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TEOLOGIA
tratto dal n. 11 - 2001

L’incontro tra due doni distinti


«Come lei, io credo che Dio ha creato solo in vista della elevazione deifica; ma ciò non toglie la radicale eterogeneità del dono primo della vita razionale e del dono secondo (e antecedente nell’ordine della finalità) della vita soprannaturale». Così Blondel in una lettera a De Lubac. Questo saggio prende in esame l’itinerario del filosofo francese, in particolare le critiche che mosse a Teilhard de Chardin


di Massimo Borghesi


Cristo e l’adultera, Rembrandt, Sala delle Stampe, Monaco

Cristo e l’adultera, Rembrandt, Sala delle Stampe, Monaco

1) Due Blondel?
«Non riesco a condividere la sua simpatia per il pensiero di Blondel e per quello di Teilhard de Chardin»1, scriveva il 21 giugno 1965 Étienne Gilson a Henri de Lubac. Lo storico del pensiero medievale era sorpreso dell’apprezzamento del gesuita verso autori che, a suo modo di vedere, confondevano con disinvoltura filosofia e teologia, natura e soprannatura. Sotto questo profilo Gilson non faceva differenze: Blondel e Teilhard de Chardin, quasi a voler sottolineare una continuità ideale tra i due, una dipendenza, probabilmente, del secondo dal primo. Blondel come Teilhard, quindi. Nella lettera a de Lubac il giudizio è netto: «Blondel fu un filosofo che s’improvvisò teologo»2. Altrove dirà che il pensatore di Aix «ha ceduto alla tentazione di filosofare»3. L’equivoco che sottostà al suo pensiero, a L’Action in particolare, è che «Blondel parla di filosofia, mentre il problema che lui intende risolvere per via filosofica riguarda il soprannaturale, un campo che per definizione appartiene alla teologia. Blondel voleva giungere con mezzi filosofici a poter sostenere che l’uomo aspira a un fine soprannaturale: voleva dunque giungere a una conclusione teologica attraverso la filosofia»4. L’esito, secondo Gilson, è una evidente confusione tra ragione e fede, un intrinsecismo incapace di valorizzare la grande lezione tomista sulla distinzione tra i piani. «Quand’ero giovane» confesserà a de Lubac «mi ha portato a credere che la Scolastica era una impresa di “monomorfismo estrinsecista”»5.
Il giudizio è, quindi, senza appello. Si può osservare come Gilson dimostri qui impressioni e conoscenze ricavate dalla lettura del primo Blondel, autore de L’Action, della Lettre sur les exigences de la pensée contemporaine en matière d’apologétique, di Histoire et dogme. Del tutto ignorato, o quanto meno trascurato, è il Blondel successivo. «Più tardi» scrive «Blondel riprese da capo tutto l’esame del problema: ma era ormai giunto alle soglie della vecchiaia e non è facile in filosofia ricominciare a quella età»6. I volumi degli anni Trenta, La Pensée, L’Être et les êtres, la nuova edizione de L’Action, gli studi sulla filosofia e lo spirito cristiano, non modificano, per Gilson, l’immagine complessiva e non sciolgono l’«ambiguità fondamentale che domina il pensiero di Blondel»7. Un pensiero complicato che spiega come, alla metà degli anni Sessanta, «i giovani cristiani alla ricerca di una filosofia guardano più volentieri a Teilhard de Chardin che a Blondel e alla sua dialettica contorta, difficile, in cui la scelta dei termini e la costruzione del discorso riflettono le incertezze del pensiero»8.
