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ARTE
tratto dal n. 11 - 2001

Masaccio...e la pittura toccò le cose


Prima di lui la pittura le aveva tutt’al più sfiorate, ma ora le toccava d’impeto. Così il Vasari descrisse la rivoluzione operata dal pittore toscano, la cui arte procede semplificando: tutto deve essere chiaro, visibile, non ambiguo, svuotato di retorica. In una parola deve essere facile


di Giuseppe Frangi


Masaccio ci guarda dalla parete sinistra della cappella Brancacci. È alto, ha il volto massiccio di un ragazzo di 25 anni qual era, con i capelli arricciati; gli occhi sono scuri, profondi e sembrano velati di malinconia. Si è dipinto in fondo alla scena che rappresenta san Pietro in Cattedra, in compagnia dei suoi tre grandi amici, Masolino, Brunelleschi e Leon Battista Alberti. C’è però un particolare causato da un intervento di censura a cui venne costretto Filippino Lippi, chiamato a concludere la cappella Brancacci dai nuovi committenti: infatti, originariamente, Masaccio toccava con la sua mano il ginocchio di san Pietro, ripetendo il gesto dei pellegrini davanti alla statua di Arnolfo di Cambio sotto le volte della basilica vaticana. Probabilmente i censori avevano giudicato non decoroso quel gesto, piccola e moralistica preoccupazione che ci ha privati di un dettaglio rivelatore. Un dettaglio, in un certo senso, scritto nel nome: Masaccio infatti era nato il 21 dicembre 1401, all’epoca giorno di san Tommaso, a San Giovanni Valdarno. I suoi genitori, notaio il padre, ragazza sedicenne la madre, gli avevano dato quel nome in onore dell’apostolo che aveva messo il dito nel costato di Cristo risorto. Tommaso era poi diventato Masaccio, ci racconta Giorgio Vasari, non per i suoi cattivi modi, ma per la trascuratezza con cui conduceva la sua vita: vestito male, testa sempre impegnata nella pittura, perennemente a corto di soldi, perché in genere si dimenticava di passare all’incasso dopo aver finito i lavori.
San Pietro in cattedra, cappella Brancacci, Santa Maria del Carmine, Firenze. sotto, il particolare 
con l’autoritratto di Masaccio

San Pietro in cattedra, cappella Brancacci, Santa Maria del Carmine, Firenze. sotto, il particolare con l’autoritratto di Masaccio

