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DIBATTITO
tratto dal n. 12 - 2004

Un viaggio aperto alla realtà


Alcuni passaggi della presentazione del libro-inchiesta sui cattolici d’Italia Il ritorno di Dio di Marco Politi. Relatori: Giulio Andreotti, Ezio Mauro, il cardinale Achille Silvestrini e Susanna Tamaro



La presentazione del libro <i>Il ritorno di Dio</i>, Roma, 8 novembre 2004. Al tavolo dei relatori, da sinistra, il vaticanista de <i>la Repubblica</i> Marco Politi, la scrittrice Susanna Tamaro, il cardinale Achille Silvestrini, il senatore Giulio Andreotti, il direttore de <i>la Repubblica</i> Ezio Mauro

La presentazione del libro Il ritorno di Dio, Roma, 8 novembre 2004. Al tavolo dei relatori, da sinistra, il vaticanista de la Repubblica Marco Politi, la scrittrice Susanna Tamaro, il cardinale Achille Silvestrini, il senatore Giulio Andreotti, il direttore de la Repubblica Ezio Mauro

LAURA PEREGO (moderatrice): Il libro di Marco Politi è molto utile per capire che cos’è il cattolicesimo in Italia specie in questo momento in cui l’attualità politica si occupa di valori religiosi: c’è stato il caso Buttiglione, in cui l’aspirante commissario europeo si è detto perseguitato per il fatto di essere cattolico; c’è stata la vittoria di Bush, che molti hanno attribuito al voto religioso. Ma la prima impressione, rispetto al dibattito in corso in queste ore, è che tra la società cattolica che Politi ci racconta e quello che sostengono i promotori del movimento “cristianista” – come Politi mi ha suggerito di chiamarlo – di Buttiglione, di Ferrara, di Galli della Loggia, ci sia grande differenza. Politi, è così?
MARCO POLITI: Posso garantire che non ho visto cristiani perseguitati nel mio viaggio. È ridicolo immaginare che dopo cinquant’anni di presenza politica, anzi di egemonia della Democrazia cristiana, ci siano dei perseguitati per fede nel nostro Paese. Ma, al di là degli scherzi, anche se adesso Buttiglione va nei talk show con l’aria di chi, come Socrate, ha dovuto bere chissà quale cicuta, la realtà è diversa. Ed è una realtà che io ho voluto affrontare senza nessuno schema di destra o di sinistra, liberal o conservatore, di base o di vertice, perché è la realtà delle nostre città, dei nostri paesi, delle nostre campagne, in cui si vive una fede molto serena e molto tranquilla. Posso solo dire che questo è stato un viaggio vero e in questo viaggio ho visto tante facce, tante persone, tante storie che mostrano una vitalità molto forte. Ma ora ti ridò la parola.
LAURA PEREGO: Io la giro subito al presidente Andreotti, a cui non posso che rivolgere la domanda che gli ha rivolto questa mattina Marcello Sorgi, direttore della Stampa, nel suo editoriale sui silenzi dei cattolici. È vero, presidente, che i cattolici in Italia sono emarginati e che quando si parla di questione cattolica c’è anche una sorta di rimozione della lunga storia della Democrazia cristiana?
ANDREOTTI: Teoricamente ce l’abbiamo tutti con i fondamentalisti, salvo poi non renderci conto che un po’ di fondamentalismo l’abbiamo tutti nel nostro modo di ragionare e di pensare. D’altra parte devo dire che se oltre ai quattro Vangeli ce n’è anche un quinto scritto a due mani da Buttiglione e da Giuliano Ferrara, aspetto di poterlo leggere per poter capire
GIULIO ANDREOTTI: Non che voglia girare attorno alla questione, ma non vorrei neanche trasformare questo incontro in una conferenza stampa sul cosiddetto caso Buttiglione. Io credo che bisogna tener conto di due cose. Primo: il cattolicesimo è un dato intimamente presente nella storia della nostra nazione. Basta andare in qualcuno dei nostri centri, alcuni dei quali sono stati individuati così bene da Politi, per vedere come la vita delle nostre comunità sia permeata da quella che è stata una tradizione cattolica. Esemplifico. Sono stato ieri in due città del Lazio. Una è Velletri, città quanto mai laicista, città garibaldina, dove si festeggiavano però i cento anni della società sportiva locale. Una società che fu creata da monsignor Moresi, il quale era convinto che per avvicinare i giovani bisognasse fare insieme a loro delle attività concrete.
Ieri sono stato anche a Segni, insieme al senatore Zander qui presente, dove vi si celebravano i centocinquant’anni da quando l’intera città fece un voto comune perché finisse l’epidemia di colera. Un’epidemia che era arrivata in tutta Italia con il ritorno del nostro contingente di soldati che avevamo mandato in Crimea. Nel 1854 la città di Segni aveva fatto un voto collettivo alla Madonna addolorata e ancora oggi, tutti – quelli che vanno a messa e quelli che non ci vanno, quelli che rispettano tutti e dieci i comandamenti e quelli che ne rispettano solo qualcuno – partecipano a questa ricorrenza.
Quindi una certa tradizione cattolica permea le nostre città, anche se – ed è questa la seconda cosa che voglio dire – non possiamo nascondere che ci sono state situazioni storiche difficili per i cattolici. Nel 1904, in un fondo del Corriere della Sera, Albertini, parlando delle elezioni amministrative, affermava che i cattolici potevano parteciparvi, bontà sua, però aggiungeva: «Nessuno pensi che questo voglia dire che i cattolici hanno il diritto di sedere in Parlamento». Poi, dopo il Patto Gentiloni, la situazione cambiò; ma non si può negare che allora c’era una posizione diffusa di intransigenza verso i cattolici. Altro esempio ci viene dal dopoguerra, che è stato un momento nel quale la situazione era difficile dal punto di vista religioso per colpa dei sovietici. Pio XII aveva detto: «Gli americani si illudono se pensano che dopo la guerra saranno loro e gli inglesi ad avere peso in Europa. Chi avrà peso sarà Stalin». Il Papa constatava un dato di fatto: mai la Chiesa aveva avuto tante persecuzioni come da quel momento in poi. Neanche Hitler si era mai permesso – cosa che invece stava accadendo nell’Est europeo in quel momento – di arrestare un cardinale o un arcivescovo, nemmeno quelli che gli si opponevano pubblicamente come Faulhaber o von Galen. Cosa doveva fare la Chiesa in un momento del genere? A mio avviso, non doveva schierarsi su una posizione a favore di un partito o di un altro, ma fare in modo che non si arrivasse a una situazione negativa, anche, ma non solo, dal punto di vista religioso. Per questo quando, prima della campagna del 1948, già si accusava la Chiesa di ingerirsi nelle questioni politiche, io ribattevo che così come nessuno può contestare ai coltivatori diretti il diritto di battersi per evitare che le terre diventino proprietà collettive, così i “coltivatori diretti di anime” avevano non solo il diritto ma il dovere di occuparsi del destino anche materiale degli uomini. Da lì nacquero i Comitati civici e tutta la campagna politica che conosciamo. Certo, c’è stato chi ha sfruttato questa posizione dettata dalle contingenze storiche per dire che per la Chiesa andava tutto bene purché si fosse anticomunisti… Ma non è vero, come dimostra la fine che fecero l’“operazione Sturzo” e dintorni.
