che non era così, dato che il sindaco Peyron era democristiano con i comunisti all’opposizione, cadde dalle nuvole e cambiò subito discorso.
Tornando all’Operazione Sturzo, la situazione era divenuta tesissima. Socialdemocratici e repubblicani dichiaravano che se a Roma si fosse davvero capitolato dinanzi alle destre si sarebbero dimessi dal governo. De Gasperi, che fino ad un certo momento aveva contrastato l’Operazione, ma riservatamente, quando seppe che l’Azione cattolica aveva ritirato i nomi già dati per la lista romana della Democrazia cristiana, ritenne necessario un intervento diretto. Bisognava informare personalmente il Santo Padre delle conseguenze di questa improvvida iniziativa.
Stesi in tutta fretta un appunto e mi recai di persona dalla fedelissima madre Pascalina perché lo mostrasse subito al superiore.
Ecco il testo:
«Sulle elezioni di Roma.
È fuor di dubbio che una lista apparentemente extrapolitica ma di fatto risultante dalla Dc+Msi+Pnm avrebbe queste conseguenze:
1) Nelle province dove si tengono elezioni la propaganda di destra farebbe perno sul declino della fiducia ecclesiastica verso la Dc e sull’esaltazione del Msi come “salvatore di Roma”. Chi si gioverebbe di questa erosione dei partiti di centro? I comunisti, che andrebbero a conquistare di colpo le amministrazioni, attraverso l’acquisizione della maggioranza relativa.
2) Nelle province del Nord, dove la Dc ha conquistato solide basi nel mondo operaio e contadino (si pensi alle province lombarde, a quelle piemontesi, ecc.), si avrebbe un’immediata ripercussione della slittata a destra e verso il Msi che è considerato l’erede diretto della Repubblica sociale. Chi si avvantaggerebbe di questa crisi? Forse i socialdemocratici e i liberali, ma più probabilmente i socialcomunisti. Bella preparazione per il ’53!
3) I tre partiti minori del 18 aprile assumerebbero una posizione di chiaro risentimento e le correnti anticlericali – con tanta fatica arginate in questi anni – riprenderebbero quota. Si può escludere che questi partiti vadano a dare man forte alla lista Nitti, ma non si può davvero pensare che i simpatizzanti elettori dei tre partiti diano il loro voto al listone di centrodestra. Basti considerare il popolo minuto più o meno ebraicizzante del ghetto che è fedele al Partito repubblicano e che ricorda troppo da vicino le razzie dei fascisti di Salò.
4) Cadrebbero gli accordi con i repubblicani per i Castelli Romani a tutto vantaggio dei comunisti.
5) Non sono da escludersi le dimissioni del ministro Pacciardi con intuitivi commenti in America e nel mondo atlantico.
6) Quasi certamente i parlamentari socialdemocratici e liberali toglierebbero l’appoggio al governo in Senato, il che vuol dire:
a) crisi di governo possibili ogni momento;
b) blocco di tutte le leggi che a noi interessa condurre in porto a cominciare da quella sulla stampa, per andare a quella sulla Radio Vaticana e, per finire, ad ogni utile riforma elettorale politica.
7) Anche a prescindere dall’instabilità di cui al n. 6, il prestigio della Democrazia cristiana e del governo verrebbe indebolito immediatamente in campo internazionale. E ne prenderebbero forse istantaneo pretesto gli angloamericani per le trattative che sono in corso su Trieste.
8) Le documentatissime posizioni contro la Chiesa e contro la morale cristiana assunte dai fascisti di Salò e di recente dal comandante Lauro nel noto discorso esaltatore della limitazione delle nascite, verrebbero certamente sfruttate contro il “listone”, arrecando turbamento certo tra i cattolici sinceri.
Il timore di perdere le elezioni a Roma non appare del resto così giustificato se si tiene conto delle possibilità proselitistiche immense di una campagna condotta con chiarezza di posizioni, così come già è iniziata.
Per parare sleali campagne dei fascisti la Dc ha già ottenuto che in una solenne riunione degli ufficiali e degli appartenenti alla ex Milizia si faccia formale riconoscimento della politica pacificatrice del governo, che proprio in questi giorni ha accordato la pensione agli ex militi del ventennio, dopo averla in precedenza concessa a tutti gli invalidi anche del periodo di Salò. Tale riunione sarà presieduta dal generale Galbiati già capo di Stato maggiore della Milizia ed uno dei sei membri del Gran consiglio che il 25 luglio ’43 votarono contro l’o.d.g. Grandi. Egli è pertanto una fonte non sospetta di testimonianza obiettiva.
