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CHARLES PÉGUY
tratto dal n. 11 - 2001

Gli interventi del cardinale Daannels e di Giulio Andreotti alla presentazione del libro su Peguy

Noi gli anticlericali


Il cardinale Godfried Danneels, primate del Belgio, e il senatore Giulio Andreotti hanno presentato insieme, nella Sala del Cenacolo della Camera dei deputati a Roma, il libro che raccoglie gli articoli dedicati da 30Giorni a Charles Péguy. Partendo da una frase del cardinale Roger Etchegaray: «Di Péguy mi piace il suo anticlericalismo di buona lega»


di Giulio Andreotti e di Godfried Danneels


Andreotti e Daannels

Andreotti e Daannels

GIULIO ANDREOTTI: Eminenza, noi la ringraziamo di aver accettato il nostro invito. Io qui posso darle un saluto a nome della rivista, ma posso farlo anche come parlamentare perché, anche se da dieci anni sono al Senato, però dal 1946 al 1991 sono stato qui alla Camera dei deputati. Noi le diamo questo benvenuto con una certa emozione perché la nostra generazione aveva ancora vivo qui il ricordo di un suo predecessore, il cardinale Mercier. E ci siamo poi formati cercando di cogliere il contenuto di una dottrina sociale cristiana proprio lavorando sul Codice di Malines, del quale durante la guerra si fece una rilettura qui in Italia e ne venne fuori il Codice di Camaldoli, che non era altro che il Codice di Malines aggiornato e adattato alla realtà italiana. Oggi, teniamo questo incontro in un luogo un po’ particolare. Quando qui nella Sala del Cenacolo vengono ricevute delle delegazioni straniere, se ci sono persone non cattoliche rimangono un po’ sorprese nel vedere queste decorazioni, questi quadri. Vede, eminenza, Roma è una città strana dove, alcune volte rapidamente, altre volte con un po’ più di tempo, alla fine tutto si aggiusta. Quando, 130 anni fa, finiva lo Stato Pontificio, le suore a cui apparteneva questo complesso furono mandate via. Sembrava qualche cosa di definitivo, mentre poi non è stato così. Noi abbiamo non solo qui conservato quella che era la quadreria, quelle che erano le decorazioni delle suore, ma nella piccola cappella che lei adesso ha potuto visitare, ogni giorno, quando ci sono i lavori della Camera dei Deputati, si celebra la messa. Tutto questo per noi ha un significato anche nei confronti del libro che abbiamo pregato lei di presentare questa sera.
Io dovrei dichiarare una notevole incompetenza, non sono uno studioso di Péguy. Anzi, mi ha colpito sempre, in coloro che sono studiosi attenti e ammiratori di Péguy, la diversità di motivazioni, la diversità di temperamento, di cultura. Allora cerco di capire. Qui abbiamo questo libretto che esce anche in un momento giusto, perché si intitola Ciò che conta è lo stupore e oggi sembra quasi che le nostre generazioni non abbiano più niente di cui stupirsi. Il sovrapporsi di cose nuove è stato così rapido, e non solo da un punto di vista scientifico e tecnologico, che mi viene da pensare che forse l’ultima volta che la gente si è stupita fu la notte in cui gli uomini arrivarono sulla luna. Quella notte che certamente rimane impressa e che poi da noi qui in Italia fu vissuta in maniera particolare, perché come speaker alla televisione c’era Enrico Medi, grande scienziato e grande cattolico, che ci aiutò un po’ a capire che cosa significava quel fatto dal punto di vista scientifico, e non solo. Forse dovremmo dire, in chiave del tutto diversa, che stupore, nel senso di cosa non prevedibile, c’è stato anche l’11 settembre. Nessuno poteva prevedere, tanto meno gli americani (che ritenevano di essere in un santuario) potevano prevedere che le loro torri crollassero e che il loro valore di potenza militare fosse messo in discussione.
