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PAPI DEL '900
tratto dal n. 11 - 2001

Ha fatto bene il mestiere di papa


Guidò la Chiesa durante la prima guerra mondiale, che chiamò «inutile strage». Si accontentò di custodire il depositum fidei senza sfide teologiche. Accettò l’inermità della Santa Sede nelle vicende del mondo, prodigandosi per le vittime della guerra soprattutto i bambini. Intervista con Giuseppe Butturini, docente di Storia delle missioni presso l’Università di Padova


di Gianni Valente


Benedetto XV fu pontefice dal 1914 al 1922

Benedetto XV fu pontefice dal 1914 al 1922

In Vaticano lo chiamavano “il piccoletto”. Al tempo del conclave che lo elesse Papa, il suo collega cardinale Pietro Maffi, influente arcivescovo di Pisa, lo aveva definito «mediocris homo». Un giornalista americano scrisse di lui: «Con la sua figura non impressionante e il suo viso privo di espressione in lui non c’è né maestà spirituale né temporale». Secondo il capo della legazione britannica negli anni 1914-15: «Il Papa presente è decisamente una mediocrità. Ha la mentalità di un parroco italiano e un modo tortuoso di condurre le questioni».
Anche scorrendo le pagine della biografia da poco pubblicata in Italia, Benedetto XV, al secolo Giacomo della Chiesa, fu durante il suo regno la prova vivente che si può fare il pontefice anche senza avere il physique du rôle. E che un Papa può fare per la Chiesa cose grandi, avere intuizioni profetiche, semplicemente facendo il suo mestiere. Anche se le potenze del mondo non lo applaudono e anzi lo umiliano lasciando cadere nel vuoto le sue parole.
30Giorni ha chiesto al professor Giuseppe Butturini, docente di Storia delle missioni presso l’Università di Padova, di delineare i tratti salienti del pontificato di Benedetto XV. Ripercorsi anche da una recente biografia (John Pollard, Il Papa sconosciuto. Benedetto XV e la ricerca della pace) pubblicata in Italia in Italia dalle edizioni San Paolo, con la prefazione del cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Genoba. Butturini, 65 anni e nove figli, è conosciuto e apprezzato in particolare per i suoi studi sulla storia delle missioni cattoliche.

Secondo la storiografia ecclesiastica, la lettera apostolica di Benedetto XV Maximum illud del novembre 1919 segna una svolta nella storia missionaria.

