Home > Archivio > 03 - 2003 > Una delle più antiche parrocchie di Roma
ARCHEOLOGIA CRISTIANA
tratto dal n. 03 - 2003

Una delle più antiche parrocchie di Roma


Gli scavi archeologici nel luogo dell’antico titulus Susannae dove la santa subì il martirio sotto l’imperatore Diocleziano nell’anno 293


di Alessandra Milella


L’affresco altomedioevale (fine VII 
o fine VIII secolo) rinvenuto in un sarcofago sotto la basilica di Santa Susanna, così come è attualmente esposto nella sacrestia.

L’affresco altomedioevale (fine VII o fine VIII secolo) rinvenuto in un sarcofago sotto la basilica di Santa Susanna, così come è attualmente esposto nella sacrestia.

La basilica di Santa Susanna, che oggi ci appare nell’aspetto conferitole dalle modifiche quattro e cinquecentesche, nasconde un nucleo architettonico ben più antico, che ci riporta alla vicenda della santa romana, martire in questo luogo, secondo la tradizione, sotto l’imperatore Diocleziano nell’anno 293. Un luogo che si situa in una zona a carattere residenziale della città antica, abbastanza decentrata (anche se ancora all’interno delle mura serviane, del IV secolo a.C., di cui vari tratti sono ancora visibili in zona, come ad esempio quello all’interno dell’aiuola in cima a via Bissolati, o quello recentissimamente rinvenuto durante la ristrutturazione dell’Ufficio geologico in largo Santa Susanna), sul colle Quirinale e lungo l’alta semita, la via che, dando il nome a tutto il quartiere (la regio VI augustea) percorreva in linea retta l’intera sommità del colle nella sua parte mediana (oggi l’antica viabilità corrisponde alla via XX Settembre, che prosegue poi con via Nomentana). Immediatamente accanto si trovano le Terme di Diocleziano, su un’aula circolare delle quali è costruita l’attuale chiesa di San Bernardo, proprio di fronte alla basilica di Santa Susanna.

Un’antica parrocchia cristiana
Le vicende relative al martirio di santa Susanna ci sono giunte attraverso un racconto (passio) alla cui redazione, definitasi nel VI secolo, hanno contribuito diversi nuclei narrativi, come mostrano anche alcune incongruenze interne. Gli avvenimenti si svolgono durante l’impero di Diocleziano ed in particolare sotto il pontificato di san Caio (vedi box). Nel racconto vengono anche menzionate le case dei fratelli Caio e Gabinio, che si trovavano ad arcus portae Salariae iuxta palatium Sallusti (cioè, secondo i riferimenti topografici dell’epoca, proprio in questa zona). Ed è nella casa del padre Gabinio che Susanna subisce il martirio per decapitazione. Lo zio, il papa Caio, istituisce sul luogo del martirio una statio (luogo in cui si riuniva l’assemblea). Anche l’antico Martyrologium Hieronymianum, nella versione del codice di Berna, nomina le due case: la commemorazione di Susanna avveniva il giorno 11 di agosto «ad duas domos iuxta duo clecinas» (da intendersi, quest’ultima indicazione, come una corruzione di Diocletianas [thermas]), cioè «presso le due case vicino alle Terme di Diocleziano» (Acta Sanctorum, Nov. II, 1, 104; 2, 434-435).
Stando dunque a tutte queste indicazioni topografiche, più o meno originali e veritiere, l’antico titulus Susannae, una delle più antiche parrocchie romane, attestato nel sinodo romano del 595 e probabilmente sostitutivo (o equivalente) di un più antico titulus Cai attestato nel sinodo romano del 499, doveva trovarsi sotto la basilica o nelle sue immediate adiacenze. La fondazione della chiesa non viene ricordata nel Liber Pontificalis romano, la raccolta delle biografie dei pontefici che racchiude preziose informazioni anche riguardo alle opere edilizie commissionate dai papi negli edifici sacri; ma in esso si trova una serie di notizie che ci permettono comunque di ricostruirne molta parte della storia. Così sappiamo che in essa fu consacrato da papa Leone II (682-683) il presbitero Sergio che, divenuto pontefice con il nome di Sergio I (687-701), dotò la sua chiesa con una serie di doni e proprietà e commissionò un ciborio marmoreo in sostituzione di quello di legno esistente. Sul finire del secolo VIII, poi, papa Adriano I (772-795) si occupò del risarcimento del tetto, ma la chiesa non doveva versare in buono stato, dal momento che poco dopo il suo successore, Leone III (795-816), decise di ricostruirla dalle fondamenta. Creò una sorta di piattaforma su cui potesse poggiare il nuovo edificio, a tre navate separate da colonne, ed istituì un battistero, o un fonte battesimale; l’abside della basilica fu decorata con un grande mosaico, visibile fino alla distruzione avvenuta alla fine del secolo XVI. Di esso restano alcune immagini in due codici presso la Biblioteca apostolica vaticana; nel più antico (il secondo probabilmente è copia dal primo) sono conservate le immagini di Leone III, recante nelle mani il modellino della chiesa, e quella di Carlo Magno, entrambi con il nimbo quadrato sul capo, attributo dei personaggi ancora viventi, e sotto è trascritta l’iscrizione celebrativa della ricostruzione della chiesa.
In assenza di ulteriori fonti sulla originaria struttura del titulus, e proprio per verificare quanto più possibile le notizie fornite dalle fonti antiche e le ipotesi di chi (Richard Krautheimer) riteneva che la costruzione di Leone III in realtà fosse solo un restauro di una più antica risalente al IV secolo (e dunque al titulus originario), vennero avviate dalla cattedra di Archeologia cristiana dell’Università di Roma La Sapienza, nel 1990, le prime indagini archeologiche presso la basilica, proseguite senza interruzioni fino al 1992.
Si voleva anche indagare più a fondo l’eventuale rapporto con l’antica fondazione titolare di due domus romane (I-II secolo d.C.) che in quest’area furono ritrovate in scavi del 1830 e del 1938, e di cui attualmente l’Istituto centrale del restauro sta consolidando la parte di strutture che si trova al di sotto della basilica. La presenza delle due domus aveva fatto immediatamente pensare alle indicazioni fornite dalle fonti più antiche, anche se un loro rapporto archeologico con il titulus Cai o Susannae è tuttora rimasto indimostrato.

