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ITALIA
tratto dal n. 11 - 2004

Analisi

Il Mezzogiorno è cresciuto ma i divari rimangono


L’intervento del vicepresidente della Svimez al convegno “L’iniziativa democratica e riformatrice dei governi De Gasperi per il Mezzogiorno”, che si è svolto a Bari il 18 e il 19 ottobre 2004. Il Mezzogiorno e la sfida europea, il suo ruolo nel quadro mediterraneo e balcanico


di Nino Novacco


Lavori sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria

Lavori sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria

Il Mezzogiorno di oggi non è certamente quello che De Gasperi vide e soffrì nel 1950 durante il suo viaggio in Basilicata, e che lo convinse della necessità di un intervento “speciale”, e della nascita di un efficace apposito strumento – organico, intersettoriale, addizionale, straordinario – quale è stato inizialmente la Cassa per il Mezzogiorno.
Attenuatesi ormai di molto le polemiche spesso strumentali e politicizzate del passato, oggi si conviene da (quasi) tutti che la crescita del nostro Sud è stata – almeno per oltre un ventennio, tra i primi anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta – cospicua e qualificata, e che i mutamenti che ne sono derivati nella struttura stessa dell’economia e della società hanno avuto caratteristiche e proporzioni oggettivamente rilevanti.
Ma se – sotto assai numerosi profili – il Mezzogiorno di oggi non è più quello di allora, è un fatto che esso non è neppure il Sud che noi – cattolici, volontaristi, meridionalisti – volevamo, che credevamo allora possibile, e che abbiamo immaginato nel 1953-54, predisponendo lo “Schema Vanoni”.
Proprio perché il Mezzogiorno era in quegli anni, come oggi, parte dell’Italia, abbiamo il dovere di dire che i “divari” presenti allora in Italia – divari di ambiente, di dotazioni, di reddito, di opportunità, di industrializzazione, di benessere, tra Meridione e Centro-Nord –, cioè le differenze profonde che appunto giustificarono l’approccio straordinario attraverso politiche speciali per il Sud e le innovazioni amministrative della legislazione del 1950 (che sono merito storico della democrazia postbellica, e in essa assai largamente dei cattolici e quindi, in modo non marginale, di Alcide De Gasperi), ebbene, quei divari non sono scomparsi.
Non si tratta certo di recriminare, ma il Mezzogiorno – malgrado i progressi incontestabili – non può certo considerarsi pienamente soddisfatto di quel che è avvenuto in oltre mezzo secolo: il “dualismo” con il Nord esisteva negli anni Quaranta e Cinquanta, e – seppur certo in un quadro locale, nazionale ed internazionale assai più avanzato – esiste ancor oggi.
Ma dei “limiti” della politica speciale che dai primi anni Cinquanta arriva al 1973-74 – i soli anni dell’intervento straordinario di cui apprezzo la positività, rispetto agli esiti del successivo ventennio fino al 1993, di cui come meridionalista non sono particolarmente soddisfatto – sarebbe bene che a parlarne fossero i politici, cattolici e delle altre forze che hanno guidato i governi, e quelli che hanno voluto quella politica; perché le critiche “esterne” – se non nutrite di costruttive idee alternative, che sin dall’inizio non ci sono state neanche da parte delle opposizioni – servono a poco.
La seduta inaugurale del convegno  di Bari il18 ottobre 2004. Nella foto, da sinistra, Raffaele Fitto, presidente della Regione Puglia, Giulio Andreotti, 
Michele Emiliano, sindaco di Bari, e Giovanni Girone, magnifico rettore dell’Università degli Studi di Bari

La seduta inaugurale del convegno di Bari il18 ottobre 2004. Nella foto, da sinistra, Raffaele Fitto, presidente della Regione Puglia, Giulio Andreotti, Michele Emiliano, sindaco di Bari, e Giovanni Girone, magnifico rettore dell’Università degli Studi di Bari