Oggi non mi pare giusto né prendersela in questa maniera con Buttiglione, né fare del suo caso una questione di libertà o di non libertà generale. Bisogna stare attenti a queste massimalizzazioni, anche perché teoricamente ce l’abbiamo tutti con i fondamentalisti, salvo poi non renderci conto che un po’ di fondamentalismo l’abbiamo tutti nel nostro modo di ragionare e di pensare. D’altra parte devo dire che se oltre ai quattro Vangeli ce n’è anche un quinto scritto a due mani da Buttiglione e da Giuliano Ferrara, aspetto di poterlo leggere per poter capire. Io sono un poveraccio, un popolano romano, non mi muovo in cieli così alti… Però vorrei essere un po’ prudente, ma non reticente.
LAURA PEREGO: Non è stato reticente, presidente Andreotti. A Ezio Mauro vorrei rivolgere una domanda necessariamente analoga. Al di là delle valutazioni di merito, ha senso promuovere una lobby cattolica in Italia?
MAURO: Brague distingue tra cristiani e “cristianisti” con una semplicità assoluta. È una distinzione che ha fatto nel ’92 in un suo libro e che è più che mai di attualità oggi: i cristiani sono coloro che credono in Cristo, i “cristianisti” sono coloro che credono nel cristianesimo e cioè nella fede trasformata in qualcosa di diverso, in una ideologia
EZIO MAURO: Un senso, nel senso della convenienza, dell’utilità, in termini di marketing politico, lo può avere. Io vorrei, secondo il monito esperto del presidente Andreotti, parlare prima del libro. Però rispondo prima a questa domanda. Io credo che, dietro quest’operazione, non da parte di Buttiglione ma da parte di quelli che io ho definito gli “atei credenti”, i “laici clericali”, ci sia soprattutto la presa d’atto del fallimento del pensiero liberale di destra, che continuamente è deformato dagli abusi berlusconiani delle regole; credo che ci sia il fallimento della destra politica italiana, che governa legittimamente questo Paese, perché ha conquistato la maggioranza, ma non è stata capace, a mio parere, di compiere l’unica operazione veramente immortale: fondare una moderna cultura di destra, in questo Paese che non l’ha mai avuta. Perché questo Paese ha avuto certamente una cultura democristiana – che è una cultura però moderata – e per un ventennio una cultura fascista, ma non ha mai avuto una moderna cultura di destra, nel senso europeo del termine. La mancanza di questa operazione, cioè la fondazione di una moderna cultura di destra, fa sì che un pensiero forte lo si cerchi laddove esso sia profondamente innervato nella tradizione italiana e cioè nel pensiero della tradizione cattolica. È un’operazione che a molti studiosi, a molti esperti, ha ricordato – in termini, in contesti e in soggetti completamente diversi, quella dell’Action française di Maurras, il quale diceva: «Sono ateo e cristiano nello stesso tempo, credo nei precetti della Chiesa in quanto francese perché la Chiesa ha plasmato la Francia e dunque in questo senso io credo nei precetti della Chiesa».
Ma vorrei prima parlare un momento di questo libro e spiegare perché nel libro questa presenza culturale, che, citando Rémi Brague, definiamo “cristianista”, è assente. Proprio di Brague è uscita in questi giorni una bellissima intervista che avrei voluto pubblicare io, fatta da Gianni Valente per 30Giorni. Mi sono complimentato prima con l’autore e anche col direttore della rivista che è qui con me. Vorrei spiegare perché Politi non parla dei “cristianisti”. Brague distingue tra cristiani e “cristianisti” con una semplicità assoluta. È una distinzione che ha fatto nel ’92 in un suo libro e che è più che mai di attualità oggi: i cristiani sono coloro che credono in Cristo, i “cristianisti” sono coloro che credono nel cristianesimo e cioè nella fede trasformata in qualcosa di diverso, in una ideologia, che alla fine vive per sé stessa senza bisogno di essere animata dalla fede vera e propria. Allora andiamo al libro di Politi, e spieghiamo perché non arriva fino ai “cristianisti“. Intanto, io devo dire che il libro mi ha molto stupito perchè è un libro assolutamente umile. Io conosco Politi da più tempo di quanto non dica la nostra collaborazione a la Repubblica, perché siamo stati insieme per tre anni in Unione Sovietica come corrispondenti – lui del Messaggero, io della Repubblica – e abbiamo vissuto l’esperienza della perestrojka. Politi possiede gli strumenti dello specialista assoluto. Era vaticanista prima di andare a Mosca, dove ha acquisito un’esperienza internazionale di tutto rispetto. Ha scritto un libro fondamentale insieme a Carl Bernstein sul papato di Karol Wojtyla, un libro di riferimento per tutti coloro che vogliono indagare quest’esperienza straordinaria del secolo scorso e di questo secolo. Ma in questo nuovo libro sembra apparentemente aver deposto gli strumenti tecnici, specialistici, del mestiere, per andare con lo spirito del cronista, del grande reporter, a indagare il Dio italiano. L’Italia è un Paese che non ha mai teorizzato di avere un Dio italiano, perché era un Paese considerato naturalmente cristiano. Dunque, per la sua vicinanza al papato da un lato e per l’essere naturalmente cristiana, sembrava non dovesse esistere una via italiana al cattolicesimo. Politi va a cercare proprio questa via, ma lasciando la parola agli altri. Lui dice di aver scritto un libro senza schemi di destra e di sinistra, io aggiungerei addirittura senza schemi tout court, nel senso che è un libro che non ha una verità preconfezionata di cui va a cercare la conferma nelle testimonianze che raccoglie. È un libro aperto alla realtà che si trova davanti. In questo l’autore è cronista. Ha fiducia nella realtà che incontra. Naturalmente bisogna possedere degli strumenti specialistici per fare quello che ha fatto Politi, il quale li possiede tanto bene da poter far finta di dimenticarli, per la voglia di lasciare emergere la Chiesa italiana nelle sue diverse articolazioni: da chi lavora coi giovani a chi lavora nelle parrocchie di frontiera, da chi sta pensando di metter su una discoteca per accogliere ragazzi sbandati nella zona di Sondrio a chi mette