Gli scavi archeologici
e i primi risultati
Dunque le campagne di scavo hanno interessato gli ambienti corrispondenti alla vecchia navata laterale sinistra della basilica di san Leone III, navata che, sotto Sisto IV (1471-1484), fu eliminata assieme alla corrispondente di destra. A differenza del lato destro infatti, dove nuove costruzioni non permettono oggi di individuare strutture antiche, la presenza del convento occupato dalle monache cistercensi sul lato sinistro ha invece consentito il mantenimento attraverso i secoli di una situazione archeologicamente ancora ben riconoscibile.
Lo scavo, per quanto condotto in uno spazio non eccessivamente esteso, ha dato risultati inattesi e per certi versi decisamente inimmaginabili. Innanzitutto un’attenta ricognizione preliminare delle strutture ha stabilito che quanto il Liber Pontificalis attribuisce a Leone III è veritiero: si sono infatti ritrovate inequivocabili tracce, tanto negli alzati che nelle fondazioni, di tecniche costruttive che rimandano ad un’opera unitaria che presenta le stesse caratteristiche strutturali adottate in altri edifici attribuibili con certezza all’età carolingia. Si è poi rinvenuto lo strato archeologico con i resti della demolizione delle strutture precedenti Leone III. Al di sotto, in un contesto quindi della fine del secolo VIII, è emersa un’area funeraria.
Le caratteristiche e la disposizione delle tombe lasciavano ipotizzare un particolare significato: spiccava al centro dell’area un sarcofago marmoreo parzialmente chiuso da mattoni, copertura non certo originaria che evidentemente mostrava di essere stata danneggiata. Una serie di tre sepolture contigue a cappuccina (cioè con la copertura costituita da tegole disposte a spiovente), caratteristiche dell’alto Medioevo, e utilizzate per più corpi, erano disposte in senso ortogonale rispetto al sarcofago, come se fossero ad esso indirizzate, rendendo piuttosto evidente che la deposizione entro il sarcofago doveva essere considerata privilegiata.
Si decise dunque di proseguire l’indagine all’interno del sarcofago, per raccogliere dati che aiutassero nella comprensione dell’area sepolcrale e nella sua determinazione cronologica: e qui avvenne invece la più imprevedibile delle scoperte. Al di sotto dei laterizi di copertura e dei primi accumuli di terra infiltrata, iniziarono ad emergere frammenti di intonaco dipinto, dapprima sbriciolati e poco leggibili, poi, man mano che si scendeva, sempre più grandi e ben conservati. Gli intonaci, staccati con cura, erano stati deposti entro il sarcofago non alla rinfusa, ma per strati e con la superficie dipinta rivolta verso l’alto, allo scopo di essere conservati. Prelevati tutti i frammenti dipinti, si poté riscontrare che erano stati deposti al di sopra di uno scheletro, che le analisi fanno risalire ai secoli VI o VII. Lo studio antropologico condotto da Francesco Mallegni (Università di Pisa), inoltre, ha permesso di stabilire che un notevole lasso di tempo era trascorso tra la sepoltura e l’inserimento degli intonaci all’interno del sarcofago.