...dato che l’apparentamento dei partiti governativi non dava la certezza di vincere si dovevano mettere da parte.
Lo stesso dovevano fare monarchici e missini, facendo tutti confluire l’elettorato verso una lista civica. A fugare dubbi democratici fu chiesto all’obbedientissimo (verso
la Chiesa sempre) don Sturzo
di benedire la spoliticizzazione, anzi di assumerne la paternità. E con rara imprudenza si andava ripetendo che il Papa voleva così
Sembra che l’onorevole De Gasperi abbia fino a questo momento sempre guidato vittoriosamente la lotta al comunismo in Italia. Perché mai non gli si dovrebbe far credito in questi frangenti, quasi sentisse meno di altri la preminente esigenza di una difesa gelosa della città di Roma, sede episcopale del papa?».Un’ora dopo mi chiamò al telefono monsignor Tardini rimproverandomi, ma dolcemente, perché non mi ero fidato di loro; ma mi comunicava, perché informassi De Gasperi, che il Papa non voleva davvero provocare una crisi di governo. L’Operazione Sturzo ammainava le vele. Questa volta tramite monsignor Montini, De Gasperi fece dire al Papa che, a dimostrare l’impegno totale per Roma, era lui stesso disposto a presentarsi candidato al consiglio comunale. La risposta fu sollecita: prendeva atto e ringraziava, ma ci mancava altro che rischiare così la sussistenza del governo.
Nel frattempo don Sturzo, che non aveva neppure avuto l’adesione formale delle destre, ritirò la sua “proposta”.
A tarda sera mi chiamò a casa padre Lombardi, dicendo che non sapeva chi avesse fatto fallire l’impresa. Ma non finiva così e dovevamo riprenderla. Cosa suggerivo? Cosa poteva fare? Io ero stanchissimo e con i nervi tesi. Forse fui poco cortese, ma gli risposi che non sapevo cosa volesse fare lui, ma quel che facevo io sì: «Buona notte, padre». E andai subito meritatamente a dormire.
Le elezioni si svolsero il 25 maggio. La Dc e gli apparentati raccolsero oltre il margine necessario per impedire il passaggio di mano nel Colle capitolino. La Dc ebbe 36 seggi, contro i 7 comunisti e i 5 socialisti. Ma il mugugno antidegasperiano non si attenuò. Monsignor Pavan fu incaricato di una seconda missione presso De Gasperi. Il colloquio si svolse il 13 agosto 1952 nella residenza estiva del presidente a Borgo Valsugana (il primo era avvenuto nella casa romana di largo Cavalleggeri). Si comprendeva, anche se non lo si diceva esplicitamente, l’impossibilità politica per la Dc di stipulare intese con i neofascisti del Movimento sociale; ma gli elettori del Partito monarchico erano in notevole misura cattolici e democratici; per di più non avevano progetti o illusioni di restaurazione. Sembrava quindi necessario un collegamento con questo partito.
De Gasperi illustrò pazientemente il contesto politico nel quale si trovava la Democrazia cristiana, la cui impostazione era quella di mantenere compatti i cattolici democratici senza scivolamenti. A parte tutto, scivolamenti della Dc verso destra avrebbero provocato contraccolpi nel nostro elettorato del Nord; mentre all’ipotesi contraria ostava il forte anticomunismo del Sud. Se la Dc si fosse unita soltanto con movimenti di destra o soltanto con movimenti di sinistra rischiava lo sfaldamento. Di qui la posizione di centrismo sociale, che Pavan poco felicemente tradusse nel suo resoconto come «una linea di centro-sinistra con apertura verso destra».
Più esatta invece è la trascrizione del pensiero degasperiano sulle sole alleanze accettabili (e possibili) e cioè con i liberali, i socialdemocratici e i repubblicani. Oltretutto che credito popolare e riformista avrebbe la Dc – aveva detto il presidente – se si alleasse con il partito di Lauro e di Covelli?
Di estremo valore storico è la seconda parte del rapporto Pavan, che lo stesso monsignore classifica come confidenziale.
Eccola:

il cardinale Pietro Pavan
Il presidente risponde:
1) (sic) Un incontro con il Santo Padre è gradito, graditissimo. Però non posso dimenticare che sono:
a) il leader di un partito politico;
b) il capo di un governo.
Non posso quindi espormi al rischio di cercare un incontro che non sia accetto.
II) Monsignor Pavan insiste: (sic) E se si preparasse il terreno?