Sotto questo aspetto io credo che meditare su Péguy sia utile. Da parte mia cito soltanto due punti che mi hanno particolarmente colpito. Mi ha colpito quando dice che il cristianesimo è la religione della salvezza eterna e però rileva che, a suo giudizio, nella società in cui lui viveva anche il cristianesimo «è impantanato in quel pantano, il pantano del malcostume economico, industriale; non se ne trarrà fuori senza una rivoluzione economica ed industriale… insomma non c’è luogo di perdizione fatto meglio, studiato meglio, meglio attrezzato, non c’è strumento di perdizione meglio costruito di una fabbrica moderna». Mi ha colpito questo cattolico naturale, nel senso bello di questa espressione, che sente questo impatto così difficile, l’impatto con la società industriale che porterà poi a tante altre manifestazioni anche letterarie normalmente in chiave contestativa, in Francia e altrove. Un’altra cosa che mi ha colpito è quando con grande semplicità, e ci piace proprio rilevare questa purezza dell’approccio religioso di Péguy, affida le sue domande ai gesti più abituali che la Chiesa da sempre insegna ai suoi figli: chiede soccorso ai santi, ripete da povero peccatore le preghiere a Maria. Scrive testualmente Péguy: «Faccio parte di quei cattolici che darebbero tutto San Tommaso per lo Stabat, il Magnificat, l’Ave Maria e il Salve Regina».
Questi sono, io credo, dei piccoli tocchi che ci avvicinano a una figura complessa. Una figura per cui certamente non credo sia probabile un processo di beatificazione, ma è una figura che ci insegna molto. A Péguy ci si può avvicinare con tanta libertà, quanta è quella del suo collega nel Sacro Collegio, il cardinale Roger Etchegaray, che scrive nella sua breve prefazione una frase, riportata anche nel retro di copertina (dove si cerca sempre di mettere qualche cosa che colpisca): «Di Charles Péguy mi piace il suo “anticlericalismo” di buona lega». Questo gradimento non è una esclusiva del cardinale Etchegaray. In alcune zone italiane dove passavano i confini dello Stato Pontificio, un certo anticlericalismo è rimasto, non per ragioni teologiche, ma per ragioni del tutto naturali. Ricordo che in una di queste zone della Romagna un giorno andò il cardinale Urbani, non so se lei lo abbia conosciuto (è morto da alcuni anni), che era patriarca di Venezia. C’era stata prima una discussione in seno all’amministrazione locale di repubblicani storici, per decidere se il sindaco doveva andare o meno a salutare il cardinale. Alla fine avevano deliberato che il sindaco doveva andare a porgere il saluto al porporato, ma subito dopo averlo salutato avrebbe dovuto prendere le distanze. Giunto davanti all’illustre ospite, il sindaco disse: «Eminenza, io le do il saluto, ma devo dirle che io sono un anticlericale». E il cardinale, con prontezza: «Guardi lo sono anch’io, e mi trovo benissimo con lei»…
Come vede, dai cardinali abbiamo moltissimo da imparare. E dopo questa sera ne avremo ancora di più, eminenza.
«È propria di Péguy questa esperienza che l’opera della grazia non esige una preparazione culturale, religiosa, pedagogica, propedeutica, riflessiva per condurre alla conversione. La grazia accade. “La grazia tocca i cuori quando meno ce lo si aspetta”, scrive Péguy citando il Poliuto di Corneille. […] Nel suo tempo, come nel nostro, il primato della grazia era inghiottito da tutte queste riflessioni, maturazioni culturali, preparazioni. Leggendo il Vangelo e leggendo san Paolo, io penso che, cristianamente parlando, Péguy ha ragione»
GODFRIED DANNEELS: Perché parlare ancora di Péguy? Ancora oggi è un uomo inclassificabile. E poi è morto nel 1914, nei primi giorni della guerra, a soli 41 anni. Lasciando un’immensa opera anch’essa inclassificabile. La maggior parte di quelli che leggono Péguy lo leggono per il suo talento letterario. Perché, come ha scritto il cardinal Etchegaray nella prefazione al volume che stasera presentiamo, il martellio cadenzato dei suoi grandi versi dice sempre «cose profonde e semplici, che vi accompagnano per sempre nella vita, al ritmo di un passo di fantaccino infaticabile». Ma per il resto, per le sue idee, per quello che diceva, è stato dimenticato per lungo tempo proprio perché non apparteneva a nessuna categoria.
