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AFRICA
tratto dal n. 09 - 2002

Uganda: attendendo i processo di pace

In guerra contro i poveri


Uganda: attendendo i processo di pace


di Giulio Albanese


L’assurda crociata
La guerra nel nord Uganda ormai va avanti dal 1986, da quando cioè l’attuale presidente Yoweri Museveni espugnò Kampala cacciando i militari d’etnia acholi che erano al potere. Inizialmente il governo di Kampala riuscì a debellare la guerriglia sconfiggendo Alice Lakwena, una sorta di “Giovanna d’Arco” che per un paio d’anni con i suoi uomini riuscì a dare filo da torcere ai regolari. Successivamente, la donna ribelle fu sconfitta e costretta all’esilio in Kenya. Dopo alterne vicende, suo cugino Joseph Kony prese il testimone inventandosi di sana pianta un nuovo movimento armato: il Lord’s resistance army, cioè l’Esercito di resistenza del Signore (Lra), il più folle e sanguinario gruppo ribelle che abbia mai insanguinato l’Africa.
Ma chi è Kony? Viene definito comunemente dalla gente un “pazzo visionario”. Dice di avere visioni notturne e di essere il profeta di quanto “Rubanga”, “Dio” nella lingua acholi, gli comunica attraverso il Tipu Maleng (“Spirito Santo”). È chiaro che tutto ciò non ha nulla a che vedere col cristianesimo. Sta di fatto che per Kony, il Tipu Maleng si esprime attraverso tre manifestazioni diverse: “Remember”, lo spirito di benevolenza che “ricorda” a Kony di comportarsi bene, di far rispettare ai suoi guerriglieri la popolazione locale; “Who are you”, “chi sei tu”, è invece lo spirito del male, della guerra: dice come uccidere il nemico o vessare la popolazione civile; “Sitani”, lo spirito programmatico, infine gli indica ciò che deve fare: le grandi campagne militari o in genere le decisioni di lungo periodo. Ed è uno spirito che parla solo ai maschi del movimento. Questo fenomeno armato ha una forte connotazione sincretistica, per certi versi ancora misteriosa, non fosse altro perché nessun esterno è mai riuscito ad entrare in contatto con Kony. Quello che sappiamo deriva dalle testimonianze delle persone fuggite dal movimento, che hanno raccontato delle storie tremende.
Da sedici anni in nord Uganda un conflitto tra governo e guerriglia costringe la misera gente alla disperazione.Una “strana” guerra che sarebbe già potuta finire. I missionari aiutano la Chiesa locale a cercare la pace.Alcuni sono stati uccisi, altri rapiti. Diario di un sequestro
Gli uomini dell’Lra combattono tutti con il rosario appeso al collo. Il mio amico, padre Tarcisio Pazzaglia, una volta non ha resistito: «Come potete indossare qualcosa di così caro alla devozione cristiana se poi uccidete e vessate il popolo inerme?» gli ha detto in faccia.
Personalmente non credo che Kony sia il semplice folle che dipingono. A giudicare dalle sue mosse credo che sia assai lucido.
Il movimento dell’Lra è sostanzialmente composto da minorenni, rapiti e costretti da un’élite adulta a combattere un’assurda crociata contro il governo di Kampala. Per anni i ribelli sono stati foraggiati – vi sono prove e peraltro il governo di Khartoum lo ha ammesso – dal Sudan, in funzione antiugandese. Il progetto politico è ispirato ad una specie di decalogo che, dice Kony, si ispira ai dieci comandamenti. In effetti è un miscuglio di credenze locali animistiche, di elementi biblici, e stando a quanto mi hanno raccontato gli stessi ribelli, vi sono pratiche che si ispirano all’islam (nel loro modo di pregare si genuflettono come i musulmani). Kony ha un fortissimo ascendente sulle sue truppe, ed è spaventoso vedere come sia riuscito a compattarne gli aderenti che dipendono in maniera viscerale, psicologica, dal leader. Uno dei motivi per cui potrebbe essere difficile riuscire ad imbastire una trattativa di pace con questo movimento è proprio il fatto di essere così “konycentrico”. Quando parlano di Kony i ribelli lo chiamano, l’ho sentito io stesso, “il nostro grande maestro”, e mentre ne pronunciano il nome il loro sguardo si perde, quasi non avessero più di fronte i loro interlocutori (che in questo caso, come vedremo, eravamo padre Tarcisio, padre Carlos ed io).
Si dice che nel periodo di apprendistato-noviziato nell’Lra, i bambini vengano portati nel campo di Kony, che li indottrina personalmente, e pare avvenga anche una sorta di ipnosi collettiva. La verità comunque è che diventano da lì in poi gli esecutori materiali dei crimini ideati da Kony.
Vi sono delle prescrizioni di tipo rituale che spaventano. Ad esempio i ribelli uccidono tutti i civili che incontrano se hanno galline bianche, mucche degli ankole (una popolazione locale), se bevono alcolici o fumano. Sono dei “puristi”, e chi non si comporta bene viene ucciso. Anche la disciplina interna fa paura: i bambini vengono inquadrati, costretti a lunghe camminate con sassi sulle spalle, soprattutto all’inizio dell’addestramento, e se qualcuno piange e vuole tornare dai suoi genitori viene picchiato, a volte ucciso.
Colpisce che in tutti questi anni di guerra a pagare il conto sia stata la popolazione civile. È una cosa che insospettisce: non foss’altro perché un vero movimento ribelle dovrebbe essere dalla parte della propria gente. Invece costoro se la prendono con la loro stessa gente di etnia acholi, soprattutto nei distretti di Gulu, Kitgum e Pader. In genere non attaccano l’esercito, ma la popolazione civile.
Vi è stata una metamorfosi nell’abbigliamento dei ribelli. Fino a poco tempo fa erano assai eccentrici, avevano le treccine, cinture di munizioni sugli abiti civili: insomma erano i classici ribelli della savana. Dall’inizio dell’anno vestono tutti delle divise grigio-verdi o mimetiche, sfoggiano un apparato seminuovo di bazooka, mitragliatori, munizioni. Non è semplice dire chi li appoggi ora. Kampala e Khartoum hanno riallacciato le relazioni diplomatiche di recente, e dunque i ribelli a questo punto sarebbero dovuti essere abbandonati a se stessi. Ma non è così. Non abbiamo prove certe, ma anche nei colloqui con degli ex ribelli fuggiti dal movimento, è emerso che ad aiutare il movimento sarebbe ancora il Sudan, assieme ad una parte della diaspora ugandese all’estero, in particolare nel Regno Unito. I testimoni raccontano di aerei che sganciano aiuti militari in alcune zone del sud Sudan o nel nord Uganda. Si dice che questi aerei vengano dalla Guinea equatoriale, dove operano compagnie aeree private specializzate nel traffico d’armi (con a capo il famigerato Victor Bout).
Dopo Kony, il numero due del movimento è Vincent Ottì che è stato ferito, e forse è morto. Il numero tre, Tabulè, è un personaggio che ha già incontrato i missionari e i capi religiosi del Paese, ed è pronto al dialogo, anche se è difficile sapere quale sia il suo potere negoziale.
Dei soldati bambini in Uganda