GIUSEPPE BUTTURINI: La Maximum illud non dice cose nuove, rispetto alla tradizione missionaria della Chiesa. Leggo cosa suggeriva, già nel 1659, un’illuminante istruzione romana della Sacra Congregazione di Propaganda Fide diretta ai missionari diretti in Cina e Indocina: «Non compite nessuno sforzo, non usate alcun mezzo di persuasione per indurre quei popoli a mutare i loro riti, le loro consuetudini e i loro costumi, a meno che non siano apertamente contrari alla religione e ai buoni costumi. Che cosa c’è infatti di più assurdo che trapiantare in Cina la Francia, la Spagna, l’Italia o qualche altro Paese dell’Europa? Non è questo che voi dovete introdurre, ma la fede, che non respinge i riti e le consuetudini di alcun popolo, purché non siano cattivi, ma vuole piuttosto salvaguardarli e consolidarli». Cose analoghe le aveva ripetute nel 1846 l’istruzione Neminem profecto di Gregorio XVI, indicando che lo scopo dell’azione missionaria era la promozione di una Chiesa locale, guidata dal suo episcopato indigeno. L’opera missionaria, intesa come invio di persone da terre lontane, doveva essere solo la fase iniziale e provvisoria, come del resto era avvenuto in età apostolica. Poi, la competenza dell’attività missionaria sarebbe passata alle comunità locali, alle quali andava garantita, per quanto possibile, una autonomia sul piano ecclesiastico, economico e culturale.
Purtroppo, nella seconda metà dell’Ottocento, al Patronato ispanico-portoghese era succeduto quello francese. Per tutte queste forme le missioni erano più un’espressione del dominio politico coloniale che una realtà religiosa. Nello stesso periodo, si era imposto lo ius commissionis. Uno strumento comprensibile per liberare le missioni dai vincoli politici, ma rischioso perché metteva le missioni nelle mani degli ordini religiosi che praticamente finivano per installarsi, fino a considerare i territori loro affidati da Roma come un proprio possesso. Invece di aiutare la crescita di una struttura ecclesiastica affidata ai locali, monopolizzavano le cariche gerarchiche dei territori di missione. Il grande missionario padre Paolo Manna, beatificato lo scorso 4 novembre, attingendo il termine dal mondo anglicano, definiva questo fenomeno congregazionalismo, arrivando a scrivere che «dove sono più forti le missioni, più debole è la Chiesa», e quasi augurandosi una sorta di moratorium, un limite stabilito agli aiuti dall’estero, sia di personale che in denaro.
Ma allora dove è la “novità” missionaria di Benedetto XV?
BUTTURINI: Con Benedetto continua il respiro cattolico della missione. Ma soprattutto le sue non sono dichiarazioni d’intenti, ma gesti effettivi per una svolta missionaria. Sul piano politico, con la nomina di un delegato apostolico a Pechino, nonostante la contrarietà della Francia (in margine alla pace di Versailles si era stabilita una sorta di intesa cordiale tra Cina e Vaticano); sul piano ecclesiastico, con la celebrazione di sinodi. Esemplare quello che sarà celebrato a Shanghai nel ’24, due anni dopo la morte di papa Benedetto, il cui scopo era proprio l’applicazione della Maximum illud. Sul piano culturale, riaffermando la cattolicità della Chiesa. Non si trattava solo di imparare la lingua delle terre di missione per comunicare un messaggio. Occorreva conoscere la lingua e i costumi affinché attraverso di essi potesse riesprimersi il Vangelo. Questa fu la linea seguita dal delegato apostolico in Cina Celso Costantini, con la sua ripresa delle forme artistiche cinesi. Riassumendo, si passava da una strategia rivolta a creare una gerarchia ordinaria stabile composta da missionari, all’intento di favorire la crescita di una gerarchia e di una Chiesa locale.
Cosa spinse Benedetto XV ad affrontare con tanta risolutezza la questione missionaria?
BUTTURINI: La situazione era in evoluzione già dal Vaticano I, da quando si erano intensificati i contatti tra Santa Sede e nazioni d’Oriente, in particolare la Cina. Tutto cominciò a precipitare con la rivolta dei Boxer, agli inizi del Novecento, e con la caduta dell’Impero, nel 1911. Sono gli anni in cui in Occidente si parla del “pericolo giallo”. I missionari si rendevano conto di essere ai margini della società. Nei fatti, i cristiani venivano spesso “comprati” con un pugno di riso. L’analisi più lucida della condizione missionaria in Cina proveniva dai missionari lazzaristi Antonio Cotta e Vincent Lebbe. I loro memoriali inviati a Roma rispecchiavano la metodologia missionaria romana contestualizzandola nella nuova situazione cinese, dove il nazionalismo dei missionari e il comportamento delle congregazioni religiose bloccavano la formazione di una Chiesa indigena. Tra il 1915 e il 1920, la situazione nelle missioni cinesi appariva insostenibile agli osservatori più lucidi come il belga Lebbe, che aveva raggiunto una notorietà nazionale fondando il primo quotidiano cattolico cinese. La crisi missionaria iniziata dentro le congregazioni si era trasmessa a tutte le missioni, e di questo erano giunti riflessi in Vaticano. Ci fu l’invio di un visitatore apostolico, ma soprattutto ci fu un cardinale di larghe vedute, il prefetto di Propaganda Fide Willem Van Rossum, che rielaborò la metodologia tradizionale attraverso l’analisi presentata da Lebbe e Cotta. Ormai bisognava porre le fondamenta di una Chiesa cinese. I cinesi, per essere evangelizzati, non avevano bisogno di un superbattesimo, come sosteneva in un suo libro ancora nel 1911 padre Kervyn. Bastava applicare anche lì la metodologia descritta negli Atti degli Apostoli.
La Cina gioca un ruolo centrale in tutto questo.
BUTTURINI: Si può dire che la Maximum illud nacque nelle missioni della Cina. Nel periodo tra le due guerre la Cina diventerà una sorta di laboratorio missionario. Nel 1926 vengono consacrati i primi sei vescovi indigeni, e sono cinesi. Nel 1927 la Santa Sede, sorprendendo tutte le nazioni europee, riconosce la legittimità del nuovo governo cinese, non chiedendo per la Chiesa alcun privilegio ma solo di poter rientrare nel diritto comune. Poi, nel 1929, partecipando ai funerali del presidente cinese Sun Yat Sen, fondatore della Repubblica cinese, avvia la soluzione della sciagurata questione dei “riti cinesi”, che verrà chiusa tra il ’34 e il ’39. In quegli anni, tutta la Chiesa guardava alle missioni con l’occhio cinese. E in questo, giocarono un ruolo decisivo Celso Costantini e Paolo Marella, delegato apostolico in Giappone.
Quali reazioni ci furono al documento?
BUTTURINI: Per rimanere alla Cina, molti missionari, soprattutto francesi, reagirono male. Non avevano colto l’accelerazione dei cambiamenti. Costantini confidava a qualcuno che non sapeva più cosa fare, «se stare con la Maximum illud contro i missionari o con i missionari contro la Maximum illud». Nel grande eroismo dei missionari, venivano alla luce anche i limiti e gli errori della metodologia missionaria. Proprio la serietà con cui Benedetto aveva affrontato il problema missionario avrebbe aperto nuove prospettive, che verranno seguite dai suoi successori.
Una immagine della I guerra mondiale