Chi è Péguy? È difficile dirlo. Questo uomo inclassificabile, fuori categoria, veniva da un ambiente cattolico, popolare, e ad un certo momento ha rinunciato al cattolicesimo prendendo parte al partito anticlericale in Francia. Poi si è sposato civilmente con una donna atea, non ha fatto battezzare i suoi figli e ad un certo momento, durante una malattia, si è riscoperto cattolico ed è diventato veramente un anticlericale, ma di tipo speciale.
Come prima cosa, si può dire che è moderno in una maniera inimmaginabile, unica. Ci sono altri poeti, scrittori e filosofi cattolici nella Francia del suo tempo che hanno dovuto imparare ad entrare in contatto con il mondo moderno. Lui non ha mai avuto questo problema. Lui si è trovato immerso nella modernità, senza saperlo, come nella sua materia genetica connaturale. Dentro la modernità, si è riproposto il problema di tutti i tempi del pensiero cattolico e della Chiesa cattolica. Quello per cui ci sono sempre due tentazioni. Nella Chiesa cattolica o anche tra gli scrittori cattolici c’è una categoria di gente che privilegia l’eterno sul temporale e altri che inghiottono l’eterno nel temporale. Lui non ha mai avuto neanche questo problema, perché è uno scrittore che si potrebbe chiamare lo scrittore dell’incarnazione. Per Péguy, più vi è Dio e più vi è l’uomo; e più vi è l’uomo e più vi è Dio. Questo, nel Novecento, era impensabile. L’uno escludeva l’altro: o l’uomo o Dio. In lui era assolutamente originaria e originale questa percezione che il cattolicesimo e la Chiesa si trovano in una specie di paradosso, quello di rispettare l’eterno e anche il temporale. E lui non ha mai fatto una teoria, una filosofia di questa sua prima percezione della natura del cattolicesimo. L’aveva nel suo sentimento immediato delle cose. Noi veramente lo sappiamo da qualche anno dopo il Concilio Vaticano II, ma prima del Concilio e durante il Novecento, specialmente rispetto ai circoli tradizionali e borghesi del cattolicesimo francese, si trattava di una novità assoluta. E lui non si è mai reso conto di questo, lo viveva così, naturalmente.
La seconda cosa importante da vedere in Péguy è la sua percezione della scristianizzazione. Lui dice: non siamo de-cristianizzati, siamo scristianizzati. Non viviamo più in una atmosfera cattolica, ma in una atmosfera non cattolica, non cristiana, assolutamente accettata, senza alcun problema. Gli uomini di oggi – dice – sono i primi, dopo Gesù, senza Gesù. E veramente nella generazione in cui lui ha vissuto era vero. Noi l’abbiamo visto dopo. E al momento attuale, nel nostro secolo, non è un grande mistero, lo vediamo tutti. Ma lui lo diceva già allora: siamo i primi uomini dopo Gesù che vivono senza problemi senza Gesù. Nella Francia di allora era impensabile parlare così.
In tutto questo, Péguy ha una grande simpatia per il mondo. Noi viviamo un tempo completamente scristianizzato, una situazione che si potrebbe anche descrivere come la deforestazione della memoria cristiana. Non c’è più un vocabolario cristiano. I ragazzi non conoscono nemmeno le parole cristiane e quando pongono qualche domanda e si risponde a questa domanda con il nostro vocabolario, non possono comprendere proprio perché non conoscono i termini, non hanno un dizionario cattolico e nemmeno cristiano. Lui lo sapeva già in quel tempo, ma non è mai diventato uno di quelli che accusano la modernità e gli uomini moderni con una sorta di moralismo, che allora andava di moda in Francia. Péguy non incolpa il mondo. Lui non ha paura della modernità, non minaccia di fare la guerra alla modernità. Non dà la colpa di questa scristianizzazione alla cultura moderna e al mondo moderno. Non se la prende neanche col marxismo, con i maestri del sospetto. Anche quando si scopre cattolico, Péguy porta con sé uno sguardo di simpatia per le passioni e le attese del mondo. Si scontrerà con gli intellettuali e i capi del socialismo, accusandoli di imborghesimento. Ma lui non rinnegherà mai le sue origini socialiste e la sua passione per un riscatto temporale, reale, sociale di ogni uomo. Leggo a questo riguardo un piccolo brano di Péguy che mi pare importante: «È per un approfondimento del nostro cuore sul medesimo cammino, e non è affatto per un’evoluzione, né per un ripensamento, che abbiamo trovato la strada del cristianesimo. Non l’abbiamo trovata grazie ad un ritorno. Piuttosto l’abbiamo rinvenuta al termine. Ed è per questo, occorre che lo si sappia bene dall’una e dall’altra parte che non rinnegheremo mai un solo atomo del nostro passato». Vuole dire Péguy: io non mi sono cambiato per farmi cattolico. Sono diventato cattolico, ho trovato la fede cristiana in fondo al mio socialismo.