Dei soldati bambini in Uganda

L’Lra è operativo a Gulu, Kitgum e Pader, ma ultimamente sono stati registrati sconfinamenti nei distretti Langhi (della popolazione lango). Si sono spinti anche vicino ad Apac, Manakilu, nella diocesi di Lira dove hanno attaccato anche la missione di Aliwang.
Kampala vede i ribelli come il fumo negli occhi. Però da tempo un interrogativo viene posto e ripetuto, non solo dagli oppositori di Museveni, ma anche dalla stessa società civile ugandese: come mai l’esercito più potente dell’Africa centrale, che si permette di combattere e vincere campagne militari all’estero, come nell’ex Zaire, in tanti anni non è riuscito a piegare una guerriglia come quella dell’Lra?
Sulle cifre dei bambini sequestrati via via dai ribelli occorre essere prudenti. Secondo le informazioni raccolte da padre Tarcisio Pazzaglia, in quindici anni ne sarebbero stati rapiti circa undici-dodicimila. Ma molti sono fuggiti o morti di stenti o in battaglia, e il movimento conta oggi circa duemila unità. Le basi militari dell’Lra erano fino a poco tempo fa nel sud Sudan, ma il quartier generale era a Giabuleni, sulla strada che da Giuba conduce verso Nimule, nel nord Uganda. Una campagna dell’esercito ugandese, con il permesso di Khartoum, ha però di recente costretto i ribelli ad abbandonare questi campi. Il governo di Kampala era convinto di averli fatti fuggire, ma i ribelli sono tornati a casa loro, nel nord del Paese.
La situazione resta critica, perché i ribelli angariano la popolazione. E l’esercito di Kampala ha promesso di piegare il nemico senza alcuna pietà. Questo è il contesto.
Ci sono poi gli “Acholi religious leaders”, cioè i capi religiosi della popolazione acholi: cattolici, protestanti e musulmani che si sono messi insieme per sostenere una piattaforma di pace, perché non se ne può più di una guerra che non ha vincitori ed in cui gli unici vinti sono i civili, cioè la povera gente. A questo tentativo dal basso la Chiesa cattolica partecipa grazie all’arcivescovo di Gulu, John Baptist Odama, e porta avanti questo negoziato con la grande e sincera collaborazione dei padri missionari.