in piedi le radio che hanno più ascoltatori di qualsiasi altra radio d’Italia. Ecco, tutto questo mondo – in parte conosciuto, in parte sconosciuto, in parte valutato, soprattutto da noi laici, attraverso stereotipi – viene indagato, trova spazio e si compone in questo libro. E ci accorgiamo come tutto questo magma cattolico italiano nel corso dell’ultimo decennio ha subito una mutazione profonda. Politi si appoggia anche, come fa il cronista di valore, alle cifre, e di ogni fenomeno ti dà la dimensione. Così questo mondo si compone nel libro fino a formare un ritratto del cattolicesimo italiano, del Dio italiano, all’inizio di questo nuovo secolo. Un cattolicesimo in forte trasformazione perché, come ricorda Politi, ha un clero che solo per l’8,8% è sotto i trentacinque anni e che per un terzo è sopra i settant’anni addirittura, che deve ricorrere a milleottocento preti provenienti dal Terzo mondo, suscitando il lamento dei vescovi e dei cardinali di quei Paesi. Molte parrocchie italiane sono sguarnite, alcune di esse sono affidate a dei vicari e a dei laici, altre non hanno nessuno che le faccia funzionare. Ci sono preti – come uno di quelli intervistati – che hanno diciassettemila fedeli ai quali devono in qualche modo rispondere. Ci sono parrocchie, dice Politi, in cui la frequenza alla messa domenicale arriva solo al 5-6% della popolazione. Che cosa c’è dunque? C’è un’identità cristiana ancora molto forte. Il senatore Andreotti ci ricordava prima come essa permei tutta la vita – la cultura pratica e quella quotidiana – del nostro Paese. Tuttavia si tratta di una presenza che, nel corso dell’ultimo quindicennio, è in qualche modo scolorita. Se dovessimo definirla alla luce delle ricerche fatte da vari sociologi e dei ritratti che emergono in certi libri, potremmo dire così: una presenza di preti, ma anche di molti laici, di molti volontari, che si muovono dentro questo mondo in condizioni di minoranza, con difficoltà nel portare la predicazione soprattutto in mezzo ai ragazzi. Se dovessimo definire il Dio italiano, dovremmo dire che è un Dio sempre più generale, generalista, forse generico. In qualche caso potrebbe sembrare un Dio superfluo, certamente comodo, un Dio accomodante. Un Dio comodo che, come dice a un certo punto Pollo, un sociologo interpellato da Politi, ti dà sempre ragione perché finisce con l’essere una proiezione di te e del bricolage da shopping culturale che fai. Metti un pezzo di protestantesimo, un pezzo di buddismo, un po’ di New age e parli molto con quel Dio. Moltissimi adolescenti confidano di parlare la sera con il loro Dio, che è il Dio del cristianesimo perché sono cristiani, ma quel Dio è un Dio che non ha alterità, che non si stacca da te, a cui in qualche modo non consenti di giudicarti perché è una proiezione di te. È più una religione vissuta come un’emozione che come rapporto con qualcosa di diverso, di altro da sé. E Politi ha usato una formula per compendiare questa difficoltà, questa situazione italiana (che poi è la difficoltà dei grandi Paesi, delle grandi democrazie moderne dell’Occidente, così come noi le conosciamo, solo che in Italia fa più colpo proprio perché era un Paese considerato naturalmente cattolico, naturalmente cristiano). Politi parla della legge delle due “b”, dove il believing, il credere, non coincide col belonging, l’appartenere. Vale a dire che il senso d’appartenenza a una dottrina è molto più in crisi di quanto non lo sia la generica appartenenza a una religione, che è qualcosa che non disturba. Si dice: sì, i miei genitori mi hanno fatto battezzare e dunque io mi riconosco in questo senso in un cristianesimo in qualche modo ridotto a cultura.
Non credo sia mai stata fatta una fotografia più precisa della situazione del cattolicesimo italiano di quella presente in questo testo, perché in esso c’è l’indagine statistica, c’è la parola dei testimoni, dei protagonisti. C’è una formula del sociologo Garelli, il quale da anni studia i fenomeni cattolici in Italia, che dice che nel nostro Paese non è in crisi la religione – nel senso appunto di un’appartenenza originaria, dell’essere in qualche modo iscritti a quel qualcosa che rappresenta un credo, una carta d’identità culturale, familiare e tradizionale del nostro Paese – ma è in crisi la fede.
Fin qui il libro di Politi. Solo che in questi giorni è accaduto un rovesciamento totale. Sembra che non conti più la religione, ma solo l’appartenenza a una dottrina. Sembra che non conti più il believing, il credere, ma solo il belonging, l’appartenere. C’è la ricerca di un pensiero forte capace di innervare la politica (in questo caso, mi permetto di dire, la politica della destra, perché è lì che nasce questo fenomeno; e lo dico da cronista, senza dare in questo momento dei giudizi di qualità), un pensiero che ponga un “prima”, che rappresenti qualcosa di depositato nella tradizione italiana e che “l’alienità” di questa nuova politica di destra non porta con sé; un pensiero capace di dare un “dopo” a tutto questo, un senso di cose ultime e profonde della vita. Sembra quindi che si ricorra alla dottrina della Chiesa per fare qualcosa di totalmente inedito, qualcosa che nel nostro Paese non abbiamo ancora visto e che io ho definito “cristianesimo senza Cristo”. Un clericalismo senza fede, qualcosa, come direbbe René Girard (che non l’ha detto perché non sapeva che in Italia si sarebbe manifestato questo fenomeno), di “a-cristiano”, un “cristianesimo a-cristiano”. Siamo davanti a qualcosa del genere e io penso che l’intervista che ha rilasciato Rémi Brague a 30Giorni dica delle cose molto importanti, sottolinei come questa possa essere quasi una sorta di idolatria, una strumentalizzazione della religione per fini politici, la religione trasformata in un’ideologia strumentale per scopi politici. Girard, nell’ultimo libro pubblicato da Adelphi, dice che il cristianesimo non è riducibile a una filosofia sociale e neanche a un’antroposofia. Il cristianesimo è qualcosa di diverso, è una bestemmia ridurlo a questo. Il cristianesimo, dice Brague, non è un “ismo”.