Blondel passa quindi il timone a Teilhard de Chardin in una ideale continuità di ispirazione. Il “pre-giudizio” di Gilson non era certo isolato. Altri pensatori di scuola tomista muoveranno a Blondel critiche analoghe. Ricordiamo, tra tutti, Cornelio Fabro per il quale «Blondel si rifiuta di applicare il principio leibniziano per i rapporti fra l’ordine naturale e soprannaturale, ma tutta la concezione leibniziana della struttura del finito [ripresa da Blondel] è solidale con la continuità del passaggio fra i due ordini»9. Il blondelismo, favorendo una indistinzione tra finito e infinito e tra pensiero umano e pensiero divino, blocca l’adesione al tomismo e diviene la fonte essenziale della Théologie nouvelle, fortemente criticata da Fabro10.
Per Fabro come per Gilson, quindi, aggiustamenti e modifiche non mutano il quadro complessivo del pensare blondeliano, la sua ambiguità di fondo. Diversamente da loro gli esponenti della Théologie nouvelle, criticati da Fabro ma non da Gilson che apprezza profondamente de Lubac, evidenziano una autentica frattura nella riflessione di Blondel, frutto di una svolta che, dal loro punto di vista, appare come una sorta di involuzione. Il teorico più conseguente è qui Henri Bouillard, per il quale non v’è una ma “due” filosofie nell’itinerario blondeliano al punto che, alla fine, Blondel non ha più compreso la sua prima filosofia11. Il pensatore di Aix è passato da «une phénoménologie de l’existence» a «une métaphysique de type classique». L’opera che segna la svolta è Le probleme de la philosophie catholique del 1932. Per Bouillard il passaggio è contrassegnato da un ripensamento della “filosofia del soprannaturale” che induce Blondel, sotto l’influenza dei teologi, ad assumere l’ipotesi di una “natura pura”. Verso questi teologi il giudizio di Bouillard è severo: «Ci si può dispiacere che alcuni teologi dell’inizio secolo, per una conoscenza troppo corta della tradizione cristiana, abbiano orientato Blondel in una direzione contraria al suo “genio” e non abbiano saputo aiutarlo a compiere la sua grande opera di pensiero cristiano»12.
Per Bouillard vi sono quindi “due” Blondel, l’uno, l’autore de L’Action e dei primi scritti, meritevole di essere ripreso perché teologicamente fecondo; l’altro che «tende a sovrapporre il soprannaturale contingente ad una filosofia del possibile, della natura pura»13, sterile e senza futuro. Mentre per Gilson e per Fabro vi è un unico Blondel, che non scioglie, nella riflessione della maturità, l’ambiguità originaria, per Bouillard la filosofia blondeliana è separata in due momenti privi di legame tra di loro. Per i primi v’è una continuità senza fratture, per il secondo un’eterogeneità netta. Ambedue le prospettive non riescono, in tal modo, a dar ragione dell’unitarietà del pensiero di Blondel, unitarietà che non significa uniformità. Ciò che non emerge infatti è la complessità di uno sviluppo il quale implica un processo autocritico che non rinnega però l’intuizione originaria. Autocritica reale, certo, sulla quale Fabro e Gilson sorvolano ingiustamente, e che non può essere motivata, come vuole Bouillard, con la mera preoccupazione difensiva di «rispondere alle esigenze di alcuni teologi». Questo rilievo, di fronte a colui che è, forse, il «più grande filosofo cattolico della Francia dei tempi moderni»14, è quanto meno riduttivo. In realtà per poter tornare a Blondel, a Blondel nella complessità del suo sviluppo, occorre, come giustamente osserva Giuseppe Colombo, ripensare l’idea, «oggi accreditata nella koiné culturale, dei due Blondel, dei quali solo il primo offre interesse per la teologia e la filosofia, non invece il secondo. Detto diversamente, è da chiedersi se non gioverebbe, non solo all’obiettività della critica, ma alla fecondità del pensiero blondeliano, liberarlo dal sequestro e/o dal monopolio esercitato su di esso, dalla “Théologie nouvelle”»15.


