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CATTOLICI E POLITICA
tratto dal n. 10 - 2001

Il ruolo dei Comitati civici nelle elezioni del 1948

Gedda, i Comitati, e una vittoria di tutti


Tornando al ruolo dei Comitati civici nelle elezioni del 1948: il loro scopo non era quello di sostituirsi alla Dc, ma di richiamare i cattolici alla coerenza nel voto. Per non rischiare di finire come la Cecoslovacchia


di Giuseppe Vedovato


Luigi Gedda

Luigi Gedda

Quando, il 7 settembre 1947, nel 25° anniversario dell’Azione cattolica, davanti a un mare di “baschi blu”, i militanti dell’organizzazione, il Papa disse: «Il tempo della riflessione e dei progetti è passato: è l’ora dell’azione. Siete pronti? I fronti contrari nel campo religioso e morale si vengono sempre più delineando: è l’ora della prova», mancavano sette mesi al voto decisivo per il primo Parlamento repubblicano.
In quelle parole confluiva il senso di una mobilitazione che già da tempo era avvertita come necessaria dal mondo cattolico, ma soprattutto dal mondo occidentale. Già il generale Franco, nel 1945, aveva fatto pressione sugli americani perché si proteggesse il Vaticano nel caso che i comunisti avessero prevalso, e già il National Security Council, alla fine del 1947, aveva paventato i pericoli di quella prospettiva. Era la guerra fredda, un irrigidirsi delle posizioni che intanto muoveva il Cominform allŒ chiamata dei comunisti occidentali per la difesa dell’Urss, “baluardo del socialismo” mondiale, e per un grande “fronte antimperialista”.
Il richiamo di Pio XII all’Azione cattolica dava voce autorevole a una preoccupazione diffusa anche tra i laici e i liberali, come Croce e Einaudi, che si sviluppò nei mesi successivi e che si dimostrò fondata specialmente con il febbraio del 1948, quando il colpo di Stato cecoslovacco dimostrò con quali modi il comunismo internazionale intendesse agire verso la democrazia. Plaudendo all’intervento sovietico in Cecoslovacchia, il Fronte popolare socialcomunista accettava acriticamente l’iniziativa dell’Urss nell’Europa orientale e, intanto, dipingeva le elezioni come il momento in cui si sarebbe deciso tra la democrazia e il ritorno al fascismo e alla guerra, accomunando le responsabilità dell’“imperialismo americano” e dell’“oscurantismo vaticano”.
Si sviluppò così un’azione di cui fu interprete, nel mondo cattolico, il professor Luigi Gedda, presidente dell’Azione cattolica, medico impegnato nella militanza politico-religiosa. Per dirla con Andreotti, ebbe dal Papa «una investitura commissariale pro aris et focis», con cui guidò la grande mobilitazione dei Comitati civici, agitando il motto: «O con Cristo, o contro Cristo!». Fece questo alla luce di due capisaldi, la spiritualità e la fedeltà ai valori più sacri, che riteneva essenziali per la società e connaturati alla tradizione culturale italiana. Guidando la battaglia con grande dinamicità, aveva compreso che, al di là del confronto tra Oriente comunista e Occidente democratico, spettava agli italiani definire il livello della propria democrazia, e che in Italia vi erano due pericoli concomitanti: il predominio del comunismo e l’affermarsi dell’anticlericalismo acritico.
I Comitati civici erano per Gedda «un’articolazione tra la coscienza cristiana di un vasto elettorato e la forza politica che si propose di rappresentarlo». Anche se vi erano già i democristiani, i Comitati avevano un compito proprio attivo, prima di tutto nel combattere l’assenteismo elettorale e richiamare i cattolici alla coerenza del voto, poi nel lavorare a fondo nel tessuto sociale. Essi intendevano conseguire il risanamento morale dell’ambiente sociale, e ciò andava oltre l’incarico della Dc di De Gasperi, cui spettava un compito politico e amministrativo da svolgere insieme ad un arco di forze di natura anche ideologica diversa.
Vi fu chi mise in dubbio la legittimità dell’azione dei Comitati civici, come se fosse un’ingerenza delle gerarchie vaticane nella vita dello Stato repubblicano, e chi scrive avrebbe dimostrato, da deputato, nei primi mesi del 1958, allorché venne discussa una mozione comunista in questo senso (presentata da Togliatti, Gullo, Pajetta) l’infondatezza giuridica e politica dell’accusa. I Comitati civici erano costituiti da cittadini italiani legittimati ad agire liberamente come tutti gli altri, che avevano scelto di lottare per l’“anticomunismo di massa” alle elezioni, ma non si fermavano a questo, perché svolgevano una continua presenza tra le classi più permeabili alla propaganda dei comunisti.
Se l’Italia era sfuggita al rischio di un destino simile a quello cecoslovacco, era anche merito loro e della Chiesa scesa in campo. Lo riconobbe il laico Saragat e lo riconobbe il protestante Winston Churchill, quando, tre giorni dopo il voto del 18 aprile 1948, affermò in un comizio: «L’Italia ha ritrovato il suo posto tra le principali potenze d’Europa: le elezioni hanno dimostrato che essa non vuole vivere nella gabbia insieme all’orso».
Luigi Gedda era convinto di questo, e lo fu ancora a distanza di decenni. Come dimostrò in un mirabile confronto televisivo del 1988 con Giulio Andreotti e Nilde Jotti, e in un articolo pubblicato sulla rivista per la vita spirituale e culturale dei laici, Tabor, che dirigeva con il solito fervore (Significato spirituale del 18 aprile, marzo-aprile 1988), in cui rifaceva la storia di quell’impegno. Lo descriveva come un fatto di grande continuità con l’opera dell’Azione cattolica degli anni Venti, Trenta e Quaranta. Era quello l’albero fecondo che aveva consentito alla Dc di divenire il maggior partito italiano da subito, e che, ancora, aveva sorretto tutto il processo di rinnovamento della Chiesa, ininterrotto fino al tempo di papa Wojtyla, nel segno della libertà testimoniata anche per gli altri Paesi europei.
Diceva così perché sapeva bene di aver contribuito a costruire sul solido terreno della società civile, in cui i legami della cittadinanza crescevano insieme al senso di responsabilità, coerenti con i valori religiosi. Più di tutto, infatti, contava il seme che si poneva nella terra, che avrebbe potuto altrimenti dare erba cattiva. E quel seme, per Gedda, era la persona umana, cui la libertà garantiva l’espressione della individualità e cui i valori religiosi davano il senso della collettività superiore.
Pio XII appunta una medaglia sulla bandiera dell’Azione cattolica