Io parlo da laico ma – l’ho scritto sul mio giornale – mi permetto di dire che per un cattolico integrale che crede che il cristianesimo sia un avvenimento – e prendo in prestito da Giussani la formula dell’avvenimento per dire che è qualcosa che è avvenuto in un punto della storia e dello spazio, qualcosa che è avvenuto in una data e in un luogo, qualcosa di fisico, qualcosa di concreto, che dunque distingue il cristianesimo dalle filosofie e dalle predicazioni, dai galatei sociali, politici e comportamentali – questa riduzione del cristianesimo a cultura, a ideologia, a strumento per una politica, sia una sorta di eresia.
LAURA PEREGO: Cardinal Silvestrini, facciamo un passo indietro rispetto alle cose che ha detto Ezio Mauro. Questo libro si chiama Il ritorno di Dio. Lei crede che ci sia questo ritorno di Dio in Italia? Se sì, pensa che si tratti del Dio dei cristiani oppure di un Dio indefinito, di un essere superiore generico, come si rileva in molte parti del testo di Politi?
SILVESTRINI: “Io voglio” è il titolo del capitolo in cui De Rita sottolinea la dimensione emozionale che una volta non c’era nel cattolicesimo. Un aspetto emozionale che diventa emozione di massa. A volte la Chiesa tenta di coprire l’incapacità di parlare al singolo, alla persona
ACHILLE SILVESTRINI: Il viaggio di Politi ha mostrato bene che c’è un ritorno di Dio. Non è un Dio generico. È una rinascita, una nuova vita di espressione cristiana in tante forme diversissime tra loro. Ovviamente il libro mette in evidenza innanzitutto i punti deboli della vita cattolica oggi, come la diminuzione di vocazioni e l’invecchiamento del clero. O la difficoltà per la Chiesa di avere un linguaggio adeguato a una società in continua evoluzione. Lo dice molto bene nel libro De Rita. Secondo me il capitolo XII, in cui Politi intervista De Rita, è straordinariamente significativo. Vorrei fare qualche citazione. De Rita spiega che oggi ci sono nella Chiesa due posizioni diverse di fronte al cambiamento della società. Una posizione orgogliosa, per la quale bisogna soprattutto fare delle opere (occuparsi degli extracomunitari, degli anziani, dei malati di Aids...); l’altra che tenta di andare verso il singolo. E se c’è qualcosa che De Rita trova ancora carente è proprio l’attenzione al singolo. Nella sua catechesi, nelle sue attività, la Chiesa non dice nulla a questo soggettivismo.
“Io voglio” è il titolo del capitolo in cui De Rita sottolinea la dimensione emozionale che una volta non c’era nel cattolicesimo. Un aspetto emozionale che diventa emozione di massa. A volte la Chiesa tenta di coprire l’incapacità di parlare al singolo, alla persona, con una moltiplicazione di eventi di massa che diano un’emozione religiosa. Ma come ha risposto Politi a queste domande? È andato, come è stato detto, in giro per l’Italia a fare non un’inchiesta sociologica ma degli incontri.
Nel libro sono descritti dei sacerdoti bravissimi, straordinari. Il primo che mi ha fatto piacere trovarvi è don Baldassarre Cuomo, che io conosco dal tempo degli studi. Ma soprattutto, in quel capitolo, mi ha colpito come Politi descrive la vita al santuario di Pompei: la gente che va a pregare, che chiede, che si confessa, che riversa nel cuore dei confessori le proprie sofferenze. Oppure quell’altro straordinario sacerdote di Villa di Chiavenna, don Gigi Pini, che ha una grande creatività, una straordinaria capacità di inventiva per coinvolgere i giovani. C’è anche un sacerdote di Roma, don Battista Angelo Pansa, parroco della Trasfigurazione. E c’è il vescovo di Locri, Giancarlo Bregantini, un uomo eccezionale che di fronte alla mafia dice: «Io non entro mai in questo argomento. Io annuncio il Vangelo e quando accade un fatto grave, un delitto, lo denuncio. Basta». Per il resto, Bregantini si preoccupa di incoraggiare iniziative imprenditoriali in favore dei giovani per dare loro una speranza…
LAURA PEREGO: C’è quel bellissimo episodio delle “fragole del vescovo”…
SILVESTRINI: ... “le fragole del vescovo”, esatto. Fanno una cooperativa e, approfittando del clima più mite, portano su nel Trentino, due volte alla settimana, le fragole e i lamponi coltivati in Calabria.
Altra bellissima figura è il nostro don Luigi Ciotti. C’è tutta la sua storia, il suo rapporto con Pellegrino e, successivamente, con Ballestrero. Ci sono insomma dei preti straordinari. Uno potrebbe dire che sono eccezioni, ma non credo. Ne conosco tanti altri che Politi non ha potuto incontrare e consultare, i quali, in forme meno vistose e meno conosciute, fanno un lavoro straordinario.
Inoltre il libro è positivo anche per l’analisi del progetto culturale fatta da Bruno Forte, dal rettore della cattolica Lorenzo Ornaghi e da Gianfranco Ravasi. Sono analisi complementari,di grande ricchezza ed equilibrio. Poi, ancora, ci sono questi fenomeni popolari come Radio Maria, che conosciamo tutti. C’è descritta, insomma, una vivacità spontanea, quindi è per me un libro incoraggiante.
Ci sono anche belle figure di donne. Lascio che ne parli la Tamaro, ma cito solo Chiara Lubich, raccontata insieme a uno splendido ritratto del contesto dei Focolarini. C’è la teologa Adriana Zarri, là nel casolare presso Ivrea; Caterina Iacobelli qui a Roma; Chiara Amirante. C’è la situazione delle suore, per cui la diminuzione delle vocazioni è meno evidente che per il clero. Però ci sono anche queste Figlie di Maria Missionaria, questa suor Teresa, che sono straordinarie figure. Ha detto bene Scalfari nella prefazione: c’è una prevalenza forte della presenza femminile – nell’ambito della quale naturalmente si registra a volte un’insoddisfazione a motivo di una non sufficiente considerazione e valorizzazione – che sta mostrandosi indispensabile alla vita della Chiesa e, nello stesso tempo, estremamente creativa. Si può parlare tanto di cattolici e politica, come nel caso Buttiglione, ma tutto questo discorrere è una cosa marginale. A questo proposito non trovo, come hanno rilevato alcuni, che le parole di Casini nel libro, sul passaggio dall’esperienza democristiana alla diffusione dei cattolici in tutti gli schieramenti politici, siano una critica alla passata stagione della Dc. Sono invece parole molto ponderate.