Il presidente: bisognerebbe essere sicuri che al Santo Padre l’incontro è accetto.
III) Monsignor Pavan: in tal caso ella non prevede alcun inconveniente?
Il presidente: esporrei con tutta franchezza la mia tesi.
1) Se il Santo Padre mostra di tenerla in considerazione, niente di meglio.
2) Se il Santo Padre – per ragioni Sue proprie – non la ritiene convincente, ma lascia libertà di scelta, essendo io profondamente convinto della aderenza della mia tesi alla contingenza storica, agirei di conseguenza, nella certezza di fare il bene dell’Italia e della Chiesa.
3) Se il Santo Padre decide diversamente, in tal caso mi ritirerei dalla vita politica. Sono cristiano, sono sul finire dei miei giorni e non sarà mai che io agisca contro la volontà espressa del Santo Padre. (Il presidente ebbe una flessione nella voce che rivelava uno stato d’animo di profonda commozione). Quindi, ricomponendosi, riprendeva ribadendo lo stesso concetto: «Mi ritirerei dalla vita politica, non potendo svolgere un’azione politica in coscienza ritenuta svantaggiosa alla patria e alla stessa Chiesa. In tal caso altri mi sostituirà».
L’udienza non ci fu. Poiché non posso credere che Pio XII non abbia letto il rapporto Pavan devo dedurne che nel non dar corso all’idea fosse ispirato, da un lato, dalla convinzione che la presunta rigidità della Democrazia cristiana non fosse giusta, ma nel contempo dal non volere che De Gasperi uscisse di scena. Devo ricordare che tre anni prima – ventennale della Conciliazione – aveva rivolto pubblicamente a De Gasperi un elogio straordinario il cui testo era stato da lui personalmente scritto.
Tuttavia alla visita estiva di Pavan si deve se il presidente utilizzò, pochi giorni dopo (31 agosto), un incontro a Predazzo con delegazioni venute da tutto il Trentino per festeggiare i suoi cinquanta anni di vita pubblica, per tenere un discorso di ampio respiro, entrando anche sul tema dello slittamento a destra di una parte dei nostri elettori. Prima di recarsi a Sella aveva esaminato a fondo le sollecitazioni degli alleati di governo, che erano nello stesso tempo ispirate dal timore di scomparire e dal desiderio di non avere una Dc troppo forte, tale da non renderli necessari. In modo particolare Saragat chiedeva una modifica alla legge elettorale, con un moderato premio di maggioranza. L’idea disturbava De Gasperi per il ricordo della legge Acerbo, ma un piccolo supplemento di seggi alla coalizione vincente non era fuori da un sistema rigorosamente democratico.
Era stata proposta – ma scartata subito – la riesumazione di un modello adottato una sola volta nel secolo decimonono: il pentanominale. Associare ai democristiani, in ogni cinquina, uno o più candidati dei partiti minori rispondeva alle aspirazioni di questi; ma proprio De Gasperi ritenne insuperabile una obiezione di fondo. Se c’è Pacciardi nella scheda le donne cattoliche non la voteranno; e se in Romagna c’è un cattolico militante i repubblicani avrebbero fatto altrettanto. Meglio lavorare sul premietto di maggioranza, sperando che tra i democristiani e i minori si raggiungesse il quorum fissato.
Occorreva portare questo discorso dall’ambito ristretto dei vertici dei partiti ad una sensibilizzazione popolare. Anche il problema dei monarchici andava chiarito con fermezza senza polemiche.
Grande folla era convenuta a Predazzo. De Gasperi cominciò con il ricordo di quando, giovanissimo, aveva partecipato in questa valle allo sciopero dei segantini per ottenere le undici ore di lavoro quotidiano nel taglio della legna. Lodò poi l’attività della Regione Trentino-Alto Adige e del suo presidente Tullio Odorizzi; e colse l’occasione per prendere le distanze sia dagli antiregionalisti che dai regionalisti ad oltranza. «La Costituzione bisogna che venga attuata; però cum grano salis, con l’esperienza a tempo e a luogo». A questo punto ricordò il 1947 e la rottura del governo di coalizione con i comunisti, i quali, disse, «facevano il nido per conquistare tutto». Di qui l’impossibilità di contenere così il pericolo comunista che, checché ne dicesse Nenni, c’era e come!
Era giusto dire che noi fossimo contro le sinistre, ma tiepidamente, mentre con le destre eravamo tanto intransigenti?
