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CINEMA
tratto dal n. 11 - 2001

L’Africa di Kiarostami


Quello del pluripremiato regista iraniano è sempre stato un cinema realista, che non lascia nessuno spazio alla retorica. Non sorprende, quindi, che un anno fa abbia accettato di realizzare, per conto dell’Ifad, un documentario sui bambini ugandesi orfani di genitori morti per aids. Quello che sorprende è lo straordinario risultato...


di Antonio Termenini


Abbas  Kiarostami

Abbas Kiarostami

Il cinema iraniano, rivelatosi nei principali festival internazionali negli ultimi dieci anni, si è sempre contraddistinto per una particolare attenzione nei confronti dello sguardo dei bambini, degli adolescenti sul mondo. Un’ottica privilegiata, pura, senza mediazioni intellettuali, piena di stupore di fronte alle meraviglie del mondo ma non reticente di fronte alle sue contraddizioni. Un’ottica capace di cogliere la complessità dell’esistente. Il più rappresentativo dei cineasti iraniani, Abbas Kiarostami, ha fatto di questo sguardo diretto uno dei cardini della propria poetica, nonostante che, prima dell’ascesa al governo del moderato Kathami, il regime fondamentalista osteggiasse il cinema in generale e le opere di Kiarostami in particolare. Il regista è riuscito, però, nel tempo ad affermarsi come cineasta internazionale, riconosciuto per la sua maestria e più volte premiato al festival di Cannes (Palma d’oro nel 1997 con Il sapore della ciliegia) e a quello di Venezia dove si è aggiudicato il gran premio della giuria per Il vento ci porterà via. Per restituire la complessità della società iraniana, Kiarostami è ricorso spesso alla metafora (anche per non incappare nell’inflessibile censura del suo Paese) ma restando fedele ai principi del cinema che ha amato di più: ha posto al centro delle sue opere attori presi dalla strada, ripresi con un realismo assoluto che non lascia nessuno spazio alla retorica o a qualsiasi tipo di moralismo. Il cinema di Kiarostami si limita a documentare, a mostrare l’esistente così come gli si presenta dietro la macchina da presa. Non è quindi sorprendente che Kiarostami abbia deciso di girare un documentario, ABC Africaû commissionatogli dall’Ifad, l’International Fund for Agricultural Development, una agenzia delle Nazioni Unite di cui fanno parte 161 Stati e che è stata fondata nel 1977. L’azione dell’Ifad è uno dei principali risultati della World Food Conference del 1974, organizzata in risposta alla crisi alimentare che colpì principalmente i Paesi africani del Sahel agli inizi degli anni Settanta. I programmi dell’Ifad sono principalmente indirizzati ai piccoli produttori, agli agricoltori senza terra, ai pastori nomadi e alle donne povere delle regioni rurali. Dalla sua creazione, l’Ifad ha finanziato circa cinquecento progetti in centoundici Paesi, investendo più di sei miliardi di dollari. Questi progetti di assistenza hanno aiutato più di duecento milioni di persone in stato di povertà nelle aree rurali. Ancora poco se si pensa che, nel mondo, tre miliardi di persone sopravvivono con a disposizione meno di due dollari al giorno e un altro miliardo e trecento milioni con meno di un dollaro al giorno; inoltre un miliardo e mezzo della popolazione mondiale non dispone di acqua potabile, mentre 130 milioni di bambini non ricevono alcun tipo di educazione scolastica.
È proprio per questa sua attenzione nei confronti dei settori più indigenti della popolazione mondiale e nei confronti dei bambini che Abbas Kiarostami ha accettato l’invito del presidente dell’Ifad Takao Shibata a girare un documentario sul progetto “Uganda women’s efforts to save orphans”. Nella sua lettera indirizzata a Kiarostami il 23 marzo 2000, Shibata sottolineava l’eredità lasciata dalla lunga e terribile guerra civile che aveva insanguinato l’Uganda: circa un milione e seicentomila bambini sono rimasti orfani e contagiati dal virus dell’Hiv (circa diecimila di loro hanno beneficiato del programma “Uganda women’s efforts to save orphans”). Kiarostami è arrivato in Uganda, a Kampala, all’inizio dell’estate del 2000 con il suo operatore di macchina Seifollah Samadian. Girando per solo dieci giorni di riprese, il regista iraniano è riuscito a catturare e ad imprimere su pellicola i volti di centinaia di bambini, tutti orfani, i cui genitori sono morti di aids. Ha registrato con pudore, senza falsa retorica, senza l’aggiunta di inutili commenti fuori campo, le lacrime, i sorrisi, la musica e il silenzio di questi bambini. Nelle dichiarazioni rilasciate in conferenza stampa all’ultimo festival di Cannes, dove ABC Africa è stato presentato come evento speciale fuori concorso, Kiarostami ha confessato di essere rimasto scioccato dalle bellezze naturali di un continente che non conosceva, ma altrettanto stupefatto dalla terribile povertà e dalle spaventose ineguaglianze che vi si trovano. Girare in questo formato (il digitale), gli ha permesso di cogliere i volti e gli sguardi dei bambini con ancora più naturalezza ed immediatezza. La presenza di una troupe normale comporta infatti, una maggiore elaborazione delle riprese ed una certa tensione che Kiarostami voleva assolutamente eliminare in questa sua nuova esperienza artistica. Il documentario si presenta figurativamente straordinario, tutto giocato sui violenti contrasti cromatici che emergono dal paesaggio africano permettendoci così di scoprire un altro lato della molteplice attività di uno dei maggiori cineasti contemporanei.


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