2) La distinzione
naturale-soprannaturale
La resurrezione della figlia 
di Giairo, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Berlino

La resurrezione della figlia di Giairo, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Berlino

Se vale l’osservazione di Colombo possiamo allora comprendere come proprio il processo di rettifica del suo pensiero, che Blondel avvia già negli anni Dieci, possa essere oggi oggetto di rinnovato interesse. Questo ripensamento investe nozioni chiave quali quelle di “pancristismo”, estrinsecismo/intrinsecismo, naturale/soprannaturale.
Riguardo al suo “pancristismo”, Blondel farà notare come «quello che ho chiamato il mio “caritismo”, il mio pancristismo, è appunto l’opposto di una “metafisica”, fosse anche una metafisica della carità»16. Egli è dell’opinione «di non offrire ai suoi revisori né ai suoi lettori l’espressione inusitata e ambigua di pancristismo. Senza una opportuna preparazione e spiegazione, essa rischia, per analogia con la parola panteismo, di suggerire l’idea di una coerenza necessaria, di una continuità fisica e metafisica»17. In realtà «la funzione di Cristo, in quo omnia constant, è meno ontologica nel senso astratto della parola, che spiritualizzante, attraverso l’unione trasformante»18. Con ciò Blondel poneva in guardia dal rischio di una “cristologia metafisica”, puramente filosofica, quale poteva essere dedotta dal suo ideale originario di “pancristismo”. Una cristologia cosmica, che si muoveva nella perfetta indistinzione tra filosofia e teologia, fede e ragione, tale da condurre ad una posizione “intrinsecista”. Nel saggio del 1916, L’anti-cartésianisme de Malebranche, Blondel, che in precedenza aveva criticato duramente l’estrinsecismo tra fede e ragione, osserverà come l’intrinsecismo di Malebranche, contrassegnato dalla perfetta continuità tra naturale e soprannaturale, risulta essere più pericoloso, per la teologia, del “separatismo” cartesiano, fondato sulla rigorosa distinzione degli ordini19. Un Blondel “tomista” quindi, non compreso da Gilson, che correggeva ed arricchiva le posizioni espresse nella Lettera sull’apologetica.
Come confesserà a de Lubac nell’aprile del 1932: «Quando più di quarant’anni fa ho affrontato problemi per i quali non ero sufficientemente preparato, regnava un estrinsecismo intransigente»20. L’estrinsecismo radicale della neoscolastica, per il quale la natura è concepita come un monolite chiuso nel suo ordine, spiega per converso la genesi (geniale) dell’Action, la sua concezione dinamica dello spirito insoddisfatto di sé e della propria immanenza, intuizione che Blondel non rinnegherà e che dovrà solo salvaguardare dalla deriva intrinsecista. Da qui l’urgenza di recuperare una chiara distinzione tra naturale e soprannaturale, e, quindi, indirettamente, la lezione tomista. Come, in maniera perfetta, scriverà nel Vocabulaire technique et critique de la philosophie di André Lalande: «È soprannaturale, a rigore di questo termine che ha la sua origine e la sua applicazione nel linguaggio cristiano, ciò che, procedendo da una condiscendenza gratuita di Dio, eleva la creatura intelligente a uno stato che non potrebbe essere lo stato di natura di nessun essere creato, a uno stato che non potrebbe essere né realizzato né meritato, nonché espressamente concepito da nessuna forza naturale: giacché si tratta della comunicazione dell’intima vita divina, secretum Regis, di una verità impenetrabile a ogni veduta filosofica, di un bene superiore a ogni aspirazione della volontà»21.