Chiamò l’attenzione della folla:
«Se ci fosse stata al congresso del Msi soltanto un’affermazione dell’economia programmatica socializzatrice (sentite come suona bene) corporativa, si potrebbe discutere di queste cose. C’è una parte di verità, una parte di errore, soprattutto molta fantasia, molta fraseologia senza contenuto: la esperienza l’abbiamo fatta e abbiamo visto come il sistema corporativo presupponesse la dittatura; ma su tutto questo – dico – si potrebbe ancora discutere se si fosse certi che essi accettano il metodo democratico.
Dicono veramente che lo accettano nei rapporti fra i partiti. È facile accettarlo fra i partiti quando si è minoranza. Ma lo accettano e lo applicano come Stato, se essi conquistano il potere? Non c’è nessuna garanzia che lo facciano. Al loro congresso hanno fatto delle affermazioni ripetute, dicendo che la democrazia è un espediente tattico.
Certo se non ci fossero che un programma od una mozione; se fossimo dinanzi a giovani inesperti, a giovani che vogliono tentare una nuova via, animati da spirito patriottico per ricostruire l’Italia, bisognerebbe essere molto generosi, lasciarli sperimentare, rinfrancarli nella corsa e nel cammino; ma forse per colpa dell’età e dell’esperienza antica non riesco a vederli, anche se non li conosco personalmente, ma non riesco a vederli se non con gli stivali e col pugnale al fianco.
Impossibile non vederli gambalati e in camicia nera; è impossibile per i miei occhi o forse mi sbaglio? Il passato pesa, vedo che se li lasciamo fare, se li lasciassimo fare, metterebbero ancora l’Italia al passo dell’oca.
Non vogliamo esprimere condanne, ma non possiamo accettare che oggi ritornino (mascherandosi con le debite cautele) allo stesso pensiero, alle stesse affermazioni e agli stessi ideali».
Con una premessa di comodo perché lo sapeva, affrontò il tema di fondo: «Non so se ci sono presenti uomini del partito monarchico».
«Quando noi parliamo di stabilità di governo non intendiamo la permanenza al governo di De Gasperi o di Gonella o del Partito democratico cristiano. No. L’alternativa può esserci, ma dentro le frontiere della democrazia italiana.
Si tratta di facilitare la formazione di una coalizione di forze centrali che, essendo di accordo sull’impostazione dei rapporti internazionali e sui criteri del regime democratico, presentino la risultante delle tendenze costruttive nella democrazia della Repubblica Italiana.
Quale riforma elettorale? Quanti progetti, quante idee, quante discussioni! Ebbene il governo anche qui ha la sua responsabilità e la prenderà al momento opportuno; farà le sue consultazioni e presenterà un progetto di legge, che sarà discusso alle Camere e affidato alla pubblica opinione: le oche del Campidoglio non hanno alcuna ragione di gridare, quasi crollasse la democrazia.
Non vogliamo affatto precludere la strada anche agli altri partiti che restino al di fuori dei quattro centrali, che hanno lavorato insieme il 18 aprile ed hanno uomini esperti e capaci.
Questo è il nucleo centrale. Se poi da sinistra o da destra venissero delle conversioni (uomini che accettano la piattaforma comune e siano più capaci, più patriottici) la porta sarà aperta.
Il nuovo sistema dovrebbe servire: 1) non a un partito solo ma alla democrazia; 2) a rispettare il principio di maggioranza (cioè la responsabilità della decisione); 3) a rendere possibile la collaborazione dei partiti che accettino sinceramente il presente regime democratico; 4) ad assicurare il controllo alle minoranze.
Cari amici, io sono uomo di partito, ho aiutato a fondare il partito e anche oggi mi sento legato al programma del partito e credo fermamente, nonostante tutto il male che si dice della partitocrazia, che il partito è necessario perché è inquadramento dell’idealismo e della disciplina e tutti i tentativi dell’indipendentismo svelano egoismo e incapacità disciplinare di subordinare la propria forza.
Bisogna che i quadri ci siano e i ranghi ci siano. Ma fissato questo dobbiamo capire che lo schieramento delle forze realizzatrici deve essere il più largo possibile. Questo è l’imperativo italiano nazionale in questo momento.
Se per arrivare a ciò convenisse amnistiare il passato, noi dovremmo farlo, purché incontrassimo sincerità di adesione democratica e generosità di sentimento nazionale.