Il Mezzogiorno nell’Europa: da 6 a 27 Mezzo secolo, comunque, non è passato invano, e il Sud si trova oggi in una situazione assai diversa e migliore, anche se in questi ultimi anni – pur dopo la sicura ma insufficiente ripresa dalla caduta della spesa pubblica connessa alla finale abrogazione nel 1993 della politica divenuta sul finire sempre meno speciale – appare ed è più difficile.
Ciò avviene perché il Mezzogiorno di oggi non è più soltanto parte dell’Italia, ma è anche parte di quell’Europa in cui come italiani e come “meridionalisti nazionali” abbiamo creduto e che abbiamo concorso a far nascere, ed è insieme parte di un mondo globalizzato che è cambiato ovunque, anche nel Mediterraneo, nel Sud Europa, nei Balcani.
Bisogna essere onesti e dire che non siamo stati capaci di far sì che l’Europa (nata nel 1957 tra sei Paesi, quando tra essi l’Italia rappresentava demograficamente il 25%, ma pesava per il 40% quanto ad esigenze di sviluppo delle sue aree “in ritardo”) imboccasse percorsi tecnico-politici capaci di aiutare seriamente l’Italia a far crescere strutturalmente la grande regione “debole” del nostro Sud e dell’Europa intera. Molto ci si è invece impegnati – per motivazioni talvolta anche nobilmente politiche – in successivi e fin eccessivi “allargamenti”, rispetto ai quali Pasquale Saraceno ammoniva già nel 1975 a preoccuparci del grado di omogeneità dell’Europa, osservando che «la Comunità non è un’associazione culturale o sportiva, che in genere meglio raggiunge i suoi fini quanto più numerosi sono i suoi soci». E oggi non tutti siamo sicuri che ancora nuovi allargamenti – fin verso la Moldova, l’Ucraina, la Bielorussia e la Russia stessa, come si ipotizza – siano la risposta giusta e migliore alla necessità di “cooperazione” dell’Ue con i Paesi man mano confinanti.
Dopo i sei Paesi fondatori del 1957, nel 1973 nell’Europa i partner sono diventati nove, e poi dodici tra l’81 e l’86. E nel 1995 la Comunità ha raggiunto i quindici membri, per poi fare la scelta di andare oltre, con un “salto” a venticinque Paesi nel 2004, e a ventisette ormai, essendo scontato per il 2007 l’ingresso della Romania e della Bulgaria. Allargamenti audaci e sconvolgenti, questi ultimi, frutto di una scelta politicamente significativa, ma sicuramente estranea agli attuali interessi del nostro Sud, e penalizzante per il suo futuro e per le prospettive di una sollecita “convergenza” e “coesione”: nazionale, europea, ma anche regionale, che certo sono cose diverse, ma che muovono tutte da istanze e attese delle quali comunque occorrerà contestualmente sapersi fare carico.
Non siamo stati capaci di far sì che l’Europa (nata nel 1957 tra sei Paesi, quandotra essi l’Italia rappresentava demograficamente il 25%, ma pesava per il 40% quanto ad esigenze di sviluppo delle sue aree “in ritardo”) imboccasse percorsi tecnico-politici capaci di aiutare seriamente l’Italia a far crescere strutturalmente la grande regione “debole” del nostro Sud e dell’Europa intera
Questi progressivi allargamenti hanno emarginato il nostro Sud. A valori attuali, il peso demografico del Mezzogiorno è sceso dal 9,2% nell’Europa a sei, al 4,6% in quella a venticinque, mentre il nostro peso quanto a esigenze di sviluppo delle aree più deboli, che fu inizialmente quello del citato 40%, nell’Europa a dodici del 1985 era sceso a circa il 25%, per non essere poi più formalmente neppure quantificato, dopo l’adozione di quell’inappropriato parametro del 75% del Pil pro capite medio della Comunità, “inventato” nel 1988, che è stato il meccanismo – che di recente la Svimez ha formalmente proposto di sostituire – con cui si sono abrogate di fatto le macroregioni povere dei Paesi “dualisti”, cioè degli Stati che solo nella loro media territoriale sono ricchi, come l’Italia e come la Germania. Ma mentre la Germania si è nel tempo, e anche dopo la riunificazione, saputa difendere assai meglio di noi, per l’Italia l’effetto del marchingegno inventato da Bruxelles è stato quello di cancellare di fatto lo speciale “Protocollo sul Mezzogiorno” del Trattato di Roma, sottoscritto sull’onda dello “Schema Vanoni”, in cui l’Italia non ha creduto.

Nuovi allargamenti dell’Ue?
Dal cul de sac in cui oggi siamo, con le nostre attuali e un po’ stanche politiche, e con le perduranti e problematiche regole europee, non si esce; e soltanto l’italica fantasia cerca di rimediarvi con slogan e con molta retorica; ma senza alcuna elaborazione strategica, e senza visioni geopolitiche.
Recentemente nulla di operativo è stato fatto per identificare a livello infrastrutturale una qualche “subdirettrice Sud” (nemmeno di una seria progettazione del ventilato “Corridoio 8” ci siamo saputi fare nazionalmente carico!) capace di non emarginarci da una politica europea che ha scelto la “direttrice Est”. E anche rispetto a tale scelta, ancora poco si discute di quella che sarà la politica (solo adesioni piene, oppure altre forme di cooperazione?) per i più vicini Balcani, con i quali i pochi collegamenti di fatto ipotizzati partono soprattutto dal nostro settentrionale Nordest, in conseguenza di una logica che ha disegnato i “corridoi” partendo dall’ottica dell’Europa “carolingia”.
In questo quadro di quasi esclusiva attenzione all’Est, la prospettiva della futura e discussa adesione della Turchia all’Ue si incrocia e si sovrappone con un ipotizzato suo ruolo anche come Paese del “partenariato mediterraneo” di Barcellona, e con la sua complessa collocazione e connotazione geopolitica e socioculturale.
Nino Novacco