Davide, Gildo, padre Raffaele e padre Tarcisio
Il primo che ha incontrato e stabilito un contatto con i ribelli si chiama padre Tarcisio Pazzaglia, un comboniano di 69 anni, veterano dell’Africa, dove è arrivato nel 1965. Il suo confratello più caro, padre Raffaele Di Bari, è stato ucciso dai ribelli non lontano dalla missione di Pajule, nell’arcidiocesi di Gulu, il 1° ottobre del 2000, memoria di santa Teresina di Lisieux, patrona delle missioni. Padre Tarcisio ha iniziato da allora a cercare i ribelli, per incontrarli ed iniziare un colloquio. Grazie a lui i capi religiosi ugandesi hanno potuto imbastire il dialogo e sperare nel buon esito di una loro mediazione tra governo e ribelli.
Monsignor Odama mi diceva che disponibilità alla trattativa gli è stata manifestata da ambo le parti. Ultimamente si discute della necessità di un cessate il fuoco, come precondizione per l’avvio delle trattative, e di una seguente tregua a tempo indeterminato per consentire i negoziati veri e propri.
All’interno dell’esercito, ma è una considerazione personale, vi sono alti ufficiali che ritengono giusta la pace (anche perché dal punto di vista strategico-militare la guerra non ha prodotto risultati), mentre altri sono molto riluttanti o scettici: il negoziato per loro è una perdita di tempo. La Chiesa locale invece, accompagnata dai missionari, spera e favorisce questo tentativo. Anche perché c’è un fatto: il Papa ha deciso di beatificare in ottobre i due giovani catechisti ugandesi Davide e Gildo, i martiri di Paimol, uccisi nel 1918 non lontano da Kitgum, proprio dove oggi opera la guerriglia. Uccisi da chi era ostile all’annuncio del Vangelo: è vero quanto diceva Tertulliano, che la Chiesa nasce grazie al sangue dei martiri. Così la gente chiede incessantemente ai martiri il miracolo della pace, e lo chiede anche a padre Raffaele Di Bari, perché ricorda quanto bene padre Raffaele volesse ai miseri acholi e quanto sperasse nella pace.
Mercoledì 28 agosto,
memoria di sant’Agostino
Padre Tarcisio Pazzaglia a colloquio con un giovane guerrigliero

