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TRADIZIONE
tratto dal n. 03 - 2003

LUCIANI E LA CONFESSIONE

La sua pazienza ci aspetta


«Il Signore è un padre che aspetta sulla porta. Che ci scorge quando ancora siamo lontano, e s’intenerisce, e correndo viene a gettarsi al nostro collo e a baciarci teneramente... Il nostro peccato allora diventa quasi un gioiello che gli possiamo regalare per procurargli la consolazione di perdonare... Si fa i signori, quando si regalano gioielli, e non è sconfitta, ma gioiosa vittoria lasciar vincere a Dio!»


di Stefania Falasca


Monsignor Albino Luciani quando era vescovo di Vittorio Veneto

Monsignor Albino Luciani quando era vescovo di Vittorio Veneto

A volte non ci sono dubbi. O è la Provvidenza, o è la Provvidenza a disegnare le circostanze. È proprio il caso di dirlo riguardo al santo confessore di Roma, il gesuita padre Felice Cappello, e a papa Luciani. Non solo sono stati battezzati nello stesso fonte battesimale della pieve di Canale, non solo erano lontani parenti, e non solo l’uno (padre Cappello) era per l’altro lo specchio della strada che avrebbe desiderato seguire. Entrate nella chiesa parrocchiale di Agordo; il parroco, monsignor Lino Mottes, che ha conosciuto bene entrambi, se glielo chiedete, vi condurrà in un lato in penombra della chiesa: «Ecco, è quello lì, quello era il suo confessionale. Quando veniva ad Agordo, padre Felice era sempre lì». Ve ne indicherà poi un altro, di fronte a questo, vicino a una statua della Madonna: «Quello invece era di Albino Luciani». Per un periodo la mano di “Quel di sopra” aveva stabilito di disporli così. L’uno di fronte all’altro. Nel confessionale. Dirimpettai nell’amministrare il sacramento della riconciliazione. Erano gli anni 1936-1937. A quel tempo il futuro Giovanni Paolo I era un giovane prete, un sacerdote novello che proprio il fratello di padre Felice, monsignor Luigi Cappello, allora arciprete della chiesa di Santa Maria Nascente di Agordo, aveva voluto a tutti i costi come suo cappellano. Durante le estati di quegli anni, padre Felice veniva quassù a trascorrere le vacanze. Era già un rinomato canonista e stimatissimo professore della Gregoriana, e diffusa era anche la sua fama di santo confessore. Così anche quassù finiva per ripetersi quello che ogni giorno si ripeteva nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma. Inutile dire la fila di gente che si allungava davanti al suo confessionale e come quel bugigattolo con la grata diventava una sorgente d’acqua fresca per chi aveva sete. Pochi minuti. Poche parole, le sue. Sempre le stesse. E vite sfiorite e cuori invecchiati scoprivano che si poteva sempre ricominciare. E ritornavano. Incoraggiati, fiduciosi, ritornavano. Anche Luciani, con non minore bontà, attendeva alle sue pecorelle. Ma più che pecorelle smarrite, chi andava ad inginocchiarsi al suo confessionale erano ronzanti e dispettosi bambini di prima comunione, vivaci ragazzini, disordinati e impazienti ragazzi. Così non poche volte, rivestendosi di tutta la pazienza di nostro Signore, gli toccava anche uscire dal confessionale per rimettere le cose a posto e richiamare al silenzio. Quando poi padre Felice, terminata la vacanza, se ne tornava a Roma, anche tutti gli altri andavano volentieri ad ingrossare la fila davanti al cappellano don Albino. Tante volte dal padre Felice aveva sentito questa raccomandazione: «Sermo brevis et rudis. Nei pareri e nelle decisioni tuttavia non si usi mai la severità. Il Signore non la vuole. Si dia sempre la soluzione che permetta alle anime di respirare». Quanto la vicinanza di questo grande conoscitore della dottrina ferma e dei principi inflessibili, che al confessionale affidava tutto alla grazia di Dio, abbia lasciato un’impronta in Luciani, e quanto quel periodo sia stato importante per lui, lo dirà egli stesso, proprio due mesi prima di salire al soglio di Pietro. Il 29 giugno 1978. L’ultima volta che fece ritorno ad Agordo. Durante l’omelia nella chiesa che lo aveva visto cappellano ricordò quegli anni come i più belli della sua vita: «Ho confessato tanto, quanto ho confessato!...». E per tutta la vita, se c’è una cosa che davvero avrà ripetuto centinaia di volte, è proprio questa: «Come sbagliano, come sbagliano quelli che non sperano! Giuda ha fatto un grosso sproprosito, poveretto, il giorno in cui vendette Cristo per trenta denari, ma ne ha fatto uno molto più grosso quando pensò che il suo peccato fosse troppo grande per essere perdonato. Nessun peccato è troppo grande, nessuno! Nessuno più della Sua sconfinata misericordia!».