Come Péguy si sia ritrovato cattolico, nessuno lo sa. Confidandosi con un amico, Péguy racconta di aver avuto un periodo difficile, di aver sofferto anche per una malattia abbastanza grave al fegato, e alla fine aggiunge quasi di sfuggita: «Non ti ho detto tutto... ho ritrovato la fede». Nessuno sa come questo sia avvenuto. Lui non ha mai scritto su questo fatto. Si è ritrovato cattolico con questa simpatia per il mondo moderno, anche scristianizzato. Finirà per avere immense difficoltà e collisioni con la borghesia cattolica della Francia e con colui che allora era una vera star, una stella mattutina del cattolicesimý francese del ventesimo secolo: Jacques Maritain. Ha avuto difficoltà perché per Maritain essere cristiani era innanzitutto credere a una serie di verità eterne, di concetti ben definiti, e seguire una morale codificata nell’insegnamento della Chiesa. A Péguy era accaduto diversamente. Bisogna dire che in Francia, all’inizio del ventesimo secolo, trovarsi in conflitto con Maritain poteva apparire come una specie di marchio di eresia. Forse proprio a causa di queste difficoltà, nei circoli cattolici tradizionali fino al Concilio Vaticano II Péguy non è mai stato guardato troppo bene. Lui si trovava in una posizione un po’ intermedia tra una fede profonda, ma intima e personale, e tutto un apparato di cattolicità ufficiale e, si deve dirlo, un po’ borghese.
La terza cosa speciale in Péguy è la percezione che l’azione della grazia non è mai (o solo raramente) preparata da discorsi, riflessioni, premesse culturali. La grazia cade come una pietra, come una stella dal cielo nell’anima di qualcuno. Penso che veramente la sua conversione sia avvenuta così. Non sappiamo quando, in che momento e come si è scoperto cattolico, ma penso che gli sia capitato qualcosa di simile a quanto successe a san Paolo sul cammino di Damasco. È propria di Péguy questa esperienza che l’opera della grazia non esige una preparazione culturale, religiosa, pedagogica, propedeutica, riflessiva per condurre alla conversione. La grazia accade. «La grazia tocca i cuori quando meno ce lo si aspetta», scrive Péguy citando il Poliuto di Corneille. Dio mi salva nel momento in cui Lui lo vuole, anche in un momento in cui non me lo aspetto e non sono pronto, umanamente parlando.
In questa percezione del verticalismo e del primato della grazia Péguy si trovò solo in Francia, e anche oggi se ne starebbe completamente solo. Péguy forse esagera un po’. Una preparazione o una “antepreparazione” evangelica può essere utile per preparare il cammino alla grazia, altrimenti la catechesi, l’apologetica non servirebbero a niente e quindi il 90% di quello che noi facciamo nella Chiesa sarebbe perfettamente inutile. Ma è anche vero che nel suo tempo, come nel nostro, il primato della grazia era inghiottito da tutte queste riflessioni, maturazioni culturali, preparazioni. Leggendo il Vangelo e leggendo san Paolo, io penso che, cristianamente parlando, Péguy ha ragione.
La cena in casa del fariseo, Romanino, Cappella del Santissimo Sacramento, San Giovanni Evangelista, Brescia.

La cena in casa del fariseo, Romanino, Cappella del Santissimo Sacramento, San Giovanni Evangelista, Brescia.