Padre Tarcisio Pazzaglia a colloquio con un giovane guerrigliero

Ero in vacanza e sono partito per andare a trovare i miei confratelli in Uganda. Sono passato a Gulu da monsignor Odama perché mi era poi stata fatta la proposta di partecipare ad un incontro con i ribelli, chiaramente come semplice osservatore. Monsignor Odama non mi nega la sua benedizione e con padre Carlos Rodriguez Soto, responsabile dell’ufficio “Peace and justice” dell’arcidiocesi e diretto collaboratore di monsignor Odama nelle delicate trattative tra governo e ribelli, l’indomani raggiungiamo Kitgum, su una strada maledetta dove non passano macchine, dato che è in mano ai ribelli. Ma non li incontriamo. Da Kitgum il giorno seguente partiamo per questa missione di pace insieme a padre Tarcisio.
Era un mercoledì mattina, 28 agosto, memoria di sant’Agostino. Veniamo fermati, stranamente, ad un posto di blocco governativo. Stranamente perché il giorno prima della partenza con padre Tarcisio, che aveva già informato dell’iniziativa le autorità locali, eravamo andati ad esporre il tutto anche al prefetto, che lì funge un po’ da collegamento tra autorità civili e militari. Il prefetto era stato molto cortese, aveva voluto conoscere personalmente l’“osservatore” venuto da fuori dicendogli pure: «Padre, vi dobbiamo dare una lettera per i ribelli», lettera che aveva scritto di suo pugno. Le autorità sapevano, dunque. Ma usciti da Kitgum, prima di poterci addentrare nei sentieri, eccoci fermi al posto di blocco. Tra l’altro è una postazione dove in genere, mi dice padre Tarcisio, i militari non ci sono. Alle loro domande rispondiamo comunque in maniera esauriente, mostrando tutti i permessi e dichiarando anche il pacchetto dono portato per ingraziarci il leader ribelle già conosciuto da padre Tarcisio e che avremmo dovuto incontrare di lì a poco (nel pacco dono c’erano quattro fiale di medicine per una certa malattia diffusa tra i guerriglieri, più alcune comuni batterie per la radio: regalo utile, perché le radioline sono l’unico strumento dei ribelli per ascoltare gli appelli alla pace del presidente e quelli dell’arcivescovo di Gulu, diffusi dalla stazione locale in inglese ed in lingua acholi). A controllo finito, risaliamo in macchina e via. Dopo circa quaranta minuti la strada si restringe tanto da essere impraticabile, perciò scendiamo e ci incamminiamo nell’erba alta. Ma ci accorgiamo che nel pacco non c’erano più né le fiale né le batterie. Tutti e tre pensiamo che i soldati ce le abbiano rubate: difatti le avremmo ritrovate a Gulu sul tavolo del capo di Stato maggiore. Ci saremmo perciò dovuti presentare dai ribelli a mani vuote. Proseguiamo il cammino fino al piccolo villaggio dove è fissato l’appuntamento con questo leader della guerriglia. Ma lui non c’è. La gente del posto ci dice che possiamo trovare i ribelli nel villaggio vicino, a mezz’ora di cammino. Ed è vero, i ribelli sono lì. Confesso che avevo paura, conoscevo le gesta di questa gente, che sapeva essere molto cattiva. Padre Tarcisio ha avuto invece nei loro confronti una spontaneità che non dimentico: la prima immagine che mi venne allora in mente fu la mansuetudine di san Francesco davanti al lupo di Gubbio.
Eccoci di fronte ai ribelli, tutti in tuta mimetica, poco più che adolescenti. Ci fanno accomodare su tre sedie, sotto un albero. Ad occhio e croce sono una quindicina. Ci sono alcune donne con dei bambini, forse le loro donne e i loro bambini. Cinque di loro si siedono di fronte a noi su una panca, un sesto di fianco. Padre Tarcisio inizia l’incontro recitando una preghiera spontanea in lingua acholi, invocando il vero Dio, perché il Signore converta il cuore degli uomini e possa concedere a questo Paese la pace che tutti i figli e le figlie di Dio invocano da Lui. Devo dire che i ribelli sono molto rispettosi. Padre Carlos inizia a parlare spiegando il motivo per cui siamo lì: un incontro assolutamente informale e non negoziale. Infatti l’idea degli “Acholi religious leaders” in questa fase è quella di poter incontrare dei piccoli gruppi per sensibilizzarli, fargli capire che occorre rispettare il cessate il fuoco nell’interesse della trattativa. Padre Carlos tra l’altro mette al corrente i ribelli di un messaggio che era stato letto alla radio la settimana prima dal presidente Museveni e delle iniziative di pace dei capi religiosi.