La lavanda dei piedi, Rembrandt,Rijksmuseum, Amsterdam

La lavanda dei piedi, Rembrandt,Rijksmuseum, Amsterdam

«Peccatori siamo tutti»
(papa Luciani)

Salendo quassù per le vacanze, padre Cappello passava a Padova a far visita al cappuccino Leopoldo Mandic, il santo confessore che nel 1983 venne elevato agli onori degli altari. Anche padre Cappello era dunque andato ad inginocchiarsi davanti al piccolo frate di origine bosniaca, assaporando da penitente la stessa divina misericordia che a sua volta elargiva senza posa dai suoi confessionali. E come a padre Cappello, anche a Luciani era capitato di andare a confessarsi da lui. «È stato nel marzo del ’28», ricorda Edoardo, il fratello di Luciani. «L’Albino era piccolo, frequentava ancora il seminario minore a Feltre, e il padre Leopoldo era andato là in visita al seminario insieme al vescovo. Ascoltò diverse confessioni, tra cui anche quella di mio fratello. L’Albino conservò sempre una memoria vivissima di quell’incontro tanto che l’immaginetta di padre Leopoldo la portò poi sempre con sé». Anche la sorella Antonia ricorda questo episodio raccontatole dall’Albino: «Il padre Leopoldo lo confessò, gli prese poi il viso tra le mani e gli disse: “Sta’ tranquillo, e segui la tua strada”». Il 30 maggio 1976, da patriarca di Venezia, Luciani volle andare a celebrare la messa nella chiesa dei Cappuccini a Padova, proprio accanto alla celletta-confessionale del piccolo frate. Tutta l’omelia fu un ricordo commosso del padre Leopoldo e del modo con cui egli confessava. «Ecco», disse, «peccatori siamo tutti, lo sapeva benissimo il padre Leopoldo. Bisogna prendere atto di questa nostra triste realtà. Nessuno può a lungo evitare le mancanze piccole o grandi. “Però”, come diceva san Francesco di Sales, “se tu hai l’asinello, e per strada ti casca sul selciato, cosa devi fare? Mica vai là col bastone a spianargli le costole, poveretto, è già abbastanza sfortunato. Bisogna che tu lo prenda per la cavezza e dica: ‘Su, riprendiamo la strada. Adesso riprendiamo il cammino, faremo più attenzione un’altra volta’”. Questo è il sistema e padre Leopoldo questo sistema l’ha applicato in pieno. Un sacerdote, mio amico, che andava a confessarsi da lui, ha detto: “Padre, lei è troppo largo. Io mi confesso volentieri da lei, ma mi pare che sia troppo largo”. E padre Leopoldo: “Ma chi è stato largo, figlio mio? È stato il Signore ad essere largo; mica io sono morto per i peccati, è il Signore che è morto per i peccati. Più largo di così con il ladrone, con gli altri come poteva essere!”». E Luciani continuò dicendo: «Gesù da una parte si scontra col peccato, “vittima di espiazione per i peccati”, dall’altra parte non si scontra, ma s’incontra con i peccatori. Aprite le pagine del Vangelo, si scontra col peccato, dice Giovanni Battista: “Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati”. Leggete san Paolo: “È morto per i peccati”. Niente peccati! Il Signore non lo vuole il peccato. Dall’altra parte, però, quanta bontà! Quanta misericordia verso i peccatori! Io mi commuovo quando penso che sì, Paolo VI ha fatto beato padre Leopoldo; però il primo canonizzato, il primo uomo proclamato davanti a tutta la gente santo, è stato un ladrone. Sulla croce Gesù ha detto: “Oggi stesso tu starai con me in Paradiso”. A un assassino, a un ladrone!... E quanta bontà! Dicevo, verso i peccatori! Quando gli han condotto l’adultera: “Donna, nessuno ti ha condannata?”. “Nessuno, Signore”. “Donna, neanch’io ti condanno. Va’ in pace e cerca di non farlo più”». E ritornando a padre Leopoldo, disse: «Lui ha copiato fedelmente questo aspetto di Gesù: anche lui, come Gesù, aveva paura del peccato, piangeva per il peccato, invece tutto il contrario con i peccatori. Uno una volta gli ha detto: “Padre, ma lei è tanti anni che confessa, ne ha sentite ormai di tutti i colori, a lei non fa più impressione il peccato”. “Cosa dice, signore? Ma io ogni momento tremo quando penso che gli uomini mettono a repentaglio la loro salute eterna per delle sciocchezze, per delle cose futili”. Tremava, piangeva per il peccato. Ma accoglieva il peccatore proprio come un fratello, un amico, per questo non pesava confessarsi da lui. È andata una volta una persona: erano vent’anni che non si confessava. Ha detto i suoi peccati. Quando ha finito, padre Leopoldo si è alzato in piedi, gli ha preso le mani e lo ha ringraziato: “Grazie, grazie che è venuto da me, ha accettato che sia io a raccogliere il suo pentimento dopo tanti anni”. Era lui, capite, che ringraziava!... Ecco cosa è stato, cos’è padre Leopoldo per noi, lo specchio della bontà del Signore». A questa stessa bontà Luciani si riferiva continuamente. A questa rimanderà sempre. Anche in quelle poche udienze generali che ha fatto alla sede di Pietro come vicario di Cristo. «Quanta bontà, quanta misericordia bisogna avere, e anche quelli che sbagliano...». Così quel 6 settembre del ’78, nella sua prima udienza generale. E quando fece quell’accenno all’umiltà, tutti percepirono che nasceva dalla coscienza di essere miseri peccatori e dall’esperienza vissuta del perdono: «Mi limito a raccomandare una virtù, tanto cara al Signore che ha detto: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Io rischio di dire uno sproposito, ma lo dico: il Signore tanto ama l’umiltà che a volte permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi questi peccati, dopo pentiti restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi angeli quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto cose grandi, dite: “Siamo servi inutili”».
Il ritorno del figliol prodigo, Rembrandt, acquaforte, Pierpont Morgan Library, New York