Nino Novacco

La Turchia confina non solo con il Vicino Oriente mediterraneo (che vede prossimi il Libano, la Siria, la Giordania, e insieme Israele e i palestinesi ancora in guerra!), ma anche con l’assai instabile Levante asiatico e caucasico: la Georgia e l’Armenia, l’Iran e l’Iraq. La Turchia, inoltre, essendo parte non marginale del mondo musulmano – anche se gode finora di una solida continuità moderata con il dopo Atatürk –, porrà certo più di un problema, perché l’ipotesi di questo ulteriore allargamento – a parte la non risolta “questione curda”, che concorre problematicamente all’attuale e futura instabilità dell’area, e a parte le differenze culturali di fondo tra la grande Istanbul nella Tracia europea e la vasta Anatolia, che non renderanno agevole una reale verifica, che non sia solo formale e giuridica, dell’acquis comunitario in materia di diritti – indebolirebbe, con il tendenziale primato demografico turco all’interno di una Ue che la comprendesse, la caratterizzazione “europea” sia dei popoli sia delle istituzioni stesse dell’Unione, che prima o poi dovrà riuscire a darsi nel mondo una immagine e una voce omogenee.
Anche verso il Mediterraneo (che è un’area, con poche eccezioni, assai povera e in grave ritardo di sviluppo; che è oggi un mercato disomogeneo e ancora assai piccolo; che è costituito da una serie di Paesi tra loro isolati e con contrasti e conflitti di varia natura) l’Italia non è andata oltre gli slogan e le retoriche della “vicinanza” e della “centralità” nostra e del nostro Sud, che invece non sono fattori da considerare come dati e automaticamente scontabili, benché siano evocati l’uno e l’altro nei confronti del Nord Africa magrebino (ma sono valide anche rispetto ai Paesi del Mediterraneo orientale?), rispetto ai cui ipotizzati processi di partnership con l’Ue si è fatto, dopo Barcellona, assai poco di concreto.
Sono preoccupato, perché non mi pare ci si renda conto che un ruolo di sviluppo dell’Italia e del Mezzogiorno nell’Europa, nei Balcani, nel Mediterraneo, non potrà esserci finché nell’intero territorio del Sud...
Ci si continua invece molto a riferire agli effetti attesi dal concretarsi di una ancora vaga “zona di libero scambio” sud-mediterranea (come peraltro di una analoga zona di libero scambio tra i Paesi balcanici), che dovrebbe sbocciare nel 2010, ma di cui non si vedono significative premesse. E frattanto anche gli utili e necessari accordi di cooperazione non sempre avvengono con l’Ue, ma soprattutto, e più impegnativamente, in via bilaterale con gli Stati.
E pur parlando spesso di cooperazione, solo occasionalmente in Italia si evoca – purtroppo un giorno per il Kosovo, un giorno per la Palestina, un giorno per la Tunisia, ma non concretizzando nulla con nessuno – l’ipotesi di poter utilizzare (da soli? E se lo si fa con altri, quanto conterà l’Italia nelle scelte?) uno strumento che ricordi l’efficacia del Piano Marshall, che grazie agli Stati Uniti fu per noi determinante nel dopoguerra.

Le preoccupazioni del meridionalismo italiano
Quelle esposte non sono notazioni “pessimistiche”, ma riflessioni preoccupate sì.
Il fatto è che una politica italiana ed europea per la “coesione” – che è quel che occorre per consentire l’accelerazione del processo di crescita del Sud, ma anche delle altre aree in diversa misura deboli dell’Ue rispetto ai livelli delle aree più forti e ricche del nostro Nord e dell’Europa (e dico questo con vigore, convinto che – come sostiene da qualche tempo la Svimez – occorrerà prima o poi prendere atto che ci vuole ben altro che inseguire, come si fa ancora, i valori medi nazionali o europei del Pil pro capite) – il fatto, dicevo, è che un determinato e coerente approccio verso articolate politiche di “coesione” non viene né proposto né applicato come elemento caratterizzante le politiche economiche e di sviluppo.
Un momento dell’inaugurazione della mostra 
dedicata ad Alcide De Gasperi