Ma dobbiamo pretendere che la democrazia possa difendersi con la legge di tutti, cioè col codice penale e la magistratura ordinaria; che il sindacato non sia il nemico, ma il collaboratore dello Stato democratico; e che chi guadagna paghi in proporzione; che il capitale senta le esigenze sociali e la superiorità del lavoro, che la produttività agricola aumenti, che la giustizia sociale faccia la sua strada. A queste affermazioni programmatiche corrispondono già leggi in esecuzione o disegni di legge innanzi alle Camere. I partiti che si preparano alle elezioni con animo costruttivo si concorderanno su programmi comuni o paralleli, a seconda che preferiranno la responsabilità di governo prima delle elezioni o la maggior libertà della marcia propria, diretta alla stessa meta. Ma esaminando ciò che il governo ha avviato o proposto per ogni settore economico, specie per la lotta contro la disoccupazione e il risanamento del Mezzogiorno, si troverà che converrà soprattutto eseguire, accelerare l’esecuzione di quanto si è autorizzati e impegnati già a fare.
Amici, la Democrazia cristiana è una forza conservatrice e rinnovatrice ad un tempo. Conserva e alimenta le forze spirituali, le nobili tradizioni nazionali e trae dal Vangelo fermenti di vitalità e fraternità; e spiega in sé quella legge suprema di dilatazione delle menti e dei cuori, che altri chiamano sentimento di libertà o umanitarismo sociale e che noi deriviamo dal Vangelo.
Il rinnovare invece riguarda le strutture sociali, l’organismo economico, l’architettura politica».
Bellissima la conclusione.
«Scusate se qui, nel Paese di mia madre, mi pare di tornare col pensiero alle fonti delle mie e delle nostre energie. Bisogna sperare nell’ascensione della patria ad una condizione: purché nel faticoso cammino, incalzati come siamo dai problemi sociali e dalle folle non sempre acclamanti, ci ricordiamo, come il Maestro Divino, di riposare verso il tramonto – per me il tramonto della vita – accanto alla fontana, e dissetarci alla fonte della vita».
Il discorso di Predazzo non ebbe la eco che avrebbe dovuto avere. La stagione estiva di norma privilegia la pubblicità delle notizie che fanno immediato rumore. Comunque i messaggi erano stati lanciati.
Appena rientrato a Roma il presidente affiancò Scelba nella faticosa ricerca di un accordo elettorale. Ma mi incaricò anche di una riservata missione presso Umberto di Savoia. L’aveva preparata Paolo Matarazzo, in casa del quale avevo nel 1950 alloggiato a San Paolo del Brasile. Andammo insieme a Parigi in una villa di Neuilly dove il sovrano era ospite. Si voleva che considerasse che il trasferimento di voti dalla Dc ai monarchici indeboliva noi, forse in modo irreparabile, ma non causava una alternativa di governo democratico.
L’ex re fu molto gentile nella forma e mi sembrò convinto. Non chiedevamo ovviamente impegni operativi, ma solo una presa di coscienza della situazione. Da qualche informazione che ebbi in seguito, appresi che il consiglio di non considerare la Dc come il nemico da battere fu dato, ma non venne accolto.
Le elezioni si svolsero in un clima molto teso, per la feroce campagna che le opposizioni avevano montato contro la “legge truffa” facendo nell’aula del Senato non solo l’ostruzionismo ma le barricate. Al momento del caotico voto volavano tavolette divelte e su Ruini, che presiedeva, arrivavano oggetti vari, che tuttavia non gli impedirono di far continuare la “chiama” (appello nominale) e dichiarare approvato il testo. Il presidente Einaudi respinse tutti i reclami e sciolse subito, oltre la Camera dei deputati che era in scadenza, anche il Senato che, a norma di Costituzione, aveva ancora un anno di vita. Inde irae specie dai senatori di diritto della prima legislatura che stavano lavorando per ottenere un rinnovo del mandato straordinario.
La situazione era divenuta tesissima. Socialdemocratici e repubblicani dichiaravano che se a Roma si fosse davvero capitolato dinanzi alle destre
si sarebbero dimessi dal governo. De Gasperi, che fino ad un certo momento aveva contrastato l’Operazione, ma riservatamente, quando seppe che l’Azione cattolica aveva ritirato i nomi già dati per la lista romana della Democrazia cristiana, ritenne necessario un intervento diretto...
