L’Africa di Kiarostami
Quello del pluripremiato regista iraniano è sempre stato un cinema realista, che non lascia nessuno spazio alla retorica. Non sorprende, quindi, che un anno fa abbia accettato di realizzare, per conto dell’Ifad, un documentario sui bambini ugandesi orfani di genitori morti per aids. Quello che sorprende è lo straordinario risultato...
di Antonio Termenini
Abbas Kiarostami
È proprio per questa sua attenzione nei confronti dei settori più indigenti della popolazione mondiale e nei confronti dei bambini che Abbas Kiarostami ha accettato l’invito del presidente dell’Ifad Takao Shibata a girare un documentario sul progetto “Uganda women’s efforts to save orphans”. Nella sua lettera indirizzata a Kiarostami il 23 marzo 2000, Shibata sottolineava l’eredità lasciata dalla lunga e terribile guerra civile che aveva insanguinato l’Uganda: circa un milione e seicentomila bambini sono rimasti orfani e contagiati dal virus dell’Hiv (circa diecimila di loro hanno beneficiato del programma “Uganda women’s efforts to save orphans”). Kiarostami è arrivato in Uganda, a Kampala, all’inizio dell’estate del 2000 con il suo operatore di macchina Seifollah Samadian. Girando per solo dieci giorni di riprese, il regista iraniano è riuscito a catturare e ad imprimere su pellicola i volti di centinaia di bambini, tutti orfani, i cui genitori sono morti di aids. Ha registrato con pudore, senza falsa retorica, senza l’aggiunta di inutili commenti fuori campo, le lacrime, i sorrisi, la musica e il silenzio di questi bambini. Nelle dichiarazioni rilasciate in conferenza stampa all’ultimo festival di Cannes, dove ABC Africa è stato presentato come evento speciale fuori concorso, Kiarostami ha confessato di essere rimasto scioccato dalle bellezze naturali di un continente che non conosceva, ma altrettanto stupefatto dalla terribile povertà e dalle spaventose ineguaglianze che vi si trovano. Girare in questo formato (il digitale), gli ha permesso di cogliere i volti e gli sguardi dei bambini con ancora più naturalezza ed immediatezza. La presenza di una troupe normale comporta infatti, una maggiore elaborazione delle riprese ed una certa tensione che Kiarostami voleva assolutamente eliminare in questa sua nuova esperienza artistica. Il documentario si presenta figurativamente straordinario, tutto giocato sui violenti contrasti cromatici che emergono dal paesaggio africano permettendoci così di scoprire un altro lato della molteplice attività di uno dei maggiori cineasti contemporanei.