Questa distinzione tra natura e soprannaturale, inattingibile dalla natura, è in Blondel un punto fermo. Nel carteggio con de Lubac del 1932 alle osservazioni del padre gesuita, che contestava l’«ipotesi di uno stato di natura, nel quale l’uomo avrebbe potuto essere creato e lasciato»22, ipotesi presente nei testi blondeliani, il filosofo di Aix rispondeva: «Mi sembra che uno degli errori di prospettiva da evitare, dipenda dalla cattiva abitudine di considerare che lo stato in cui ci pone la vocazione soprannaturale elimini lo “stato di natura”. No, questo resta immanente all’adozione divina stessa. Ed è in questo senso che si può, come filosofo e come teologo, parlare della incommensurabilità essenziale ed indistruttibile degli esseri e di Dio, per capire meglio le invenzioni della carità divina, le vie paradossali dell’unione trasformante, la meraviglia metafisica e propriamente iperfisica del nostro consortium divinae naturae. Come lei, io credo che Dio ha creato solo in vista della elevazione deifica; ma ciò non toglie la radicale eterogeneità del dono primo della vita razionale e del dono secondo (e antecedente nell’ordine della finalità) della vita soprannaturale»23.

3) Blondel critico
di Teilhard de Chardin
V’è un documento, singolarmente trascurato dalla critica, in cui la posizione di Blondel sul soprannaturale emerge con tutta chiarezza: è il carteggio con Teilhard de Chardin, raccolto da de Lubac, che, grazie alla mediazione di Auguste Valensin, si effettuò nel dicembre del 191924. Documento importante, pubblicato nel 1965, la cui lettura avrebbe probabilmente modificato il giudizio di Gilson, sempre del 1965, su Blondel e Teilhard accomunati da una stessa prospettiva. L’occasione della corrispondenza fu l’invio a Blondel, tramite Valensin, di alcuni scritti di Teilhard su cui si richiedeva un giudizio. Nella sua memoria, del 5 dicembre, Blondel esordisce osservando come in quegli scritti abbia ritrovato «alcuni dei temi più antichi, più esoterici del mio pensiero personale, e di quello che ella chiama il mio “pancristismo”»25. La consapevolezza dei limiti di quella prospettiva, ormai lontana, lo induce a porre in guardia il padre Teilhard dai suoi possibili esiti: «Mi sembra infatti che le tentazioni dalle quali ho dovuto e devo difendermi siano analoghe a quelle dalle quali padre T. deve a sua volta guardarsi»26.
Il pancristismo cosmico di Teilhard non è immune da profonde ambiguità. Il pericolo più grave è «che l’ordine naturale abbia, in quanto tale, una stabilità divina, che il Cristo svolga fisicamente la funzione che il Panteismo o il Monismo attribuiscono al Dio vago e diffuso del quale si accontentano. Vi è in questo un fondo di naturismo, di ilozoismo, o per dir meglio di iloteismo, che apparirà inaccettabile proprio per la formula che ne rivela l’esito logico: bisognerebbe ammettere che il Cristo si sia potuto incarnare per uno scopo diverso da quello della soprannaturalizzazione, e che il mondo, anche fisicamente, sia stato divinizzato, senza essere soprannaturalizzato»27. In questo terreno, scrive ironicamente Blondel con un termine ripreso da Teilhard, non si deve essere un visionario. «Padre T. sembra supporre che possiamo comunicare con il Tutto (Cristo compreso) senza prima ed esclusivamente comunicare con l’Uno, con il Trascendente, con il Verbo incarnato, nella sua concreta e singola natura di uomo»28. In tal modo il suo pancristismo rischia di risolversi in un naturalismo divinizzato, in un vero e proprio panteismo. Per questo, «per non cadere nel più piccolo rischio di immanentismo, è indispensabile […] sottolineare con sempre maggior chiarezza e forza la trascendenza assoluta del dono divino, il carattere inevitabilmente soprannaturale del disegno deificante, e di conseguenza la trasformazione morale e la dilatazione spirituale che la grazia permette ed esige. Benché in un senso vi sia continuità nell’ordine universale, in un altro senso vi è incommensurabilità, capovolgimento dell’uomo vecchio e della vecchia natura, per la nascita del “novum coelum” e della “nova terra”»29.