Non dico che la grazia è contro il fatto che prepariamo la strada per la grazia, perché tutto viene da Dio. Ma Dio non si lascia legare le mani dai nostri preparativi, dalla nostra preparazione. Per tutto il secolo passato in cui è vissuto Péguy, e anche oggi noi organizziamo, mettiamo tutto in opera, apparecchiamo, pubblichiamo… Péguy direbbe: «Ma Dio non salva così. Chi è veramente l’origine della salvezza e della grazia, voi con i vostri preparativi o io che sono Dio? faccio ciò che voglio – dice Dio». Esagera un po’, e probabilmente ciò è dovuto al fatto che lui stesso si è convertito in una maniera assolutamente verticalista. È un po’ unilaterale, ma questo è comprensibile, per la psicologia individuale dell’uomo Péguy. E anche tenendo conto che in Francia la cristianità costituita del suo tempo, in cui lui si sentiva straniero, era una realtà molto dogmatica, profilata, e anche combattente, perché era un periodo di forte anticlericalismo e bisognava pur difendersi. Ma in tutto questo Péguy ci viene a dire – e penso che su questo abbia ragione – che nel secolo passato, e anche in questo, abbiamo dimenticato il primato della grazia. Siamo tutti diventati pelagiani, o semipelagiani. Pelagiano è colui che dice: io mi preparo, faccio tutto ciò che si deve fare; poi Dio coopera negli ultimi cinque centimetri del mio cammino, mi aiuta con una piccola spinta sulla schiena per finire la gara. San Paolo, invece, dice: Dio fa tutto. Anche i primi metri, e non solo gli ultimi.
Per questo il milieu dei buoni cattolici in Francia ha accusato continuamente Péguy di lassismo, di quietismo, di lasciare andare tutto, di abbandonarsi a Dio, senza fare niente. Io penso che Péguy non corse alcun pericolo di diventare eretico. Forse questo pericolo può esserci per gli epigoni che non hanno precisamente quel senso di equilibrio che lui aveva, e che potrebbero anche cadere nel lassismo, nel quietismo, nell’agostinismo esasperato, dove la grazia assorbe tutto il resto. Perché c’è anche una parte di verità nell’istruzione, nel catechismo, nel discorso, nella dottrina, nello sforzo umano di operare bene e di chiedere di essere salvati. Ma non è il caso di Péguy. Lui rimane in una semplicità di bambino. Dice, ad un certo punto, nelle sue opere: io sono come un bambino, sono rimasto un bambino, un fanciullo che aspetta tutto dai suoi genitori. Ho aspettato tutto da Dio. La sola cosa che posso fare è rendere grazie. Ma che cosa posso fare io col mio sforzo personale? sono così piccolo!
Questo spiega anche il fatto che Péguy sia rimasto sempre un uomo della pietà popolare.
Per esempio, ciò che il signor presidente ha letto sul fatto che l’Ave Maria vale più di tante altre cose, è veramente chiaro per Péguy, che chiama queste preghiere molto semplici «preghiere di riserva», con le quali – dice – non ci si può perdere: lo Stabat Mater, l’Ave Maria, il Salve Regina. Per chiedere la guarigione del suo terzo figlio malato, Péguy ha cominciato ad andare in pellegrinaggio a Chartres, a 130 chilometri da Parigi, dove tutti gli anni anche oggi, durante il tempo di Pentecoste, tantissimi studenti si recano in pellegrinaggio per salutare la Vergine, Notre-Dame de Chartres. Dopo, Péguy ha scritto delle cose incredibilmente belle sulla Vergine e sulla preghiera semplice. Cito alcuni versi di una preghiera riportati anche in questo libretto. Si chiama Preghiera di residenza e fa parte della Tapisserie de Notre-Dame, l’opera che raccoglie tutte le poesie e le preghiere di Péguy su Chartres.

«O Regina, eccoci dopo la lunga via,
prima di riandare per quel cammino,
Il solo asilo nel cavo della vostra mano
E il giardino dove l’anima si schiude.
[…]
Abbiamo battuto strade così lontane
Non abbiamo più gusto per terre straniere.
Regina dei confessori, delle vergini e degli angeli
Eccoci tornati ai nostri primi villaggi.

Ce ne han dette tante, o Regina degli apostoli,
Abbiamo perso il gusto per i discorsi
Non abbiamo più altari se non i vostri
Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice.
[…]
Ciò che dappertutto altrove sarebbe un duro sforzo
Qui non è che semplicità e quiete;
Ciò che dappertutto è la scorza rugosa
Qui non è che la linfa e le lacrime del tralcio».