Pio XII appunta una medaglia sulla bandiera dell’Azione cattolica

€cco perché Gedda, con grande propensione spirituale e apostolica, aveva lavorato con tanta caparbietà alla formazione dell’uomo-cittadino, dedicando ogni giorno della sua lunga vita, ogni momento anzi, al lavoro capillare dei militanti di Azione cattolica, nella famiglia, nel lavoro, nella “polis”, in una permanente mobilitazione, che pure appariva discreta. Aveva creato, oltre ai Comitati civici, un volontariato “dell’anima” ricco di articolazioni, unioni, segretariati, movimenti, associazioni operaie, circoli, centri culturali e per il tempo libero, giornali scritti e parlati. Con la “Società Operaia” aveva inteso penetrare nelle officine, nelle aziende agricole, nelle scuole, nei luoghi di cura, perfino nelle case popolari, riuscendo a moltiplicare un apostolato capillare ed efficace. Con i circoli “Mario Fani” lavorava tra i giovani, con Bisogna agire, l’agenzia bimestrale di informazione raggiungeva la stampa. Nel Getsemani di Casale Corte Cerro, aveva realizzato la “scuola” del Comitato civico nazionale, aperta ai convegni e agli incontri nazionali e internazionali, severa fucina dei quadri migliori, operai, studenti o intellettuali che fossero, che ne ricevevano, attraverso un duro lavoro, lo “stile”, uno “stile civico”.
A loro, raccolti nella Unac (Unione nazionale attivisti civici), Pio XII aveva consegnato, nel 1953, un progetto che doveva servire a combattere la montante scristianizzazione. Dovevano essere cittadini esemplari e soprattutto impegnati ad incalzare i politici per una società migliore sotto l’aspetto economico, giuridico, sociale e politico. Dovevano difendere la famiglia, la fede e la morale, ma anche battersi per un mondo più equilibrato economicamente e più giusto.
Anche in questo, Gedda era protagonista convinto. «Cercate prima il Regno di Dio ed il resto vi sarà dato in soprappiù», ripeteva spesso, egli che aveva fatto dell’impegno e della fedeltà a due pontefici, Pio XI e Pio XII, il primo principio della sua vita di scienziato, senza voler mai inseguire le lusinghe della politica. Amava soprattutto lottare per i valori che davano dignità piena ad ogni persona, e non aveva tempo per vani esercizi intellettuali o capziosità ideologiche. Con concretezza osservava i problemi e si lanciava in battaglia, e così fu anche nelle vicende del divorzio e dell’aborto, in cui rimase sempre attivo fino alla morte.
E ciò anche se sapeva bene che cosa era cambiato nella società civile cui si era tanto dedicato. Uno dei suoi termini più cari, “servizio”, aveva assunto un significato sempre più superficiale e demagogico, così come anche l’altro termine “solidarietà” aveva smarrito il connotato forte di una condivisione di valori largamente sentita e condivisa con sacrificio, fino a divenire patrimonio dell’intera società civile e della nazione.
Occorreva dunque lavorare di più e, in un certo senso, ricostruire, e pensò per questo al “grande ritorno”. Era ancora l’uomo disposto a lavorare nella società civile e non nella politica, che vedeva anzi con sospetto come possibile inquinamento della Chiesa. Era sempre prioritario formare insieme il cristiano e il cittadino, e non perdeva occasione, nei pubblici incontri o negli scritti, di richiamare il valore dell’apostolato dei laici, degli uomini del popolo cioè, come teneva a ricordare sottolineando l’etimologia della parola laico, e non degli uomini non legati alla Chiesa.
In questo senso aveva sempre operato da “apostolo laico”, nella convinzione che il cattolicesimo fosse necessario architrave della coscienza nazionale italiana, ed era ancora persuaso, negli anni Novanta, davanti alle nuove atrocità delle guerre, che lo fosse anche di un processo necessario di modernizzazione che occorreva sottrarre alle minacciose forze del Male più che mai in agguato.




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