A questo punto cominciano a parlare i ribelli. Non hanno potuto dire molto, anche perché di lì a poco sono arrivati i governativi. Mi colpiscono due o tre passaggi: quando parlano di Joseph Kony, il loro grande maestro, dicendo che eseguiranno solo quanto lui deciderà; quando affermano di volere la pace, «ma il governo di Kampala deve rispettare i diritti della popolazione acholi e ci vuole giustizia nel Paese»; quando ricordano alcune loro prescrizioni di giustizia rituale, ribadendo che c’è un messaggio divino comunicato attraverso Kony. Il colloquio non termina. D’improvviso un ribelle si alza urlando: “i soldati, i governativi!”. Raffiche di mitra interminabili, pallottole dappertutto, le capanne esplodono e prendono fuoco a tre-quattro metri da noi. Restiamo sdraiati a terra, la testa di lato, e con l’orecchio a terra si contano tutte le esplosioni. Le schegge sono ovunque, e padre Carlos, che aveva cercato rifugio sotto una capanna, viene colpito al braccio da un pezzo di tetto infuocato. Strisciando ci appiattiamo tutti e tre sotto l’albero dove stava avvenendo l’incontro e lì aspettiamo i “governativi”. Urliamo a squarciagola che siamo sacerdoti, missionari, che è una missione di pace, chiediamo che smettano di sparare, invano. I governativi ormai ci sono vicini, e la cosa che mi colpisce è che molti dei militari ugandesi della prima fila, quelli che a sorpresa sono sbucati dall’erba, siano bambini di dieci-undici anni. Militari regolari, nonostante tutte le promesse governative di non arruolarne più…
Con uno di questi bambini ho parlato durante il successivo percorso a piedi nella savana, e mi ha raccontato di essere stato catturato circa quattro mesi prima dai governativi, e costretto a combattere nel sud Sudan contro i ribelli. Molti dei suoi compagni erano morti, perché, come si usa con i bambini, erano stati i primi ad essere inviati all’attacco. Lui era un acholi e doveva combattere contro gli acholi.
I governativi ci prendono e ci puntano il mitragliatore in testa, ci insultano dicendo che siamo di Al Qaeda, trafficanti di armi, sporchi bianchi, sanguinari, «vi faremo a pezzi». Ci mettono a terra allineati, e i due catechisti che ci accompagnano vengono malmenati a bastonate come altri due malcapitati. Sentiamo intanto le urla dei bambini, ne vedo alcuni presi per le gambe dai soldati che li sbattono in terra come fossero galline; una donna sanguina in terra, e viene lasciata dov’è. Ci tolgono tutto quanto abbiamo addosso e un soldato inizia a saltarci sulla schiena, un altro rifila anche calci. Ci dicono che dobbiamo attendere il loro comandante perché «you are going to be executed», «state per essere ammazzati». Questa seconda fase dopo la sparatoria è durata quaranta minuti.
Tra noi ci guardiamo, silenziosi pensando al peggio. Abbiamo fatto atto di perfetta contrizione, parlando a bassa voce ci confessiamo l’un l’altro. Padre Tarcisio mi dice: «Giulio, credo che stavolta sia finita». «Va bene», rispondo: «preghiamo padre Raffaele di Bari, preghiamo i martiri di Paimol». Mi vengono in mente tutti gli affetti, le persone care, e molto anche padre Raffaele, e gli chiedo la grazia. Non sapevo se saremmo sopravvissuti o se ci avrebbero ammazzato, però ho avuto in quegli attimi grande tranquillità.
All’improvviso sbuca fuori un ufficiale che mi dice: «Io ti conosco, tu sei padre Giulio». Io invece non mi ricordavo di lui, ma pare che fosse uno dei miei chierichetti quando vent’anni fa ero diacono nella parrocchia di Mbuja a Kampala. È stata in fondo questa persona a salvarci la vita. Quando ci ha detto che potevamo alzarci in piedi, immaginatevi che gioia per padre Tarcisio, padre Carlos e me.
Ma cominciava un’altra fase. Dovevamo tornare nella missione, la macchina era lontana e non saremmo certamente ripassati su quella strada. Infatti i governativi ci ordinano di passare nell’erba alta, per sfuggire ai ribelli. Camminiamo su tre file, noi padri al centro. Allora, quando ci dicono che loro sono un’unità mobile e che non erano stati informati del nostro incontro con i ribelli, abbiamo pensato che forse ci avrebbero ammazzato lungo la strada. Camminiamo sotto il sole per otto ore, più o meno, e arriviamo alle baracche di Pagimu, a cinque miglia da Kitgum. Durante il percorso non ci danno mai acqua da bere.
A Kitgum, invece che ricondurci alla missione, veniamo arrestati. Ricordo che per un attimo perdo la pazienza e chiedo gridando perché non ci riportano a casa, dato che non avevamo fatto nulla di male. Nessuna risposta. Ci rinchiudono invece dentro una “unipot”, una capanna completamente di metallo, con una finestrella ed una porticina, quattro metri di diametro. Sono quasi le nove di sera, e la sparatoria era avvenuta alle undici e trenta. Ci hanno tolto gli indumenti eccetto i pantaloni. Chiediamo di nuovo un po’ di acqua, negata fino alle undici del giorno seguente. La notte ci siamo di nuovo confessati vicendevolmente.