Il ritorno del figliol prodigo, Rembrandt, acquaforte, Pierpont Morgan Library, New York



«Che cosa sarebbe di me, poveretto
se non ci fosse la confessione?»
(santo Curato d’Ars)

Di quelli che sono stati poi confessori di Albino Luciani, si ricordano in particolare alcuni monaci della Certosa di Vedana, convento in cui egli amava recarsi spesso fin dai tempi di Belluno e che frequentò anche per tutto il periodo che fu vescovo di Vittorio Veneto. E se nei trentatré giorni di pontificato lasciò come suo confessore il gesuita Paolo Dezza, che lo era stato di Paolo VI, quando stava a Venezia andava di frequente ad inginocchiarsi al confessionale del padre Leandro Tiveron, gesuita anche lui. Schivo e riservato, il padre Tiveron riguardo al suo illustre penitente rilasciò, dopo la sua morte, solo poche parole: «Luciani è stato un esempio di coraggio e d’incrollabile fiducia in Dio, d’umiltà unita ad una grande fortezza di spirito». Sono parole che rimandano ancora una volta a quella storia umana buona, semplice e misteriosa che Luciani aveva incontrato da bambino nella fede di sua mamma, di don Filippo Carli, il suo parroco di Canale, amico e coetaneo di padre Cappello. Così tante volte aveva ricordato le preghiere insegnategli dalla mamma e ricordato la sua infanzia a Canale, e gli episodi di quella umanissima pietà, di devozione, di amore per Gesù che aveva visto e vissuto da bambino. Al suo parroco, è vero, era debitore. Se era diventato prete lo doveva a lui. Da lui aveva imparato che per un prete non c’è cosa più grande e fruttuosa che battezzare, dare l’eucarestia, assolvere dai peccati. In persona Christi. E da lui aveva imparato anche tutta la sincerità e l’umiltà nella confessione. «Guardate» disse una volta Luciani in un incontro durante la Quaresima «che il Signore ci ha dato la confessione quale strumento della Sua misericordia e quindi di pace per noi. Non bisogna angustiarsi, avere troppe paure. E non bisogna rimuginare sui peccati commessi. Li avete confessati? Basta, non pensateci più. Certo la confessione deve essere semplice, limpida. Qualcuno quando va a confessarsi, fa un esame di coscienza un po’ complicato, perché pensa: bisogna che faccia bella figura. “Non è posto da far belle figure quello!”, diceva sempre il mio parroco. Allora non è semplice: meglio dir chiaro, con poche parole, quello che si ha da dire. Quello che è stato, con brevità, con umiltà, senza circonlocuzioni... E più che addentrarsi in esami di coscienza troppo complicati è più importante chiedere al Signore di farci sentire il dolore di quei peccati». La pazienza nello spiegare con chiarezza le formule del catechismo, con esempi comprensibili a tutti ed efficaci, è sempre stata una prerogativa di Luciani. «Una volta durante una lezione di catechismo a Canale», ricorda la sorella Antonia, «sentii l’Albino spiegare l’importanza della confessione con degli esempi raccontati dal Curato d’Ars, il quale spesso ripeteva: “Che cosa sarebbe di me, poveretto, se non ci fosse la confessione? Che cosa sarebbe di noi?”