Tutte le preghiere di Péguy dicono questo. E anche le sue tre grandi opere, i misteri su Giovanna d’Arco, sulla speranza e sui Santi Innocenti. Sono opere dove la figura principale è sempre una figura molto umile, che ha un senso del corpo e del toccare. Per esempio, per Péguy Giovanna d’Arco è proprio colei che all’interno della Chiesa, in quel momento, ha difeso la semplicità di un’anima cristiana di ragazza incolta, in mezzo a vescovi e personaggi politici ed ecclesiastici che avevano sostituito alla grazia il discorso, il diritto, il tribunale, tutte invenzioni – per Péguy – un po’ umane. Péguy ha raccontato Giovanna d’Arco come la ragazzina semplice e innocente, che entra nella politica e anche nell’armata (diventando capo dell’armata francese) rimanendo completamente estranea a tutto questo mondo di grandi personaggi. E vince lei.
Un’altra figura cara a Péguy è la Maddalena, che ha toccato i piedi di Gesù e che non aveva nessuna cognizione, nemmeno quella che probabilmente non era bene che lei entrasse nella casa di quell’uomo, visto che era una donna di cattiva moralità. Poi, anche la Veronica, che tocca il volto di Gesù. È una ragazza sconosciuta, «un’ebrea da niente», che si trova senza volerlo lungo il cammino che porta al Calvario, e in un attimo prende sul suo fazzoletto l’impronta del volto di Gesù. Una donna semplice che non sa come muoversi tra questi soldati armati che prendono Gesù per portarlo alla croce. O Simone di Cirene: anche lui non capisce tutto quello che sta accadendo, ma prende la croce di Gesù, e tocca Gesù per andare con lui fino al Golgota. È chiaro che la simpatia di Péguy va sempre verso delle piccole figure di ragazze, di donne, di uomini che corporalmente toccano Gesù, senza mettersi a sviluppare grosse idee.
Tutte queste cose: la modernità quasi connaturale; la scristianizzazione registrata come un fatto doloroso ma senza lamentarsi, senza recriminare; l’assenza di ogni giudizio moralista sulla cattiva società nella quale viviamo; il primato della grazia, la verticalità della grazia; e non dico la negazione, ma la relativizzazione di tutti gli sforzi umani di riflessione, di maturazione, di propedeutica, fino a sdrammatizzare l’apprensione verso tutto ciò che è contenuto di verità dottrinale, formulazione giuridica, insegnamento catechistico, per privilegiare il cuore. In tutto ciò che abbiamo visto stasera, si vede perché Péguy è un uomo inclassificabile. È stato non soltanto dimenticato durante lunghi anni, ma per lunghi anni anche combattuto. È vero che quando si estremizzano tutte queste cose si può cadere nell’eresia. Ma Péguy non ha mai detto che il contenuto dottrinale non era importante. Semplicemente, ha detto che il cristianesimo non si riduceva alla definizione di verità eterne. Non era questo il cuore. E la sua, era un’aria così fresca che irrompeva in una società cattolica borghese francese in quel momento, che non mi sorprendo che l’interesse per Péguy adesso cominci a riprendere, come testimonia anche la pubblicazione di questo libro.
Altre difficoltà per Péguy scaturirono da ciò che lui diceva dei chierici. A loro faceva risalire ciò che, nella sua opera Véronique, definisce come «l’errore mistico», cioè la riduzione del cristianesimo ad una materia di insegnamenti, di contenuti veri. Questa constatazione rende Péguy profetico anche nel cogliere quale è la vera natura ultima della scristianizzazione. Essa non è dovuta -– dice Péguy – al fatto che oggi gli uomini sono più cattivi o più peccatori. I peccatori, insieme ai santi, fanno parte dello stesso «meccanismo» cristiano. Secondo Péguy la radice della scristianizzazione moderna sta proprio nell’errore mistico dei chierici, ossia nell’aver messo da parte e nel non riconoscere più che l’unico punto sorgivo della vita cristiana è il mistero dell’operazione della grazia.