LAURA PEREGO: Susanna Tamaro, ho notato delle assonanze tra quello che scrive lei nel racconto L’inferno esiste e le espressioni che usano alcuni confessori quando parlano di fedeli disperati che arrivano al confessionale. Il monsignore di Pompei, Cuomo, usava proprio la parola “odio” (la stessa parola che usa lei nel suo racconto) all’interno della famiglia e nei confronti del vicino…
TAMARO: In molte delle testimonianze del libro di Marco si vede che le persone che lui incontra sono libere, perché il bello di questo mondo cattolico è la sua estrema varietà, e quest’estrema varietà è tutta contenuta nell’unicità della Chiesa
SUSANNA TAMARO: Faccio un salto indietro prima di rispondere. Io non ho mai presentato un libro in vita mia, neanche i miei. Ho scelto di presentare questo – prima e ultima volta – perché mi ha molto affascinato. Ho scritto per otto anni su Famiglia Cristiana e questa esperienza mi ha fatto entrare in contatto con un mondo che a me era estraneo: il mondo cattolico. Mi ha fatto conoscere un pezzo d’Italia che non avevo mai visto da nessuna parte, nei telegiornali, nelle televisioni, nei partiti, e che pure era un’Italia straordinariamente sana, viva, pronta a interrogarsi e a essere critica. Questa stessa Italia l’ho ritrovata, per la prima volta, nel libro di Marco ed è l’Italia sotterranea dei veri credenti. Mi spiego. Una cosa è la persona che, come tutti, è stata battezzata e, più o meno come tutti, ha fatto la comunione; altra cosa è la persona che non vive in modo idolatrico, ma in modo centrato la sua fede. Chi vive all’interno di questa fede – e rispondo così alla tua domanda – difficilmente vive con l’odio nel cuore. Anzi, direi che è proprio impossibile che lo faccia, perché ha tolto tutte le idolatrie dal suo cuore. Dunque non esistono famiglie veramente credenti che vivono nell’odio. Ci possono essere famiglie che vivono nell’odio e magari fanno il pellegrinaggio al santuario di Pompei, sperando con la confessione di liberarsi di questo sentimento, ma sono cose abbastanza diverse. Io credo che un cammino di fede vero sia sempre un cammino di amore. L’odio che c’è in tutti i nostri cuori, attraverso un cammino per togliere gli idoli dal cuore, è destinato, naturalmente e spontaneamente, ad andarsene lentamente. E in molte delle testimonianze del libro di Marco si vede che le persone che lui incontra sono libere, perché il bello di questo mondo cattolico è la sua estrema varietà, e quest’estrema varietà è tutta contenuta nell’unicità della Chiesa. Insomma, stiamo vivendo un passaggio da Paese culturalmente cattolico per abitudine, per consuetudine, per noia e per conformismo, a un Paese che cerca nella fede qualcosa di forte e un modo di vivere.
LAURA PEREGO: Lei parla di fede, ma la Chiesa è in grado con i suoi riti, con i suoi linguaggi, di avvicinarsi alla società?
TAMARO: Credo che la Chiesa stia passando una bella crisi. Dico “bella crisi” perché le crisi sono sempre belle in quanto fanno nascere qualcosa di nuovo. Prima di tutto c’è la crisi del clero. Non ci sono più tanti preti, dunque bisogna trovare un modo nuovo, creativo, di vivere, di leggere e di studiare la Parola.
Penso comunque che tutto quello che oggi può sembrare negativo poi si manifesterà come un dono. Ad esempio, dove vivo io c’è un parroco che cura molti paesi. Allora se io voglio andare a messa devo inseguirlo. Non è più una cosa che mi viene incontro, sono io che faccio la scelta di seguire la messa, e questo cambia tutta la prospettiva.
La Chiesa ha oggi un grande problema di comunicazione nel senso che non sa, non è in grado o è in grado solo parzialmente, di comunicare il suo grande tesoro, il tesoro di fede, di rivelazione, alle persone. Ciononostante, siccome lo Spirito Santo lavora, le persone continuano a creare questo mondo e ad andare avanti. Sicuramente, devono cambiare molto e credo che l’apertura al mondo femminile sarà assolutamente determinante per la Chiesa.
LAURA PEREGO: Presidente Andreotti, due domande: anche lei crede che ci sia un problema di comunicazione nella Chiesa di oggi? E, più in generale, cosa l’ha colpita del libro di Politi?
ANDREOTTI: Oggi siamo migliori o siamo peggiori che nel passato? Io non lo so. So però che bisogna stare attenti a non creare degli steccati tra laici e cattolici. Questa è stata una delle linee di fondo della politica di De Gasperi
ANDREOTTI: Parto dalla seconda domanda. Mi ha colpito il fatto che, man mano che leggevo il libro, mi rendevo conto di quante realtà del mondo cattolico non conoscevo... Eppure è un mondo che frequento da molti anni… Poi mi ha colpito la grandissima serietà del metodo di lavoro di Politi. Io conosco dei vaticanisti – non attuali, per carità, che sono tutti bravissimi – che facevano i loro servizi andando a raccogliere soltanto dei pettegolezzi e, appena fatto un Papa, cominciavano subito a dire chi sarebbe stato il prossimo. Inoltre Politi fa alcune note graziose per rendere più umano e più vicino al lettore questo suo esplorare. Di ognuno degli intervistati, per esempio, descrive la stanza, i mobili.
Politi punta il riflettore su tutta una serie di tipi e di ambienti diversi, dimostrando che generalizzare sulla situazione di crisi della Chiesa è sbagliato. Io non so se oggi vadano in Paradiso più o meno persone rispetto a cinquant’anni fa. A questo proposito mi sembra importante l’analisi approfondita della situazione che nel libro fa il vescovo Giuseppe Betori, segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Bisogna evitare divisioni dettate da giudizi sommari e da impressioni personali. Come quando noi vedemmo, ad esempio, dividersi il campo attorno a don Milani, tra chi lo considerava un santo e chi invece solo un puro contestatore. Oppure come quando padre Balducci per sostenere una tesi giusta, quella della scelta dell’obiezione di coscienza, si mise a dare addosso ai cappellani militari, dicendo che in fondo erano dei guerrafondai e creando solo guai. Il tipo di sacerdote che viene fuori da queste approfondite analisi che fa Politi è invece un tipo umano diverso. È uno che sa guardare la modernità con un grande cuore evitando però di ritenere che ogni cosa sia legittima. Per cui la modernità non è, come pensano alcuni, non avere più delle regole.
Esco un momento dal seminato: non crediamo che questo indirizzo, chiamiamolo di permissivismo, abbia come spartiacque l’essere o il non essere cattolico. Alcune cose non dovrebbero essere difese solo perché si è cattolici. Prendiamo ad esempio le oscenità. Io a volte polemizzo con il presidente del Consiglio su questioni politiche, ma non è certo per quello che ce l’ho con lui. Ce l’ho con lui per il “Grande fratello”, perché è una delle cose che mi ha turbato di più. Perché certe cose rappresentano atti osceni in luogo pubblico ed è il rispetto della nostra Costituzione laica che dovrebbe mettere un argine a questi fenomeni. Detto questo, posso apparire un bacchettone, ma non me ne importa niente.