Nella sua risposta, del 12 dicembre, Teilhard, lungi dal raccogliere le puntualizzazioni di Blondel, ribadiva con decisione il suo punto di vista. «Il Cristo è centro dell’Universo, nche nelle zone dette “naturali”»30. Di fronte all’instabilità dell’ordine naturale «il Cristo ha qualche cosa di un demiurgo»31. Ciò significa che «il nostro Universo attuale è soprannaturalizzato in tutto ciò che è (cioè non ha più senso né centro che in Cristo)»32. Le opere, lo sforzo umano, divengono, sotto questo profilo, compimento di Cristo, materia del Pleroma che viene attuandosi. Se, come affermano Note sur le Christ Universel, del gennaio 1920, «il Cristo è universale…, l’azione umana può riferirsi al Cristo, concorrere al compimento del Cristo. Ogni progresso, sia nella vita organica, sia nella conoscenza scientifica, sia nelle facoltà estetiche, sia nella coscienza sociale, è dunque cristianizzabile fin nel suo oggetto (perché ogni progresso, in sé, si integra organicamente nello spirito che è sospeso al Cristo). Questa semplicissima prospettiva fa cadere la barriera funesta che sussiste nonostante tutto, nelle nostre attuali teorie, tra lo Sforzo cristiano e lo Sforzo umano. Se lo Sforzo umano diventa divinizzabile in opere (e non soltanto in operatione), il Mondo, per il cristiano, diventa interamente divino»33.
Nella sua risposta del 19 dicembre Blondel osserva come «Padre T. sembra meno preoccupato di me di mettere in evidenza l’incommensurabilità divina, di attirare l’attenzione su questa necessità, che non vi è divinizzazione senza soprannaturalizzazione, né soprannaturalizzazione senza una morte e una rinascita spirituale»34. Anch’egli conviene con il padre gesuita sul «carattere vero, buono, solido, dello sforzo naturale» ma il fuoco divino «non lo si trova tal quale, fisicamente, nello “sforzo umano”, né nell’umanità, né nel mondo ut sic»35. Per Blondel, Teilhard, «a forza di voler infondere il Cristo nel nostro sforzo e nel mondo trasfigurato agli occhi della sua fede, mi sembra che – ora egli cerchi di rappresentarsi questa immanenza del soprannaturale sotto tratti troppo fisicamente immaginativi – ora (e non è più soltanto una forma di gnosi) attualizzi in una sorta di ontologia millenaristica la divinizzazione filogenetica dell’Universo, come se essendo naturalmente instabile, questo Universo trovasse naturalmente nel Cristo il suo appoggio e la sua solidità, che contribuirebbe naturalmente a consolidare noi stessi; e così il Soprannaturale diventerebbe come un elemento costitutivo, al modo degli altri elementi, che li illumina certo, addirittura li trasfigura, ma non li consuma né li transustanzia»36.
Per Blondel la carità, dono di grazia che trasforma la natura, «non vive delle passioni umane “ut sic”; la soprannaturalizzazione, se si riflette a ciò che è l’incommensurabilità divina, non può operarsi senza un salto. Rifiuto il giansenismo tanto quanto mi sembrano deluden“i l’umanesimo devoto e lo scientismo cristiano. È ugualmente importante non soprannaturalizzare il naturale e non naturalizzare il soprannaturale»37.
Nella sua replica del 29 dicembre, Teilhard, nonostante paventi il rischio di un «Emersonismo cristiano»38, non deflette dalla sua posizione. Non è possibile immaginare il mondo naturaliter, extra Christum. «Ho pensato talora di attenuare quanto questa concezione ha di assoluto (e di inverosimile a prima vista), immaginando che il Mondo, extra Christum, possegga una prima esistenza che basti a se stessa (ordine naturale, sfera del progresso umano). Solo coloro la cui vita aderisce a G. [esù] C. [risto] con la fede e la buona intenzione potrebbero oltrepassare questo primo cerchio ed entrare (essi e il loro Mondo) nel campo della divinizzazione del Cristo. Ci sarebbero così, a parte rei, due parti distinte dell’Universo: il Mondo creato e il Mondo del Cristo (il secondo dei quali assorbirebbe gradualmente il primo…). Mi è parso che questa attenuazione fosse illogica, – in disaccordo con l’identità del Dio Creatore e Redentore – incompatibile con l’elevazione dell’ordine naturale nella sua interezza»39.
