Home > Archivio > 04 - 2003 > Tutto ciò che non è donato è perduto
LIBRI
tratto dal n. 04 - 2003

Intervista allo scrittore francese Dominique Lapierre

Tutto ciò che non è donato è perduto


Recita così un vecchio proverbio indiano che madre Teresa insegnò a Dominique Lapierre, scrittore francese, autore di best seller, che qui racconta i suoi primi viaggi. Intervista


di Pina Baglioni


Dominique Lapierre insieme alle vittime della catastrofica nube tossica a Bhopal. Grazie alla generosità dello scrittore francese oggi c’è una clinica ginecologica per i sopravvissuti che continuano ancora a subire gli effetti collaterali della contaminazione

Dominique Lapierre insieme alle vittime della catastrofica nube tossica a Bhopal. Grazie alla generosità dello scrittore francese oggi c’è una clinica ginecologica per i sopravvissuti che continuano ancora a subire gli effetti collaterali della contaminazione

Settantamila copie vendute e cinque ristampe: Dominique Lapierre ha fatto centro un’altra volta. Il suo ultimo libro, Un dollaro mille chilometri (ed. Il Saggiatore, 192 pp., euro 14,00), a due mesi dall’uscita in libreria, ha scalato i vertici della classifica dei libri più venduti in Italia. Come sempre capita, il nostro Paese ha accolto trionfalmente il celeberrimo scrittore francese che con l’Italia ha un rapporto particolare: a Roma abita la sua unica figlia e qui da noi vanta centinaia di sostenitori che da sempre apprezzano e sostengono le sue iniziative a fianco dei più poveri in India e in Bangladesh.
I supporter italiani hanno creato decine di associazioni intitolate a suo nome e da anni lo aiutano nel raccogliere fondi per alleviare le sofferenze di tanta gente. Sì, perché lui, autore di best seller da milioni di copie vendute in tutto il mondo, destina parte dei diritti d’autore alla costruzione di ospedali e allo scavo di pozzi d’acqua potabile sul delta del Gange. «Ho fatto mio il proverbio indiano che dice: “Tutto ciò che non è donato, è perduto”. Me l’ha insegnato madre Teresa di Calcutta. L’incontro decisivo della mia vita».
Una vita, quella di Lapierre, costellata di successi editoriali sin dall’inizio della carriera, quando firmava i suoi libri di carattere storico insieme col grande amico Larry Collins come Gerusalemme! Gerusalemme!, Stanotte la libertà, Il quinto cavaliere, Parigi brucia?, Alle cinque della sera.
Per poi proseguire da solo con La città della gioia, reportage che gli darà la consacrazione definitiva per il moto di commozione suscitato in tutto il mondo: “La città della gioia” è infatti il nome del quartiere più disgraziato di Calcutta. Lì Lapierre conosce l’abisso della povertà assoluta, ma anche la dignità e la serenità straordinarie di tante persone. Grazie all’incontro con madre Teresa – da cui era andato per fare un po’ d’elemosina – «ho capito che non bastava più descrivere quello che vedevo, ma che era arrivato il momento di agire, di cambiare anche in minima parte il destino di quella gente», ricorda. Impegno che viene ribadito dopo un altro clamoroso successo editoriale: Mezzanotte e cinque a Bhopal, un’inchiesta su ciò che accadde tra il 2 e il 3 dicembre del 1984 nella città al centro dell’India: la fuoriuscita di una spaventosa nube tossica da una fabbrica americana di pesticidi gestita dalla multinazionale Union Carbide. Fabbrica totalmente priva di misure di sicurezza. Ci furono trentamila morti, mezzo milione di feriti, oltre un milione di contaminati, vale a dire la più grande catastrofe industriale della storia. «Dieci volte la tragedia di New York. Ma dell’India non importa niente e nessuno» dice Lapierre. Nessuno finì in galera. Anzi i responsabili della carneficina oggi se la spassano indisturbati in Florida. Ma grazie a Lapierre oggi là c’è un ospedale ginecologico: molte donne infatti continuano ad abortire spontaneamente o a partorire bambini deformi a causa della contaminazione. Da poco lo scrittore e sua moglie hanno messo in vendita la bellissima villa a Saint-Tropez, in Provenza, il cui ricavato andrà all’“Action pour les enfants des lépreux de Calcutta”, un centro creato per curare i bimbi affetti da lebbra.
Questo suo ultimo Un dollaro mille chilometri, in realtà è il suo primo libro. Tradotto solo oggi in Italia, Dominique l’ha scritto a diciotto anni, ed è stato uno dei più grandi successi editoriali nella Francia del dopoguerra.
Il giovanissimo Lapierre, con soli ottomila franchi in tasca avuti grazie ad una borsa di studio, lascia Parigi, famiglia, amici, e vacanze dorate e s’imbarca su un cargo in partenza da Rotterdam alla volta del Messico per studiare la civiltà azteca. Nel corso della sua avventura on the road che lo vedrà attraversare Stati Uniti, Messico e Canada, vestirà di volta in volta i panni di lavamacchine, di addetto alle pulizie, di giardiniere, di giornalista e di marinaio. In un tourbillon di avventure, colpi di scena, incontri d’ogni tipo c’è un’espressione che affiora costante negli appunti di viaggio del giovane: «Quant’è bella la vita!».
Gli abbiamo chiesto di parlarci del suo ultimo libro e della sua contagiosa gioia di vivere, rimasta intatta dopo cinquantaquattro anni da quella meravigliosa esperienza.