. E raccomandava di confessarsi con frequenza. “Le mamme” diceva poi l’Albino “non cambiano forse spesso i loro bambini? E anche l’anima è così: mancanze ne abbiamo sempre e lavarci dobbiamo sempre, non una volta, due l’anno, confessarsi spesso, se si può”». Ai suoi sacerdoti indicava esplicito: «Siamo fedeli a ciò che dice il codice: Frequenter. Vari sinodi dicono: ogni settimana. Cercate di essere fedeli. Un po’ di fatica, ma poi si sta meglio, si è più contenti, si riprende forza. Anche il continuo pentimento, il continuo umiliarsi è utile e salutare».
Gli anni del patriarcato a Venezia sono stati i più difficili per Albino Luciani. Ed è lì, a Venezia, che dovette prendere atto con amarezza di quanto quella cara eredità cristiana fosse sempre più lontana dall’orizzonte della vita. «Sempre più spesso si sente dire: “Il peccato non esiste”. Questo modo di pensare è proprio all’ultima moda e fa paura», scriveva in un lettera ai parroci, e riprendeva: «Ci sono sacerdoti che non credono più tanto alla confessione... Peccati ce ne sono sempre stati, fioccavano, c’è poco da dire, anche nel medioevo cristiano. Ma la gente sapeva di peccare, spaccava la legge anche con peccatacci, ma continuava a rispettare la legge spaccata e neppure si sognava di negare il peccato. Adesso invece dicono che leggi non ce ne sono, e peccati ancor meno... è questo che mette paura». Nel ’74, in occasione degli esercizi spirituali per il clero disse: «Non ho nessun desiderio di fare l’eresiologo; a volte, tuttavia, è forte in me la tentazione di segnalare tracce di quietismo e di semiquietismo, di pelagianesimo e di semipelagianesimo in scritti e discorsi che o descrivono il lavoro pastorale come tutto dipendesse dagli uomini o parlano di noi poveri uomini come se non avessimo più nulla a che vedere con il peccato...». E a quei sacerdoti, che lamentavano un calo delle confessioni, deciso rispose: «Il peccato mortale spoglia le nostre anime. Ruba all’anima la grazia. Il trattato De gratia l’avete fatto, e conoscete gli effetti della grazia sull’anima... La confessione è il banco dal quale si distribuisce il sangue di Cristo, è una croce rossa in cui si aggiustano le ossa rotte dal peccato. Una cosa portentosa... Ma ripeto, come si confessano se non si è spiegato chiaro l’esame di coscienza, il dolore, il proponimento e le altre cose? E ripeto, soprattutto, chi va a confessarsi se non avete detto cos’è la grazia di Dio e quanto è preziosa?».
Cristo e l’adultera, Rembrandt, Sala delle Stampe, Monaco

Cristo e l’adultera, Rembrandt, Sala delle Stampe, Monaco



«Da quod iubes, iube quod vis»
(sant’Agostino)