Eppure questo ragazzo del contado valdarnese era piombato come un autentico terremoto nell’ambiente artistico colto e raffinato della città. Con lui la pittura aveva smesso di essere un fruscio aggraziato e svolazzante ma era diventata un precipitato di realtà. Per restare alla metafora censurata dell’autoritratto, la pittura che sino a quel momento aveva tutt’al più sfiorato le cose, ora invece le toccava d’impeto. Giorgio Vasari ha un’immagine stupenda per far capire cosa l’arrivo di Masaccio aveva comportato: sino a quel momento, le figure dipinte anche dai più bravi maestri non poggiavano i piedi sulla terra. Al massimo, scrive Vasari, «stavano in punta di piedi». Con Masaccio le figure sono «coi piedi in sul piano». Poi Vasari fa ricorso a una parola che ha una potenza onomatopeica, «lo scòrto». Masaccio «fece gli scòrti», cioè diede alle figure una profondità reale; non più sagome elegantemente ritagliate nello spazio, ma corpi che la forza di gravità tiene pesantemente legati alla terra e che hanno uno spessore, fisicamente percepibile.
Quattro secoli dopo il Vasari, è stato un altro critico, il più importante del Novecento, a proseguire sulla linea di quelle iniziali intuizioni critiche. Roberto Longhi, nel 1940, scrisse un saggio, appassionante come un romanzo, Fatti di Masolino e Masaccio. Vi immagina i dialoghi tra i due sui ponteggi della cappella Brancacci. Longhi “rivede” Masolino, di vent’anni più anziano, più famoso, e probabilmente anche primo titolare di quella commessa, farsi piccolo davanti all’avanzare di quel modo nuovo e strapotente di dipingere. «Collaboratore indipendente quando gli riusciva di strappare per sé un lavoro», scrive Longhi, «mentore assillante quando lavorava con l’anziano: così bisogna immaginare la presenza di Masaccio nella prima fase dei lavori del Carmine. Suggerimenti a non finire, dichiarazioni perentorie di principio e, chissà, persino rimbrotti e intimidazioni». Una pressione psicologica continua; una contestazione a quelle case dipinte da Masolino che, non rispondendo ai principi della prospettiva, sembravano fatte di cartapesta; una tale capacità, quasi una prepotenza, nell’impostare le figure, da far sembrare dei patetici figurini i personaggi dipinti dal più anziano maestro.
Il risultato, dal punto di vista della cronaca, fu che Masolino ad un certo punto lasciò il campo. È facile immaginarlo spossato da un confronto impossibile. Corse infatti ad eseguire una commessa provvidenzialmente giuntagli dall’Ungheria. Masaccio invece continuò come un rullo compressore, ad affrescare le scene rimaste. A questo punto Longhi coglie una categoria critica di rara efficacia per far capire la grandezza di Masaccio: mettendo figure vere e solide nello spazio, come conseguenza naturale, le dipinse con l’ombra che gettavano. Sono le prime ombre vere della storia della pittura, che non solo attestano la consistenza reale di quelle figure, ma le collocano con precisione anche nel tempo. Perché l’ombra testimonia anche l’ora del giorno in cui quel fatto sta accadendo. Del resto Masaccio aveva, nel programma iconografico della Brancacci, un appuntamento per lui particolarmente decisivo, quello con la scena di Pietro che guarisce gli infermi con la sua ombra. Poteva rischiare che un episodio così apparisse come una favola a chi l’avrebbe guardato? Che un gioco miracolistico rendesse la straordinarietà della cosa? No. Solo restituendo la potenza reale dell’ombra, solo evitando ogni enfasi avrebbe reso credibile e vero il racconto.
Se le figure sono vere, deve essere reale anche lo spazio nel quale si muovono. Per questo Masaccio ricorse alla rivoluzione della prospettiva. Che tra le sue mani perde tutta quella connotazione astratta e intellettualistica con cui ancor oggi viene studiata e interpretata. La prospettiva per Masaccio è un mezzo, non un fine. Un mezzo portentoso che spalanca spazi, che li rende profondi, e insieme li circoscrive. Insomma, fa dello spazio pittorico una continuazione di quello reale. Il primo assaggio lo aveva dato nel Trittico giovanile di San Giovenale, scoperto quarant’anni fa, e oggi conservato nella bellissima badia di San Pietro a Cascia, un piccolo borgo a pochi chilometri da Firenze. I quattro santi delle ante laterali, infatti, Masaccio li dipinse a fondo oro. Ma, grazie alla fuga prospettica del pavimento, quel fondo oro diventa un ambiente, uno spazio dentro il quale le figure sono accolte. Non è più il contorno che impreziosisce e trasferisce in un altro spazio, cioè in un altro mondo, i santi rappresentati.
Ma c’è di più. La prospettiva permette di ridurre all’osso le scene. Fa cadere come foglie secche e inutili gli arzigogoli, gli abbellimenti, le distrazioni decorative. Masaccio sfrutta appieno queste possibilità, perché la sua arte procede semplificando. Tutto deve essere chiaro, visibile, non ambiguo, svuotato di retorica. In una parola, deve esser facile. Facile da guardare e da assimilare nel cuore, come per lui era stato facile da dipingere. Anche Caravaggio, realizzando la Chiamata di Matteo nella cappella Contarelli a San Luigi de’ Francesi, avrebbe fatto tesoro di questa lezione. Il muro spoglio tagliato dalla luce, sullo sfondo, è uno dei brani più masacceschi della storia dell’arte: una cosa così non può non essere vera.
Come due secoli più tardi quella cappella di Caravaggio, così anche la Brancacci folgorò tutti i contemporanei. Vasari, nella sua vita di Masaccio, mette in fila una lunghissima serie di nomi di artisti arrivati a Firenze per guardare, cercare di capire. Sarebbe arrivato anche Michelangelo, che copiò, disegnandole, alcune figure; ci passò anche Leonardo, per natura così lontano da Masaccio, che però nel suo diario ci lascia un’annotazione di acutezza straordinaria. Scrive che la differenza tra quel pittore «scognominato Masaccio» e tutti gli altri, e non solo evidentemente quelli che l’avevano preceduto, era che tutti, al suo confronto, sembravano «affaticarsi invano».


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