Una immagine della I guerra mondiale

Passiamo ad altro. Rispetto alla situazione interna alla Chiesa, dopo la crisi modernista, che atteggiamento prese Benedetto XV?
BUTTURINI: Cercò di rendere la situazione sostenibile. Di certo, non condivideva il modo in cui la crisi modernista era stata affrontata sotto il pontificato precedente. Smantellò con decisione il sodalitium pianum, quella rete di controllo che si era creata nella Chiesa (anche se le sue dimensioni sono state precisate e ridimensionate dagli studi di Émile Poulat) per segnalare e colpire tutti i sospettati di connivenze moderniste. Anche Giacomo della Chiesa, quando era vescovo di Bologna, aveva visto da vicino alcuni eccessi della campagna antimodernista. Era stato cacciato Ettore Lodi, il rettore del Seminario diocesano. Ed era stato messo all’indice il manuale di don Alfonso Manaresi, professore di storia della Chiesa.
Si dice che anche lui personalmente fosse entrato nel mirino degli antimodernisti.
BUTTURINI: Della Chiesa riconosceva la sua scarsa propensione per le questione teologiche. Da papa, si accontentò di custodire il Depositum fidei come lo aveva ereditato. Nelle pagine della sua enciclica programmatica Ad Beatissimi, oltre a ripetere la condanna del modernismo, afferma di voler conservare intatta l’antica formula di Vincenzo di Lérins: «Nulla si rinnovi, se non ciò che è stato tramandato». Dove per lo meno l’accento batte sull’equilibrio. Già da vescovo di Bologna, nella sua prima lettera pastorale, aveva affermato che non era sua intenzione condannare ogni discussione e ogni nuova dottrina, ma che tutte le nuove teorie dovevano essere sottoposte alla verifica del sensus Ecclesiae. In questo senso, mostrava una certa apertura anche ad alcune istanze sostenute da studiosi sospettati di modernismo, ma che poi saranno riconosciute legittime, come l’applicazione degli strumenti della critica storica e filologica al campo dell’esegesi biblica. Per lui la lezione di Leone XIII rimaneva fondamentale. Occorreva “storicizzare” il cristianesimo, senza corromperlo dall’interno.
Il pontificato di Benedetto fu tutto condizionato dal primo conflitto mondiale.