Péguy non è molto simpatico con i chierici. Verso di loro ha detto cose molto dure. Leggo, a pagina 49, un brano in cui parla di loro: «Tolgono il prezzo, ciò che costituisce la posta, della scommessa, il saldo, del gioco, tutto ciò che costituisce il premio e il valore e la posta stessa e l’oggetto della salvezza. Tolgono, censurano il mistero stesso della creazione, e ci arrivano solo togliendo i pezzi grossi, i misteri essenziali. Tolgono la creazione, l’incarnazione, la redenzione; il merito, la salvezza, il premio della salvezza; il giudizio e qualcos’altro; e naturalmente e soprattutto la grazia; più di ogni mistero il mistero e l’operare della grazia».
Come sacerdote, constato che Péguy non è tra i migliori amici dei chierici. Anche questo gli fece passare tempi difficili. Per Péguy il cristianesimo è una cosa molto semplice. Per esempio lui privilegia i sacramenti sulle prediche. Non dice che la predicazione non serve a niente. Registra che con la predicazione si usano delle parole, dei concetti, dei discorsi, dei ragionamenti, ma con i sacramenti si tocca. Non si dice niente, si usano delle formule brevi di tre o quattro parole, come nell’eucaristia. Ma si tocca. La vita cristiana è bella nella sua corporeità, nella sua ordinarietà, nel semplice gesto di mettere la mano su qualcuno dicendo «Dio sia con te».
Questo è Péguy. Non dico che è il cattolico ideale, ma è Péguy.
Vorrei aggiungere che Péguy è anche un uomo che si avvicina a Dio per la via della bellezza. E questa penso che sia una cosa importante per il nostro secolo.
Ci sono tre porte per andare a Dio. Dio ha tre nomi: Verum, Bonum, Pulchrum, i tre universalia della filosofia medievale. Dunque c’è una porta d’ingresso per andare da Dio per la via del vero (per esempio, sottolineando che Dio è la Verità prima); c’è un’altra porta che passa per il bonum (che sottolinea che Dio è il bene ultimo, la suprema santità) e anche una porta che passa per la bellezza, perché Lui è supremamente bello.
Nella Chiesa, e soprattutto nella Chiesa cattolica, si prendono sempre le due prime porte. Ma quando io dico a dei giovani studenti che Dio è la somma Verità, si sentono tutti come dei piccoli Pilati. Domandano: «Cosa è la verità? E come si può provare che lei conosce la verità? Forse non c’è una verità suprema». Dunque questa porta che per principio sarebbe accessibile, perché Dio è vero, praticamente nel nostro tempo (ma questo è colpa nostra, della nostra cultura) è inaccessibile. Tutti i giovani sono non solo contro il dogmatismo, ma semplicemente contro i dogmi. E dunque non possono andare per il momento verso questa porta.
A chi li esorta ad avvicinarsi a Dio attraverso la porta del bonum, della virtù morale, o degli ideali di santità, rispondono: «Io posso ammirare tutto questo, ma non fa per me. Sono troppo fragile. Ammiro la santità di Dio, ma è un ideale troppo alto per me». Dunque non hanno accesso per questa porta.
Ma se durante la Quaresima si invitano gli stessi giovani ad ascoltare la Passione secondo san Matteo di Johann Sebastian Bach, uscendo non sentirete nessuna obiezione. La porta della bellezza è completamente aperta. E pure il testo della Passione secondo san Matteo di Bach è un testo evangelico, le sue arie cantate appartengono al puro pietismo del XVII secolo, un po’ indigesto per noi. Eppure loro dicono: «Questo mi ha colpito».
Penso che nella Chiesa, adesso, la via della cultura, dell’arte, della musica, dell’architettura è una via molto praticabile, perché davanti ad essa cadono le obiezioni. Non dico che sarà sempre così. Non so come sarà nel XXI o XXII secolo. Ma per il momento è così. E c’è da dire che la via della bellezza è assolutamente trascurata dai teologi cattolici, fatta eccezione di Hans Urs von Balthasar con la sua teologia della bellezza.
La bellezza di cui sto parlando non è un estetismo, non è una bellezza della forma. Già Platone diceva «pulchrum est splendor veri». Quindi, se il vero è il sole, il pulchrum è l’alone intorno al sole, lì dove il sole è più caldo e più luminoso. La bellezza è lo splendore, la brillance del vero, come dicono i francesi. Già i greci avevano fatto delle parole bello (kalòs) e buono (agathós) un unico sostantivo: la calogatia. Perché tutto ciò che è buono è bello e tutto ciò che è bello è buono.