L’“incidente”.
il luogo dove è stato ucciso padre Raffaele di Bari, missionario comboniano ucciso il 1 ottobre del 2000

il luogo dove è stato ucciso padre Raffaele di Bari, missionario comboniano ucciso il 1 ottobre del 2000

Il regalo più bello
Al mattino finalmente ci fanno uscire, e ci portano, scalzi, dagli uomini dell’intelligence militare appositamente arrivati da Gulu: ufficiali più cortesi dei loro colleghi, dato che ci fanno rivestire e bere dell’acqua. Ci interrogano, e poco dopo ci riportano in elicottero a Gulu dalle massime autorità militari locali, per nuovi interrogatori. Che cosa era successo? Secondo le autorità militari, lo Stato maggiore di Gulu non era stato informato e l’unità mobile che ci aveva sparato era nel giusto perché della nostra iniziativa pacifica non era stata avvertita (monsignor Odama ha in seguito dato una smentita ufficiale, pubblicata anche dalla stampa locale, ricordando che le autorità di Kitgum erano state avvisate e che trasmettere tale avviso era loro quotidiano dovere).
Si è convenuto alla fine che si è trattato di un “incidente”, e che i militari non avevano colpe perché altrimenti avrebbero potuto certamente ucciderci, far ricadere sui ribelli la colpa e così far naufragare il processo di pace. E non pensassimo di essere le vittime di un piccolo golpe interno all’esercito, tra falchi e colombe, contro la pace… Comunque, se è vero che a Kitgum non ci riservano un trattamento benevolo, al contrario a Gulu gli ufficiali poco manca che ci festeggino. Lì, rifocillati, ci liberano, finalmente, e ci permettono di vedere i nostri confratelli della missione di Lachor.
Tre cose ho in cuore di dire in tutta questa vicenda.
Primo. La nostra disavventura è stata una passeggiata se paragonata alla sofferenza quotidiana della povera gente acholi. La risonanza che la notizia ha avuto, in Italia ma un po’ ovunque, è dovuta al coinvolgimento dei missionari bianchi. Poi sul nord Uganda di nuovo è calato il sipario.
Secondo. Il sacrificio dei missionari è grande, come la loro letizia, ma anche tanti volontari laici che ho visto con i miei occhi laggiù sono una testimonianza. Come pure il clero locale: monsignor Odama continua a favorire la scelta politica del dialogo tra le parti («seguo gli indizi che invia il Signore», confessa).
Terzo. I capi religiosi acholi sanno che “la guerra è un’avventura senza ritorno”, sanno che in Uganda, e nel mondo, questo è un momento nel quale è opportuno che le religioni intensifichino la comune collaborazione.
Questo negoziato riuscirà, per il bene del popolo? L’ho chiesto a padre Tarcisio e a padre Carlos, e m’hanno risposto che il cammino è in salita («ma nulla è impossibile a Dio»), finché Kony detta legge. Si potrà forse trattare con i ribelli, io credo, solo se nel movimento l’ala moderata avrà la forza di influenzare gli estremisti, ma ora sinceramente sembra difficile. Nella parte governativa, l’esercito influenza le scelte del presidente Museveni, il quale, ancora in luglio, credeva solo nell’opzione armata. Poi in agosto, prima del nostro rapimento, ha aperto qualche spiraglio.
I miei amici missionari in nord Uganda li ho visti tanto pregare per la salute e la salvezza della povera gente. Sarebbe bello se in occasione della beatificazione dei martiri di Paimol il processo di pace iniziasse davvero. Il più bel regalo che i martiri potrebbero fare al loro Paese.


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