Tornando al libro di Politi, una cosa che ho pensato leggendolo è che anche certe polemiche tra Stato e cattolici in passato si sono smorzate nel momento in cui c’era una grande emozione nel Paese. Ad esempio, quasi nessuno ebbe niente da eccepire quando, trovandoci noi impreparati di fronte ad un problema nuovo, quello dei mutilatini di guerra, De Gasperi affidò questa missione nuova – nuova anche dal punto di vista civile – a un sacerdote, don Gnocchi. La Seconda guerra mondiale, infatti, tra le molte realtà infami che ha prodotto, ha inventato anche i bombardamenti sistematici delle città. E oggi questa procedura è diventata, ahimè, quasi una norma. Distruggere interamente una città ormai è considerata un’operazione di carattere bellico.
Dunque, oggi siamo migliori o siamo peggiori che nel passato? Io non lo so. So però che bisogna stare attenti a non creare degli steccati tra laici e cattolici. Questa è stata una delle linee di fondo della politica di De Gasperi. Lui aveva un grande vantaggio: giungeva da una regione irredenta ed entrò nella vita politica italiana quando non c’era più la questione romana. Non aveva vissuto questa tragedia, che, in fondo, ha per tanti anni segnato tutta la nostra storia. Anzi, a questo proposito forse Politi una volta potrebbe dedicare un po’ d’attenzione al fermento degli inizi del secolo scorso, che fu anche all’origine della tragedia per figure che adesso, tra tante rivisitazioni positive, potremmo far rivalutare, come Ernesto Buonaiuti. Buonaiuti, accusato dalla Chiesa di modernismo, fu uno dei soli undici professori universitari che, pur di non giurare al regime fascista, rimasero fuori da qualunque occupazione.
Prima è stato detto che la Chiesa ha un problema di comunicazione del suo messaggio. Non vorrei banalizzare, ma una delle cose che mi sono rimaste impresse a questo proposito fu la predica di una splendida figura di prete romano, il cardinale Traglia. Era il 1938, quindi sono passati tanti anni. Allora, noi giovani universitari, come Conferenza di San Vincenzo, andavamo a Pietralata. Ci chiamavano “i signorini”, anche se di signorile non avevamo niente. Quando ci furono le cresime a Pietralata, invitarono anche monsignor Traglia, che non era ancora cardinale, e che fece un discorsetto dalla pedagogia straordinaria. Disse: «Ragazzi, io devo approfittare di questa occasione per parlare ai grandi, perché voi in chiesa ancora ci venite, ma loro, se non gli parlo in un’occasione come questa, o a un funerale, chi li vede mai?». E poi, lui che aveva due lauree, una grande cultura teologica, ma che sapeva avere una comunicativa unica, raccontò un episodio: «Quando stavo entrando in chiesa, uno m’ha detto: “Monsigno’, lei parla bene, ma so’ duemila anni che c’è il cristianesimo e tanta gente è ancora cattiva!”. Sapete che gli ho risposto? “Pure il sapone c’è da tanto tempo e c’è ancora chi è zozzo. Ma mica è colpa del sapone, è colpa sua!”». Scusate se banalizzo, però vorrei dire che, certo, sì, va tutto bene, il nuovo Catechismo, il vecchio Catechismo, il riassunto del nuovo… ma cerchiamo di avere questo spirito – non romanesco ma romano – che significa una cosa diversa: una comunicativa semplice e vera.
Concludendo sul libro: dopo aver letto quelle stupende pagine sulle suore di clausura, beh, allora tutta questa crisi del cristianesimo io non la vedo.
LAURA PEREGO: Vorrei chiedere solo una breve riflessione a Ezio Mauro sul tema del relativismo etico, di cui parlava il presidente Andreotti. Il sondaggio pubblicato ieri dalla Repubblica era molto interessante. C’è un rimescolamento di carte tra laici e cattolici. La Chiesa, come dicono i sessuologi e i sociologi intervistati da Politi, non entra più né in camera da letto né tra le mura domestiche, nel bene e nel male, probabilmente...
MAURO: Credo dunque che oggi si abusi del termine relativismo ritenendo che soltanto chi crede abbia un passo in più. Questo significa inoltre rifiutare il fatto di far parte di una società complessa e articolata, in cui, tra l’altro, bisogna prendere atto, come ha fatto la gerarchia ecclesiastica, che i cattolici sono in minoranza
MAURO: Brevemente sul relativismo. Il sondaggio di Ilvo Diamanti, pubblicato ieri dalla Repubblica, invita tutti, laici e cattolici, a essere prudenti e a non strumentalizzare queste grandi questioni che chiamano in causa la coscienza di ognuno di noi e che non possono essere risolte in base ad appartenenze ideologiche, politiche o anche soltanto culturali. Sono delle questioni che devono far riflettere tutti e su cui ci deve essere una libertà di valutazione e di approccio che non può essere rinchiusa dentro degli schieramenti. Non a caso ricordo che una delle ultime riflessioni di Bobbio era stata proprio sul tema dell’aborto, e Bobbio è stato sempre considerato uno dei punti di riferimento del pensiero laico nel nostro Paese. Per quanto riguarda il relativismo, Andreotti si è in qualche modo risposto da solo pubblicando sul suo giornale l’intervista a Brague, citata prima. Dice Brague che relativismo e nichilismo sono sintomi allarmanti e tuttavia hanno qualcosa di buono. Intanto rendono impossibile l’intolleranza, perché non si può né morire né uccidere in nome di qualcosa a cui non si crede che relativamente o a cui non si crede affatto. Poi si pone una domanda a mio parere fondamentale: si ha comunque il diritto, per combattere il relativismo e il nichilismo, di strumentalizzare la fede? Ed è una domanda che interpella in particolare chi crede.