Teilhard confessava, in tal modo, la sua incapacità a riconoscere la reale distinzione tra i due ordini, naturale e soprannaturale, la distinzione tra il livello della creazione e quello della redenzione. Il monismo, ora naturalistico ora soprannaturalistico, faceva velo alla possibilità di intendere le obiezioni di Blondel. Tra i due, nonostante le formule di cortesia, non v’era possibilità d’intesa. Nonostante Teilhard parli a più riprese di una differenza solo di accento40 questa, in realtà, investe la sostanza. Ancora nel 1925, allorché padre Valensin sottopose a Blondel Mon Univers (1924) di Teilhard, il filosofo di Aix vi troverà «più generosità che precisione»41, giudizio questo ritenuto da de Lubac «troppo severo»42. In realtà la critica a Teilhard documenta (oltre Gilson) il confine che separa la riflessione di Blondel da quella del “visionario”. La difesa operata da de Lubac, di Blondel e Teilhard, con il suo irenico tentativo di appianare i contrasti, non giova qui a fare chiarezza. Soprattutto non giova a Blondel.
Più realisticamente Teilhard confesserà: «Gli devo molto. Ma tutto sommato non ci siamo capiti»43. Blondel, dal canto suo, scriverà, nel 1925, a padre Valensin: «Guardiamoci dall’Origenismo che tende a misconoscere le opposizioni radicali e la stabilità eterna dell’opzione libera. La continuità delle cose non impedisce la contingenza delle soluzioni singolari e i rischi della creatura ragionevole»44. Il limite del metodo teilhardiano, scriverà a monsignor Bruno de Solages il 16 febbraio 1947, è che «riduce a un piano scientifico, fenomenista, naturista, come se questo piano contenesse la verità essenziale, ciò che è anche e soprattutto d’ordine metafisico, religioso, e addirittura propriamente soprannaturale»45.
L’Universo “divino” non aveva più bisogno di Cristo, lo conteneva già in sé. Il “pancristismo” aveva dissolto l’irripetibile figura del Cristo storico. Blondel, per l’itinerario stesso del suo pensiero, era in grado di cogliere meglio di qualunque altro, le possibili illusioni di tale prospettiva. Da qui il rilievo di una lezione la cui acutezza e profondità non cessa di interrogare il pensiero filosofico e teologico contemporaneo.


NOTE
1) Lettres de monsieur Étienne Gilson au père de Lubac, Paris 1986, tr. it., Un dialogo fecondo. Lettere di Étienne Gilson a Henri de Lubac, Genova 1990, p. 61.
2) Ivi.
3) É. Gilson, Trois leçons sur le thomisme et sa situation présente, tr. it., Il tomismo e la sua situazione attuale, in: É. Gilson, Problemi d’oggi, Torino 1967, p. 71.
4) Op. cit., p. 68.
5) Un dialogo fecondo. Lettere di Étienne Gilson a Henri de Lubac, cit., p. 61.
6) É. Gilson, Il tomismo e la sua situazione attuale, cit., pp. 70-71.
7) Op. cit., p. 71.
8) Op. cit., p. 72.
9) C. Fabro, Dall’essere all’esistente, Brescia 1965, p. 472.