Un momento dell’inaugurazione della mostra dedicata ad Alcide De Gasperi

Sembra non ci si renda conto che occorrerebbe fare molto di strutturale sul terreno delle grandi infrastrutture fisiche, nel quadro di un disegno geopolitico organico e strategico (che consideri, ad esempio, gli effetti straordinariamente importanti per il Mediterraneo, e quindi anche per il porto di Gioia Tauro e potenzialmente per l’intero Mezzogiorno italiano, della prospettiva del raddoppio del Canale di Suez), attraverso istituzioni pubbliche unitarie ed efficienti, capaci di fornire alle imprese le altrettanto essenziali infrastrutture legali e amministrative. In assenza di ciò, diventano legittime le preoccupazioni di chi allo stato delle cose non riesce a vedere per il nostro Sud – ma neanche per l’Italia intera – un futuro diverso dalla prospettiva di un certo lento declino, se vogliamo chiamare le cose col loro nome.
Sono preoccupato, perché non mi pare ci si renda conto che un ruolo di sviluppo dell’Italia e del Mezzogiorno nell’Europa, nei Balcani, nel Mediterraneo, non potrà esserci finché nell’intero territorio del Sud (non solo lungo la direttrice tirrenica ma anche lungo quella adriatica e ionica, e nelle stesse zone interne sia delle regioni continentali sia delle grandi isole) non si saranno create sistematiche condizioni – infrastrutturali, civili, ambientali, produttive, e tra queste specie nell’industria manifatturiera e in quella turistica – di cui invece neanche nei progetti a più lungo termine vi è oggi una qualunque traccia seria che giustifichi una pur lontana speranza. E se non si determineranno tali tipi di condizioni di “contesto”, che ci vedano avvicinarci a quelle presenti invece nelle aree avanzate e forti con cui dovremo comunque competere, pare a me che discutere di “ruoli” possa risultare vano e non credibile neanche per i Paesi con cui diciamo di voler cooperare.
... non si saranno create sistematiche condizioni – infrastrutturali, civili, ambientali, produttive, e tra queste specie nell’industria manifatturiera e in quella turistica – di cui invece neanche nei progetti a più lungo termine vi è oggi una qualunque traccia seria che giustifichi una pur lontana speranza

Opportunità e vincoli per sviluppo e coesione
Eppure, in Italia, abbiamo intelligenze, capacità, e risorse, per avviare uno sforzo sotto ogni profilo straordinario, capace di accelerare i tempi di realizzazione di reti efficienti di infrastrutture strategiche, che oggettivamente rappresentano l’ineludibile condizione in grado di favorire una reale crescita dell’economia industriale e turistica del Sud, determinando così una maggiore somiglianza con le situazioni delle aree forti del Paese e dell’Ue.
Ma se il massimo di energie e di risorse – soprattutto italiane, certo, ma anche da parte dell’Europa, che troppo poco investe anch’essa per uno sviluppo armonioso – non verrà da subito impiegato per rendere possibile una elevata e stabile convergenza verso la coesione con i territori che sono in testa alla corsa per lo sviluppo, vi è non il rischio ma la quasi certezza che questa opportunità potrà non verificarsi, condizionando così per troppi ulteriori decenni le prospettive e il destino di un’area non piccola quale è il Mezzogiorno.
In effetti il Sud dell’Italia – macroregione complessivamente debole di uno Stato-nazione che in altre sue parti e nella propria media è sicuramente forte – è oggettivamente una realtà cospicua: più grande come superficie di ben diciassette dei ventisette Stati dell’Ue; più grande come popolazione di venti dei ventisette Stati dell’Ue; con un Pil totale più elevato di quello di venti Paesi Ue su ventisette, ma anche superiore da solo a quello dell’insieme della Turchia e dei Paesi balcanici; seppur con un Pil pro capite che nell’Ue vede ben sedici Stati su ventisette precedere il nostro Sud nella graduatoria del benessere.
Non potendosi certo immaginare che una crescita quantitativamente determinante continui a concentrarsi ulteriormente nelle aree avanzate del Centro-Nord, che già si trovano tra quelle più forti dell’intera Europa, ne discende che l’Italia non può non svilupparsi se non nel proprio Sud, che per le condizioni demografiche che presenta, per il capitale umano scolarizzato di cui dispone, e per gli spazi fisici spesso anche già attrezzati che offre alle localizzazioni di nuove iniziative produttive, costituisce la sua maggiore se non esclusiva opportunità attuale e futura. Se ciò non dovesse avvenire, il nostro stesso generale e nazionale ruolo competitivo prima o poi non sarebbe più nemmeno quello di una media potenza, anche se troppo ci si è riempiti la bocca parlando di “Italia grande potenza industriale del mondo”, guardando ai G7 ed ai G8, e trascurando frattanto di dire a noi stessi quale è il reale nostro peso nelle decisive graduatorie della produttività e della competitività.
Ma in tal caso le nostre irrealistiche ambizioni non potrebbero non deludere gli stessi Paesi con i quali sarebbe stato e sarebbe ancora utile e possibile definire e perseguire un comune disegno di sviluppo, di benessere, di coesione.


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