Vorrei poi aggiungere un elemento. Quando trattiamo di questioni che riguardano la vita e la morte, che riguardano il senso profondo della vita, dovremmo liberarci della riduzione schematica di cui siamo prigionieri un po’ tutti, laici, cattolici, spesso anch’io nelle cose che scrivo, in qualche caso il mio giornale come molti altri giornali. Non dovremmo ridurre tali questioni a battaglie politiche di schieramento. È legittima una battaglia culturale, ma su questi temi la battaglia politica non è molto legittima. Ecco, in alcuni casi c’è uno schematismo eccessivo, anche da parte di questa posizione che per comodità adesso definiamo “cristianista”, cioè la posizione che trasforma, pur non credendo, la dottrina sociale della Chiesa in qualcosa di ideologicamente utile per una battaglia politica. Qual è questo schema? Tutti coloro che non hanno un approccio identitario integrale alla predicazione cattolica sono soltanto dei relativisti e quindi dei nichilisti, cioè non credono in nulla, non sono portatori di alcun valore e sono ostaggi di quella religione che oggi imprigiona l’Europa, che è, così si dice, il “politicamente corretto”; e, dunque, negano ogni valore nel momento in cui affermano invece i diritti. Discutendo con degli interlocutori cattolici fortemente impegnati nella testimonianza della loro fede, mi è capitato di dire: attenzione a disgiungere i valori dai diritti o a fare una predicazione in cui la difesa dei diritti sia di per sé qualcosa di disancorato dai valori.
Mi limito solo a un ultimo accenno e poi chiudo su questo tema. Esiste, anche per chi non crede, per chi non ha la fortuna di credere, per chi non ha questo dono della fede, una religione civile che non è una norma inventata e imposta dallo Stato, ma è il frutto di una libera associazione tra intelligenze laiche e cattoliche, che creano un sistema di valori civili; valori che non hanno nulla di religioso, nei quali ci si può riconoscere e ai quali si può fare riferimento, qualunque sia il credo religioso e il credo politico. Questo approccio è alla base della nostra Costituzione e Andreotti, essendo un padre costituente, lo sa. Allora io credo sia prima di tutto un abuso e poi un pericolo trattare come relativisti o, peggio ancora, come nichilisti coloro che non hanno la fortuna di credere ma che si riconoscono tuttavia nella religione civile e fanno riferimento a questa religione civile come norma di comportamento, come piattaforma sulla quale instaurare un dialogo tra credenti e non credenti, tra destra e sinistra. Perché, al di là della battaglia politica, esiste un tetto – che è sopra di noi e al quale si può far riferimento – di valori condivisi. Vorrei ricordare che non a caso Croce, nei lavori della Costituente, invocò il Veni Creator Spiritus. Esiste un sentimento religioso anche nei laici quando si apprestano a metter mano alla cosa pubblica, proprio perché la religione civile può esser qualcosa che, se pure non ha quel valore di redenzione, di indirizzo di tutta una vita e di formazione di una personalità, posseduto dalla fede religiosa per chi crede, è comunque qualcosa che può dare un senso alla vita pubblica e rappresentare comunque una piattaforma di incontro di culture diverse.
Credo dunque che oggi si abusi del termine relativismo ritenendo che soltanto chi crede abbia un passo in più. Questo significa inoltre rifiutare il fatto di far parte di una società complessa e articolata, in cui, tra l’altro, bisogna prendere atto, come ha fatto la gerarchia ecclesiastica, che i cattolici sono in minoranza. Ricordo un’intervista rilasciata non più di un anno fa dal cardinal Ruini a Marco Politi sulla Repubblica. Ruini per i due terzi dell’intervista affrontò il tema dei cattolici come minoranza nel nostro Paese. Non c’è bisogno delle inchieste e dei sondaggi per dire che i cattolici sono una minoranza. Ma essere in minoranza significa anche saper essere parte, saper sviluppare dei comportamenti più reattivi rispetto al momento storico in cui si era maggioranza naturale del Paese, un Paese naturalmente cristiano. Io una volta usai col cardinal Ruini l’espressione “lottizzare la presenza cattolica”. Sapere che il cattolicesimo è anche un’agenzia culturale che si deve scontrare con un’agenzia culturale di tipo diverso, crea oggi un comportamento molto più reattivo da parte della Conferenza episcopale. E questo fa più notizia delle dichiarazioni di Confindustria o di altre importanti associazioni che si riuniscono. Non era così in passato. Io credo che Avvenire oggi sia un giornale al quale anche i laici dovrebbero fare molta più attenzione che in passato. Credo quindi che l’essere minoranza da parte della Chiesa comporti per essa anche l’essere parte attiva, reattiva, magari in misura maggiore che nel passato. Ma significa anche sapere di essere parte di un tutto.
LAURA PEREGO: Cardinal Silvestrini, questo contagio tra laici e cattolici rappresenta solo un rischio di perdita d’identità per la Chiesa o può essere un arricchimento, un confronto con la religione laica di cui parla Ezio Mauro?
SILVESTRINI: Ci sono insomma dei preti straordinari. Uno potrebbe dire che sono eccezioni, ma non credo. Ne conosco tanti altri che Politi non ha potuto incontrare e consultare, i quali, in forme meno vistose e meno conosciute, fanno un lavoro straordinario
SILVESTRINI: Dipende. Se c’è una convergenza su alcuni valori fondamentali, non è una perdita, è un arricchimento. Se invece i “laici” vogliono soltanto una soggettività totale, un “io voglio”, come spiega De Rita nel libro di Politi, la cosa non funziona. Ci sono molti laici, e noi ne conosciamo tanti, che hanno un senso di partecipazione, un comune sentire sui valori fondamentali. Ricordo che in Romagna c’erano alcuni appartenenti al Partito repubblicano che vivevano un cristianesimo laico. Non andavano a messa però avevano i valori della famiglia, della lealtà, della responsabilità, della parola data, del senso dello Stato. Essi a volte avevano qualcosa da insegnare anche ai cattolici. Quindi uno scambio, un’osmosi fra gli uni e gli altri, è un valore.
LAURA PEREGO: Due brevissimi flash del presidente Andreotti, su islam e fecondazione...
ANDREOTTI: Eminenza, in Romagna qualcuno il senso dello Stato ce l’aveva anche troppo, è questo che rende i romagnoli puri... Scherzo, naturalmente. Volevo solo accennare a due cose, ma non senza premettere che quello che ha detto prima Mauro è giustissimo. Lui stesso ha usato l’espressione “naturalmente cristiani”, espressione di sant’Agostino. Tra l’altro è d’attualità, perché le reliquie di sant’Agostino sono a Roma in questa settimana.