La ricostruzione
dei frammenti
Ma ritorniamo ai dipinti. Già nel corso dell’intervento di recupero era possibile riconoscere volti di santi, frammenti di scritte e immagini sacre: e dopo il paziente lavoro di ricomposizione svolto dai restauratori dell’Istituto centrale per il restauro è riapparso un pannello raffigurante la Madonna in trono con il Bambino sulle ginocchia tra due sante, Agata (come indicato da una didascalia nel dipinto) e verosimilmente la stessa Susanna. Un altro e diverso gruppo di frammenti ha restituito una decorazione, completa per più del 90 per cento, dalla forma di timpano sopra un arco della larghezza di circa m 2,50 con al centro, nella terminazione cuspidata, l’Agnello apocalittico, e ai lati i due Giovanni, il Battista e l’Evangelista, accompagnati rispettivamente dalle scritte «Ecce Agnus Dei, ecce qui tolis peccata mundi» e «In principio erat Berbum et Berbum erat aput Deum et Deus». Infine, altri frammenti hanno restituito una serie di cinque busti di santi, tuttora non identificati e la cui ricomposizione non è stata ancora consolidata.
Occorre dire che gli affreschi possono ben essere definiti eccezionali, sia per la certo inusuale particolarità del ritrovamento entro un sarcofago, sia per le caratteristiche stilistiche, sia infine per la qualità di conservazione: non sono stati infatti alterati né da una lunga esposizione né da successivi rifacimenti (cosa piuttosto rara in pitture così antiche), mantenendo aspetto e colori originali. Un primo studio sulle pitture, nel corso del restauro, è stato compiuto da Maria Andaloro, che le ha attribuite alla fine del secolo VIII: in particolare, la Madonna ritratta come Theotokos e le modalità con cui vengono rappresentati i volti trovano stretti confronti nella decorazione della chiesa di Santa Maria Antiqua al Foro Romano, tanto nella cappella di Teodoto che nell’abside, nuovamente affrescata su commissione di papa Paolo I tra il 757 ed il 767. Una serie di considerazioni anche di carattere dottrinale circoscriverebbero poi la datazione degli affreschi agli anni 772-781 (o anche, più precisamente, al 779-780), in rapporto con i restauri della basilica attribuiti dal Liber Pontificalis a papa Adriano I. Una diversa datazione propone invece Margherita Cecchelli, anticipandola al pontificato di Sergio I (687-701). Già lo stesso biografo del Liber Pontificalis gli attribuisce significativi lavori, in particolare il nuovo ciborio; in più, fu proprio Sergio I a rifiutarsi di convalidare alcuni canoni conciliari che l’imperatore bizantino tentava di fargli accettare con la forza e con l’inganno: tra questi, propýio quello relativo al divieto di rappresentare Cristo nell’aspetto dell’Agnello. Dunque, considerate le fonti e la particolarità della conservazione, non sembra impossibile leggere nella rappresentazione dell’affresco un richiamo a questa vicenda, ed esso verrebbe a rivestire un fortissimo significato dell’affermazione dell’autonomia del Pontefice rispetto alle imposizioni imperiali. È anche possibile (ma i dati archeologici non ci permettono di verificarlo) che la deposizione dei frammenti nel sarcofago, trattati come reliquie, presupponesse anche la presenza, nella navata laterale di Leone III, di un pozzo-reliquiario (o cataracta) per la venerazione da parte dei fedeli, in modo analogo a quanto fece Pasquale I pochi anni dopo a Santa Prassede.
Il fatto che queste porzioni di affresco siano state staccate dalla loro collocazione originaria (che non possiamo immaginare in un luogo troppo distante da quello in cui furono portate) e deposte entro un sarcofago, e che dunque siano state trattate con lo stesso riguardo riservato alle reliquie, autorizza almeno a pensare che siano state trasferite dal precedente luogo di culto nel nuovo per consacrarne in un certo modo la continuità. Ma non possiamo stabilire ancora, prima di altre più approfondite indagini, se l’antico titulus Susannae fosse nello spazio compreso nel perimetro della chiesa di Leone III e non invece nelle vicinanze. Troppo labili e poco fondate, purtroppo, appaiono ancora le testimonianze archeologiche (un tratto di pavimento in lastre marmoree e qualche traccia di muro) che hanno fornito lo spunto per un tentativo di ricostruzione (ipotesi di Alessandro Bonanni) di una piccola aula con abside, quest’ultima solamente supposta, orientata in senso diametralmente opposto alla chiesa attuale e ubicata nell’ambito della ex navata sinistra.


Español English Français Deutsch Português