Nel gennaio del 1965, Albino Luciani, vescovo di Vittorio Veneto, tenne un corso di esercizi spirituali a sacerdoti di varie diocesi del Veneto. A quegli incontri aveva voluto dare questo tema: Historia salutis. Prese a parlare prendendo spunto dalla parabola del Buon Samaritano: «Il Buon Samaritano è Gesù», disse, «lo sfortunato viaggiatore siamo noialtri». E iniziò con queste parole: «Historia salutis vuole dire questo: il Signore corre dietro agli uomini». Riscossero un tale successo che il testo di quegli incontri venne poi pubblicato. Alcune parti riguardano proprio la grazia. Il Concilio di Trento, spiega Luciani, dice: «“Nessuno ardisca accettare quella temeraria affermazione, rifiutata anche dai Padri, che i comandamenti di Dio sono impossibili da osservare. Dio infatti non comanda cose impossibili, ma quando comanda, esorta a fare ciò che si può fare, e a domandare a lui ciò di cui non si è capaci, e nello stesso tempo aiuta a esserlo”. Diceva sant’Agostino: “Agnosce ergo gratiam eius cui debes quod non commisisti”, riconosci dunque la grazia di Colui al quale sei debitore se non hai commesso certi peccati, e continuava: “Nullum est peccatum quod fecit homo, quod non possit facere et alter homo, si desit rector a quo factus est homo”, non c’è peccato fatto da uomo, che un altro uomo non possa commettere, se viene meno l’aiuto di Colui che ha fatto l’uomo». Commentava dunque Luciani: «Il Paradiso è un po’ alto e noi stentiamo ad arrivarci. Ebbene, noi ci troviamo nella situazione di una piccolina, di una bambinetta che ha visto le ciliege, ma non arriva a prenderle; allora bisogna che venga il papà, la prenda sotto le ascelle e dica: su, piccola, su! Allora sì, la alza e lei può prendere e mangiare le ciliege. Così siamo noi: il Paradiso ci attrae, ma per le nostre povere forze è troppo alto. Guai a noi se non viene il Signore con la sua grazia! Lo stesso sant’Agostino ripeteva spessissimo una preghiera: “Da, Domine, quod iubes, et iube quod vis”. Signore, io non ci arrivo, dammi tu di fare quello che comandi, dopo comandami quello che vuoi, ma dopo che mi hai dato la grazia di farlo. Tutto è possibile con la grazia di Dio. Ci è necessaria la Sua grazia. Quindi lasciate che ora vi dica una parola sulla preghiera». E raccontò questo episodio: «Padre Mac Nabb, famoso domenicano che predicava a Londra, diceva: “Io, quando sono in confessionale, mi rivesto proprio della pazienza del Signore. Qualunque cosa mi dicano, non mi sento mai agitato: anche se sono peccati orribili. Dico: il Signore perdonerà, è venuto qui, si è umiliato... fa’ cuore, fa’ cuore... C’è solo un’eccezione: quando mi arriva uno che dice di aver trascurato la preghiera. “Ma non ha pregato proprio mai?”. “No, padre, non ho pregato mai”. “Ah”, dice, “è quella la volta che metterei fuori la mano dal finestrino e quattro sberle gliele darei proprio volentieri!”. Ma come si fa a questo mondo» riprende a dire Luciani «inclinati al male come siamo, deboli come siamo, a non pregare? A non chiedere la grazia, l’aiuto di Dio? Vuol dire che non si ha proprio cognizione della realtà, che non si è capito proprio niente... non si può mica andare avanti senza preghiera, senza la fiducia nella grazia di Dio. “Voglio che domandiate” l’ha detto Gesù stesso, e che “insistiate” anche... “Voglio che domandiate”. “Basta che domandiate, basta che abbiate fiducia, speranza”. Omnia possibilia sunt credenti. “Da parte mia si può tutto, basta che tu abbia fede”. Quante volte... Spero dalla bontà Vostra, recita l’Atto di speranza, vuol dire: aspetto con certezza. “Attender certo” diceva Dante. Non è facoltativa la speranza, è obbligatoria...».
«Ma intanto la Sua pazienza ci aspetta» riprese infine Luciani. E ancora, di nuovo, tornando all’inizio della Historia salutis: «Perché, vedete, è Lui che vuole incontrarci, e non si perde d’animo anche se scappiamo: “Voglio provare ancora, una dieci, mille volte...”. Alcuni peccatori non lo vorrebbero a casa loro. Andrebbero perfino a prendere il fucile per farlo morire e non sentir più parlare di Lui. Non importa, Lui aspetta. Sempre. E non è mai troppo tardi. È così, è fatto così... è Padre. Un padre che aspetta sulla porta. Che ci scorge quando ancora siamo lontano, e s’intenerisce, e correndo viene a gettarsi al nostro collo e a baciarci teneramente... Il nostro peccato allora diventa quasi un gioiello che gli possiamo regalare per procurargli la consolazione di perdonare... Si fa i signori, quando si regalano gioielli, e non è sconfitta, ma gioiosa vittoria lasciar vincere a Dio!».


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