Ciò che colpisce leggendo il suo libro è la naturalezza, la facilità con cui lei vive mille occasioni, mille incontri: vuole imbarcarsi e trova subito la nave giusta per l’America; arriva a New Orleans con soli venticinque dollari e viene accolto immediatamente da un convento di suore domenicane: là le viene offerto vitto, alloggio e lavoro. La sera va ad ascoltare musica e conosce i più prestigiosi jazzisti d’America. Questa prima esperienza così fortunata quanto ha condizionato una vita tanto “speciale” come la sua?
DOMINIQUE LAPIERRE: In maniera determinante: scoprire l’America a diciotto anni, con sessantamila lire in tasca, fu l’occasione per scoprire che il mio destino sarebbe stato quello di calcare le strade del mondo. Di incontrare le persone più diverse. E di fare del mondo il terreno di gioco della mia vita. Mi resi conto in quel viaggio che non sarei mai stato un impiegato di banca. Sarà che nel Dna della mia famiglia c’è il nomadismo: il mio bisnonno, che di cognome si chiamava Andreotti come il grande statista italiano, era nato a Tesino, un paese in provincia di Trento. Faceva lo spazzacamino e viaggiava per tutta Europa a prestare la sua opera, finché, arrivato nella città di La Rochelle, sposò una francese e insieme con lei continuò a girovagare.
Per tutto il mio viaggio non ho mai telefonato a casa. A tal proposito, questo libro della giovinezza vuole essere una piccola tirata d’orecchi ai ragazzi d’oggi, così imborghesiti, così protetti, quando viaggiano, da cellulari, carte di credito, internet: fare un viaggio ai miei tempi invece, era come andare sulla luna. Emozioni a non finire, una serie di sfide da vincere.
C’è poi un’espressione che lei, tra un’avventura e l’altra, ripete spesso: «Quant’è bella la vita!». Anche riguardo ai miracoli, lei scrive più volte di crederci moltissimo.
LAPIERRE: Grazie a Dio, tutta la mia vita è stata ed è un miracolo. A partire da un episodio capitatomi in America: una notte, a Chicago, un autista di pullman, dopo la corsa, mi offrì un passaggio in macchina per tornare a casa. Con la scusa di fare benzina, ci fermammo presso un distributore. Solo che mi lasciò lì da solo, rubandomi anche la valigia carica di appunti raccolti per la mia ricerca sugli Aztechi. Pieno di sconforto mi misi a pregare; poi, all’indomani me ne andai a messa. Dopodiché stetti al telefono otto ore di fila, cercando di rintracciare la compagnia di pullman per cui lavorava il ladro. Sfinito, col mio povero dito orami anchilosato, decisi di comporre l’ultimo numero, che miracolosamente si rivelò quello giusto. Ritrovai la casa del ladro e quello, senza fiatare, mi riconsegnò la mia valigia.
Madre Teresa di Calcutta