POLITI: Io credo che ci sia una robusta laicità di fondo nell’Italia, fra i credenti, i non credenti e i diversamente credenti, ed è una laicità del buon senso
La prima cosa che vorrei dire è sul fare battaglie per farsi contare o per non farsi contare. Noi siamo dinanzi al problema della legge sulla fecondazione artificiale. Io gli ho dedicato – faccio ancora pubblicità a 30Giorni – un articolo di Adriano Ossicini, che è anche uno scienziato e in questo campo la competenza scientifica è molto utile. Noi riteniamo, e credo che su questo non ci dovrebbero essere dubbi, che la cosa peggiore sia non avere una legislazione sull’argomento, perché, senza legge, la fecondazione artificiale si presta a commerci tutt’altro che approvabili. Io stesso ho votato la legge affermando che essa non è certamente perfetta, e che anzi va migliorata e modificata. Però la cosa peggiore era restare ancora senza una legge. Quindi io penso che dobbiamo lavorare – ma ho visto che c’è anche chi, in campo cattolico, la pensa diversamente – per vedere come si possa modificare la legge. Ci troviamo in un campo estremamente delicato, in cui dobbiamo anche rispettare il desiderio di maternità delle donne.
In passato io feci uno sforzo per evitare che si arrivasse sia al referendum sul divorzio che a quello sull’aborto. Mi trovai in minoranza tutte e due le volte. Sul divorzio in molti ambienti cattolici c’era l’illusione che l’Italia fosse d’accordo con la Chiesa. Io cercavo di essere prudente, ma ricordo che Gabrio Lombardi mi redarguì dicendo: «Voi politici vivete come i pesci rossi in una vasca, non siete a contatto con la gente». Può darsi, però poi abbiamo visto come andò a finire... E quei referendum hanno fatto del male alla stessa Chiesa, perché se oggi la Curia romana muovesse al vescovo di Calcutta un rimprovero dicendogli: «Stai più attento con i tuoi fedeli», quello potrebbe anche rispondere: «Comincia a curarti i tuoi», visto che a Roma nei referendum sopraccitati, nonostante la posizione chiara della Chiesa, il risultato fu così deludente!
Allora, credo che la cosa migliore sia trovare su questi temi – discutendo, non facendo dei soprusi – una soluzione, in modo da evitare il referendum, che, come nel passato, non si curerà del tema in quanto tale, ma finirà per dividere il Paese tra chi è per la libertà e chi è contro.
L’altra cosa cui volevo accennare è il famoso pericolo islamico. Con grande amarezza ho letto il libro di Oriana Fallaci e mi ha impressionato il fatto che abbia venduto un milione di copie. Nemmeno la Divina Commedia credo sia arrivata a tanto. La Fallaci, pur affermando di essere atea – e questo è un diritto –, vuol difendere la civiltà cristiana da questo terribile pericolo islamico. Dice di volerlo fare pur affermando che la Chiesa è un comitato d’affari e che Bernadette Soubirous ha il solo merito di aver portato il turismo a Lourdes. Ho riscontrato una grande amarezza in un ceto di persone che coltivo, con cui ho da tanto tempo dei rapporti. Mi riferisco a un gruppo di arabi laureati a Roma, alcuni dei quali oggi hanno anche delle posizioni di rilievo nei loro Paesi. Essi sono turbati, perché pensano che questo furore antislamico sia un indirizzo generale di tutta l’Italia. Credo che l’islam non sia un pericolo. Certamente non sono così stupido da non vedere quello che sta accadendo, da sottovalutare la situazione. Però penso che il problema debba essere affrontato in maniera completamente diversa, senza questo fondamentalismo che non solo è micidiale ma va anche contro tutta una nostra tradizione italiana. Anche sul concetto di terrorismo, mettiamoci d’accordo. Non è che sia terrorista solo chi spara. Le leggi razziali del ’38 ci obbligano a dare una patente di terrorista anche a chi ha voluto quel tipo di legge, che fa una cosa più grave di chi mette delle bombe. Tutto questo deve essere forse oggetto del prossimo libro di Politi e io spero di avere la possibilità di venirlo a commentare.
LAURA PEREGO: Adesso Marco Politi può tirare un po’ le fila...
ANDREOTTI: Mi riferisco a un gruppo di arabi laureati a Roma, alcuni dei quali oggi hanno anche delle posizioni di rilievo nei loro Paesi. Essi sono turbati, perché pensano che questo furore antislamico sia un indirizzo generale di tutta l’Italia. Credo che l’islam non sia un pericolo. Penso che il problema debba essere affrontato in maniera completamente diversa, senza questo fondamentalismo che non solo è micidiale ma va anche contro tutta una nostra tradizione italiana
POLITI: Non posso tirare le fila perché ci sono troppi temi. Per esempio, sul tema dei referendum, credo che giochi anche un elemento generazionale. Io mi ricordo gli sforzi di mediazione del presidente Andreotti, che non andarono a buon fine; però devo dire che io appartengo a una generazione che è felice e civilmente orgogliosa di essersi battuta e di avere vinto la battaglia perché ci fosse una legge sul divorzio e sull’interruzione di gravidanza. Ma, naturalmente, questo ci rimanda – l’aveva detto prima uno dei nostri relatori – a quello che decide veramente la gente, perché poi riguardo al referendum sull’aborto e a quello sul divorzio sono stati tanti i voti cattolici che hanno deciso in una certa maniera. Qualche settimana fa un cardinale mi ha chiesto come andrà a finire questo referendum. Io gli ho detto: «Eminenza, lo decideranno i cattolici, come al solito». Perché, come già si profila, saranno i cattolici che, insieme ai laici, bocceranno almeno tre punti di questa legge. I punti più inaccettabili. C’è la questione della manipolazione degli embrioni, che tocca ugualmente laici, cattolici o diversamente credenti; poi, a maggior ragione, quella dell’impianto dell’embrione malato, dell’obbligo della donna a portare fino in fondo l’operazione; poi quella del divieto della diagnosi prenatale. Sono punti inaccettabili, e perciò saranno respinti insieme da cattolici, laici e diversamente credenti; tanto è vero che lo stesso presidente cattolico del Comitato di bioetica, D’Agostino, in un’intervista ha già detto che almeno su questi tre punti si dovrà andare a una modifica. Però questo riguarda il dibattito politico attuale sul quale vorrei solo aggiungere una cosa. Io credo che la risposta sia già arrivata da parte di tante organizzazioni cattoliche. Essa è indicativa di un certo stato d’animo. Proprio nei giorni scorsi, sulla Repubblica, il mio giornale, è uscita una piccola serie di risposte all’interrogativo se c’è questa persecuzione anticristiana. Queste risposte che provenivano, secondo un arco molto ampio, da persone legate all’Opus Dei, ai Focolarini, all’Azione cattolica, alle Acli, erano risposte di grande prudenza e anzi di rifiuto di entrare in uno spirito di crociata. Questo non corrisponde al clima né italiano né europeo. Io credo che ci sia una robusta laicità di fondo nell’Italia, fra i credenti, i non credenti e i diversamente credenti. Ed è una laicità del buon senso.

La selezione dei brani, non rivista dai relatori, è a cura di Roberto Rotondo


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