Péguy ha seguito questa strada, senza farci teorie. Per lui la via regia per andare a Dio era la bellezza, nel senso dell’armonia tra verum, bonum e pulchrum. Certo non nel senso dell’estetismo del Doctor Faustus. Questa è un’altra cosa.
«Difficoltà per Péguy scaturirono da ciò che diceva dei chierici. A loro faceva risalire ciò che, nella sua opera Véronique, definisce “l’errore mistico”, cioè la riduzione del cristianesimo a una materia di insegnamenti, di contenuti veri. Questo lo rende profetico anche nel cogliere quale è la vera natura ultima della scristianizzazione. Non è dovuta al fatto che oggi gli uomini sono più cattivi o più peccatori. I peccatori, insieme ai santi, fanno parte dello stesso “meccanismo” cristiano. Secondo Péguy la radice della scristianizzazione moderna sta proprio nell’errore mistico dei chierici, ossia nell’aver messo da parte e nel non riconoscere più che l’unico punto sorgivo della vita cristiana è il mistero dell’operazione della grazia»
Penso che in questo momento, per parlare ai giovani di Dio si può anche far vedere tutto questo immenso tesoro culturale, nel senso totale della parola. Anche se l’avvicinarsi al cristianesimo attraverso la cultura comporta un pericolo: ridurre Dio e la fede cattolica al dato culturale. Anche la cultura può servire come porta d’accesso, può offrire l’occasione per avvicinarsi a Dio, ma rimane un’occasione.
Ricordo che una volta, in Francia, il presidente François Mitterrand aveva saputo che un insegnante di scuola aveva portato i suoi studenti in un museo e davanti a un’immagine dell’Ultima Cena, nessuno degli studenti sapeva chi erano quei dodici uomini, senza donne, attorno ad un tavolo. Per loro, per gli studenti, era impossibile capire cosa fosse l’Ultima Cena. Allora Mitterrand disse: a partire da ora, bisogna introdurre nell’orario e nei programmi delle scuole un’informazione sul cristianesimo. Questo è un approccio culturale importante. Non è ancora la fede cattolica, ma può essere una preparazione evangelica molto importante. Anche se non si dovrebbe arrivare ad una situazione dove la fede è ridotta al puro dato culturale. La fede non può essere identificata con la cultura, perché si può essere santi senza avere nessuna cultura, e di questo ci sono molti esempi.
Per concludere, sono felice di vedere che questo piccolo libro esce in questo momento. Non ne abbiamo fin qui parlato, ma è ineguagliabile anche il valore poetico, artistico, letterario di Péguy. Lui pratica una specie di poesia che non ha alcun corrispondente fuori di lui. Per esempio, nel Porche du mystère de la deuxième vertu, tratteggia con tenerezza struggente la virtù della speranza, ritraendola come una piccola bimba vivace e delicata, una bambina che non va ancora a scuola e che avanza in mezzo alle due sorelle più grandi, la fede e la carità. Ecco, dice Péguy, sembra così piccola, così inerme, nessuno nel popolo cristiano la nota. Credono che siano le due sorelle più grandi a far camminare la piccola tenendola per mano. E invece: «È lei, quella piccina, che trascina tutto». È questa piccola bambina, la speranza, che può salvare tutto. E se c’è una cosa di cui abbiamo bisogno nel nostro tempo, questa è la speranza. Anche in questo Péguy è stato profetico.
Grazie per la vostra attenzione.
ANDREOTTI: Le siamo molto grati, eminenza, per questa riflessione che porta noi ad essere soddisfatti di aver fatto uscire questo libro.
Se qualcuno pensasse che lei è stato troppo ardito nel dire bene di Péguy, vorrei mostrarle questo piccolo documento: L’Osservatore Romano ogni sera, insieme alle notizie, agli articoli e ai discorsi, riporta un piccolo pensiero spirituale. Qualche volta io li ritaglio. Nel 1997 ho trovato sull’Osservatore questo pensiero, proprio di Péguy, con il quale possiamo anche concludere: «Dio ha bisogno di noi, Dio ha bisogno della sua creatura. Egli si è – per così dire – condannato ad una situazione: Egli manca di noi, Egli manca della sua creatura».
Grazie, eminenza.


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