Madre Teresa di Calcutta

La Provvidenza mi è sempre stata accanto, forse perché non ho mai tradito l’ideale della giovinezza: avere il cuore aperto, fiducioso. È quella stessa Provvidenza che ha fatto sì che poco tempo fa sono potuto andare con mia moglie sul delta del Gange ad inaugurare quattro battelli-ospedale, con due medici ciascuno, per oltre un milione di persone dimenticate da tutti. A migliaia ci sono venuti a salutare. E ho detto loro che in un momento in cui tutti i media del mondo mostrano navi da guerra puntate verso l’Iraq, io mi sentivo l’ammiraglio di una flotta di quattro navi di pace e di amore. Ero proprio felice come lo si è sempre davanti ad un lavoro ben fatto, capace di cambiare, anche se di pochissimo, le cose. Madre Teresa mi diceva sempre: «Dominique, l’oceano è fatto di miliardi di gocce d’acqua. Ma una accanto all’altra fanno l’oceano». Tutto questo per me è come prendere le vitamine per continuare.
Colpisce, in questo suo libro, la semplicità, la mancanza di retorica con cui lei descrive, a diciotto anni, la ferocia delle differenze sociali. Soprattutto nel racconto, bellissimo, delle mamme che chiedono l’elemosina, all’entrata della cattedrale della Vergine di Guadalupe, mentre allattano i loro bambini.
LAPIERRE: Furono immagini, quelle, che mi lasciarono il segno: soprattutto in Messico la differenza tra ricchi e poveri è qualcosa di spaventoso. Basta fare pochi passi e dal paradiso si passa all’inferno senza rendersene conto. Già da quel primo viaggio decisi che avrei speso parte delle mie energie intellettuali per denunciare tanta ingiustizia. Non mi sono mai piaciute le prediche però. Ho sempre preferito descrivere fedelmente quello che mi appariva davanti agli occhi. Dare degli spunti di riflessione al lettore. Come è avvenuto nel libro La città della gioia per esempio. Mi piace raccontare storie, non fare chiacchiere del tipo “noi occidentali ci dovremmo vergognare perché ci pappiamo le risorse di tre quarti del pianeta”. Ipocrisia tipica degli intellettuali.
C’è un altro aspetto che emerge con grande naturalezza, si potrebbe quasi dire, con levità, senza essere messo a tema: la sua fede.
LAPIERRE: La fede cattolica è la mia più grande amica. Sia nei momenti di gioia sia in quelli dolorosi, di solitudine. Ogni uomo è una possibilità d’amicizia col Signore. Tale amicizia rende più forti per confrontarsi con gli avvenimenti della vita. Quando a diciotto anni mi trovai da solo a Chicago, mi sembrò la cosa più naturale del mondo andare a bussare alla porta delle suore domenicane. Mi presentai alla madre superiora dicendo: «Abbiamo un santo protettore in comune e quindi mi dovete aiutare». Naturalmente, con semplicità.
Lei ad un certo punto della sua vita, a metà degli anni Ottanta, incontra madre Teresa di Calcutta. Ci può raccontare un episodio, un ricordo anche piccolo, su madre Teresa, che l’ha particolarmente colpito?
LAPIERRE: Ricordo l’enorme impressione che mi fece questa minuscola donna col suo sari bianco bordato di blu, quando l’ho vista la prima volta. La sua sola presenza era un’onda d’amore: uno spettacolo straordinario vederla attraversare le strade di Calcutta e chinarsi a parlare con tanta povera gente che non riusciva più neanche a stare in piedi per la fame e le malattie. L’ho accompagnata tante volte. Bastava la sua presenza ad illuminare di contentezza le facce di quei poveretti. Fu per me una rivelazione. E si stabilì tra di noi un rapporto di grande ammirazione e d’amicizia. Ogni volta che andavo a trovarla mi riempiva le tasche di medagliette della Madonna. E mi diceva sempre: «Prendi, prendi, Dominique». Ho imparato da lei che la povertà riconcilia tutti: in quella situazione non ci sono musulmani, indù, cristiani. Ci sono solo uomini che lottano per la sopravvivenza e la dignità. In madre Teresa, che si muoveva solo per amore di Cristo, emergeva al tempo stesso una grande tolleranza. Lei abbracciava tutti. Alla cinque della mattina vedere madre Teresa con le sue centocinquanta piccole suore indiane ascoltare la messa, nella piccola chiesa di Calcutta, era veramente uno spettacolo meraviglioso, di fede, di bellezza. In mezzo a quell’oceano di povertà. È dall’incontro con lei, a cinquant’anni, che ho capito che tutto il mio enorme successo doveva prendere un’altra strada. Restituire ai poveri, almeno in parte, tutto quel ben di Dio che avevo accumulato. Da testimone dovevo diventare attore. E questo grazie a lei.
Sono molti anni ormai che lei vive così intensamente l’impegno per i poveri. Chi le dà la forza di continuare?
LAPIERRE: I poveri stessi. La loro dignità, l’eroismo con cui vivono. Quando mi accade di non poter andare in India per impegni vari, io e mia moglie ci sentiamo male. Quanto ci mancano! Sono loro le nostre vitamine. E stanno dappertutto: ci sono mille Calcutta, mille Bhopal. Anche da voi in Italia: non bisogna mai dimenticarli.


Español English Français Deutsch Português