Un numero enorme di schede annullate provocò il non scatto del premio di maggioranza, ma gli apparentati governativi avevano egualmente la maggioranza nelle due Camere, per consentire il proseguimento dell’alleanza ministeriale. Esplose però un dissenso spaventoso. Saragat, irritato per i pochi voti e ritenendo – senza alcun fondamento – che De Gasperi avesse allacciato intese con Nenni, si ritirò sotto la tenda e rifiutò anche un colloquio con il presidente, che fu invitato (potrei dire costretto) da Einaudi a dar vita ad un gabinetto monocolore, minoritario.A questo punto, esperiti invano anche dal Quirinale i tentativi di rimuovere la secessione di Saragat (i liberali da soli non bastavano, ma fu egualmente squallido il loro abbandono), a De Gasperi non restò che allacciarsi alle aperture di Predazzo e chiedere il voto ai monarchici. Lo fece letteralmente in modo elegante. «Non ci conosciamo abbastanza», disse loro; «facciamo un tratto di strada insieme per comprenderci e programmare il futuro».
Questa apertura era mal recepita da una parte non piccola della Democrazia cristiana: De Gasperi rammentò che gli stessi nel 1947 erano contrari all’apporto essenziale dei qualunquisti. Comunque furono i monarchici a respingere l’invito. In una riunione di gruppo soltanto pochi avevano dimostrato disponibilità.
In quasi tutti vi era il sospetto che la Dc volesse passare il guado per tornare in autunno alle urne, recuperando nel frattempo le amicizie tradizionali. In aula Covelli ironizzò sulla necessità di un tempo per conoscersi e ricordò che erano stati proprio i monarchici nella prima legislatura a salvare l’atlantico ministro Pacciardi contro il quale comunisti e socialisti avevano sferrato un feroce attacco dimenticandone le “benemerenze” durante la guerra di Spagna.
Il voto affossò l’ultimo governo De Gasperi. Ai voti democristiani si contrapposero e prevalsero le opposizioni congiunte della sinistra e destra. Determinanti furono le astensioni dei nostri tradizionali amici di cordata.
Il presidente lasciò malinconicamente il Viminale, dopo aver guidato per otto anni il governo della ricostruzione interna e del reinserimento dell’Italia nel campo europeo ed internazionale.
Il mugugno di quello che veniva chiamato il “partito romano” – sconfitto nell’Operazione Sturzo e messo ora di fronte alla constatazione che vendevano fumo dando per scontata la loro influenza sui partiti della destra – non disarmò. Uno scritto politicamente ingiurioso per De Gasperi apparve sulla Civiltà Cattolica a firma di padre Messineo che nel contempo dava a Pella – che Einaudi aveva chiamato con una soluzione tecnica, appoggiata da De Gasperi (ma a malincuore dalla Dc) – consigli suicidi che lo condussero rapidamente alla dissoluzione.
Scelba riuscì a ricomporre il quadripartito, confermando che i numeri per sostenere il governo c’erano.
Quando De Gasperi morì, il 19 agosto 1954, Pio XII, a parte le condoglianze diplomatiche, inviò a Sella il dottor Emilio Bonomelli, direttore delle ville pontificie, il quale per anni – e il Papa lo sapeva – aveva invitato spesso nella riservata oasi di Castel Gandolfo il presidente De Gasperi e il suo amico Giovanni Battista Montini.
Se un giorno sarà possibile avere il diario – che mi dicono Bonomelli tenesse e che io non sono riuscito a procurarmi – ne verrà uno spaccato interessante sui rapporti veri tra le due sponde del Tevere.
È tempo di tirare una conclusione: il saggio di Andrea Riccardi riapre una discussione, del resto mai definitivamente conclusa e forse concludibile, sui rapporti tra Pio XII e De Gasperi. La mia opinione personale è che molti atteggiamenti del Pontefice – a parte la sua preoccupazione primaria di bloccare i comunisti perché fosse evitata all’Italia la tristissima sorte inflitta ad altri Paesi – dipendessero da persone, se si vuole spiritualmente ineccepibili, che andavano ad illustrargli posizioni e a manifestare timori in toni allarmistici e con vedute spesso assolutamente unilaterali. Quando era possibile contrapporre informazioni obiettive, i fulmini minacciati dagli zelanti non arrivavano.
Ma in tutte queste vicende si conferma la personalità eccezionale di De Gasperi. Forse la frase si presterà a polemiche sulla autonomia dei cattolici, ma è esemplare. La riscrivo:
«Se il Santo Padre decide diversamente io mi ritirerò dalla vita politica. Sono cristiano, sono sul finire dei miei giorni e non sarà mai che io agisca contro la volontà del Papa. Mi ritirerò dalla vita pubblica, non potendo svolgere una azione politica con coscienza ritenuta utile alla patria e alla stessa Chiesa».