10) Op. cit., p. 476. Cfr. R. Garrigou-Lagrange, La nouvelle théologie où va-t-elle?, in Angelicum, 23, (1946), pp. 126-144. Sul rapporto tra Blondel e la “Théologie nouvelle” cfr. A. Russo, Henri de Lubac: teologia e dogma nella storia. L’influsso di Blondel, Roma 1990; G. Moretto, Destino dell’uomo e Corpo mistico. Blondel, de Lubac e il Concilio Vaticano II, Brescia 1994.
11) H. Bouillard, L’intention fondamentale de Maurice Blondel et la théologie, in Recherches de Science Religieuse, n. 3, 1949, pp. 321-402. Cfr. G. Colombo, Il primo e il secondo Blondel, in La Scuola Cattolica, n. 6, 1993, pp. 737-755.
12) H. Bouillard, L’intention fondamentale de Maurice Blondel et la théologie, cit., p. 382.
13) Op. cit., p. 374.
14) H. U. von Balthasar, +enri de Lubac. Sein organischen Lebenswerk, Einsiedeln 1976, tr. it., Il padre Henri de Lubac. La tradizione fonte di rinnovamento, Milano 1978, pp. 34-35.
15) G. Colombo, Il primo e il secondo Blondel, cit., p. 754.
16) Blondel et Teilhard de Chardin. Correspondance commentée par Henri de Lubac, Paris 1965, tr. it., Corrispondenza di Maurice Blondel e Pierre Teilhard de Chardin. Commentata da Henri de Lubac, Torino 1968, p. 58.
17) Op. cit., pp. 58-59.
18) Op. cit., p. 59.
19) Cfr. M. Borghesi, Cartesio, preferibilmente. Blondel e Del Noce contro l’intrinsecismo di naturale e soprannaturale, in 30Giorni, n. 7/8, 2001, pp. 64-68.
20) H. de Lubac, Mémoire sur l’occasion de mes écrits, Namur 1989, tr. it., Memoria intorno alle mie opere, Milano 1992, p. 23.
21) Vocabulaire technique et critique de la philosophie di André Lalande, Paris 1947 (5°ediz.), p. 1053, nota di M. Blondel (tr. it., Dizionario critico di filosofia, Milano 1971, voce “Soprannaturale”, p. 853).
22) H. de Lubac, Memoria intorno alle mie opere, cit., p. 21.
23) Op. cit., p. 25.
24) Cfr. F. Polato, Blondel e Teilhard de Chardin, Bologna 1966.
25) Corrispondenza di Maurice Blondel e Pierre Teilhard de Chardin. Commentata da Henri de Lubac, cit., p. 20.
26) Op. cit., p. 23.
27) Op. cit., p. 24.
28) Op. cit., p. 25.
29) Op. cit., p. 26.
30) Op. cit., p. 35.
31) Ivi.
32) Op. cit., p. 36.
33) P. Teilhard de Chardin, Oeuvres, 9, Paris, pp. 41-42.
34) Corrispondenza di Maurice Blondel e Pierre Teilhard de Chardin. Commentata da Henri de Lubac, cit., p. 38.
35) Op. cit., p. 44.
36) Ivi.
37) Ivi.
38) Op. cit., p. 47.
39) Op. cit., p. 49.
40) Op. cit., pp. 36, 51.
41) M. Blondel-A. Valensin, Correspondance, a cura di H. de Lubac, Paris 1957-65, 3 voll., t. III, p. 128.
42) Corrispondenza di Maurice Blondel e Pierre Teilhard de Chardin. Commentata da Henri de Lubac, cit., p. 66.
43) Lettera a Claude Cuénot (del 15 febbraio 1955), cit. in: Corrispondenza di Maurice Blondel e Pierre Teilhard de Chardin. Commentata da Henri de Lubac, cit., p. 118.
44) M. Blondel-A. Valensin, Correspondance, cit., t. III, p. 128.
45) Cit. in: Corrispondenza di Maurice Blondel e Pierre Teilhard de Chardin. Commentata da Henri de Lubac, cit., p. 63.


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