BUTTURINI: Gli aspetti sono molteplici. Anche il conclave che lo elesse fu un “conclave di guerra”. Coi cardinali europei divisi dal fronte, così come accadeva a tutta l’Europa “cattolica”. Davanti al conflitto, la sua intenzione fu di mantenere la Chiesa “perfettamente” neutrale. C’è riuscito? Sul piano pratico, fu condizionato da molti fatti concreti. Non poteva non vedere con una certa apprensione che l’Austria, unica potenza cattolica, andasse verso la rovina. Questo spiega le sue pressioni affinché l’Austria venisse incontro alle richieste italiane, e per impedire l’entrata in guerra dell’Italia. Del resto, quando diventò papa, la cultura cattolica e l’ambiente della Santa Sede erano sotto l’influenza del mondo germanico, dopo che nel 1905 i rapporti tra Francia e Santa Sede erano entrati in crisi. A quel tempo, si diceva: “Germania docet”. Nonostante Benedetto, che era stato il figlioccio del cardinal Rampolla, avesse ereditato da questo la preferenza per la Francia, sentiva su di sé la pressione dell’opinio communis dell’ambiente vaticano, dove operava una forte lobby filotedesca.
Ci fu anche il caso Gerlach.

BUTTURINI: Rudolph Gerlach, cappellano segreto papale, all’inizio del 1917 fu accusato dalla polizia italiana di essere coinvolto nell’affondamento della nave da guerra Leonardo da Vinci nel porto di Taranto. L’accusa lo descriveva (per la verità senza molte prove) come la figura centrale di una rete spionistica diffusa in Italia e come l’anello di contatto tra i servizi segreti tedeschi e quelli austriaci. Il Papa lo difese, e questo fu visto come una smentita della tanto affermata neutralità. L’opinione pubblica, soprattutto francese, gli si rivoltò contro.
Anche i suoi appelli alla pace caddero nel vuoto.
BUTTURINI: Per l’intellighenzia cattolica di Francia e Italia, partecipare alla guerra era una prova da dare per riscattarsi agli occhi delle leadership politiche del proprio Paese. L’élite cattolico-liberale era per la guerra. Su questo punto il Papa era più vicino alla sensibilità del cattolicesimo popolare, intransigente. I cattolici popolari erano per la pace. Avevano a che fare coi contadini, con gli operai, cioè con chi, concretamente, avrebbe pagato di più, finendo come carne da cannone. I suoi appelli inascoltati a por fine all’«inutile strage», come la definisce nella Nota di pace dell’agosto 1917, non nascevano da un ingenuo irenismo. Li nutriva la percezione realistica che la follia della guerra l’avrebbero pagata tutti, soprattutto le masse dei più deboli. E che il conflitto non si risolveva parteggiando per l’una parte o per l’altra, ma cercando di capire le cause che l’avevano prodotto. Come è detto in uno dei passaggi più intensi della Nota di pace: «Le nazioni non muoiono: umiliate ed oppresse, portano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa e trasmettendo di generazione in generazione un triste retaggio di odio e di vendetta». Con Benedetto, in un certo senso, si esprime una nuova presenza della Chiesa nel mondo: dal “temporalismo territoriale” di Pio IX e da quello “sociale” di Leone XIII, si passa a quello umanitario, che opera a difesa della pace, e poi, sempre di più, dei diritti umani.
Un altro aspetto chiave del suo pontificato è proprio l’azione della Santa Sede nel sistema delle relazioni internazionali.

BUTTURINI: Si pensi a cosa succede in quegli anni: milioni di morti; quattro imperi finiti in rovina; la rivoluzione russa, il potere emergente degli Stati Uniti d’America. Davanti a tutto questo sommovimento, Benedetto non ha la tentazione di sentire la Santa Sede come un soggetto geopolitico trainante. Anche l’umiliante esclusione dal congresso di pace di Versailles, dovuta all’ostracismo del ministro degli Esteri italiano Sidney Sonnino, fu un antidoto a ogni sopravvalutazione del peso del Vaticano. Ma non per questo Benedetto ridimensionò l’importanza da lui attribuita all’attività diplomatica della Santa Sede. All’inizio del suo pontificato le nazioni rappresentate in Vaticano erano solo dieci. Alla fine, saranno ventisette.
In conclusione, di questo Papa vorrei soprattutto ricordare l’incredibile impegno sostenuto nel soccorso umanitario alle vittime della guerra, soprattutto ai bambini. Per questo, Benedetto non esitò a spendere una quantità di denaro enorme per l’epoca, portando il Vaticano sull’orlo della bancarotta.


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