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TEOLOGIA
tratto dal n. 07/08 - 2002

«Cristo è l’inizio della fine del mondo»


La teologia della storia di Gioacchino da Fiore, ripresa in chiave ortodossa da Bonaventura, segna il decisivo passaggio da Cristo riconosciuto come «fine dei tempi» a Cristo «centro dei tempi», idea estranea a tutto il primo millennio cristiano. L’attualità di uno studio di Joseph Ratzinger


di Lorenzo Cappelletti


Cristo è mostrato in posizione elevata, nello splendore della sua regalità, come Signore e legislatore del cielo e della terra. Dal mosaico absidale della basilica dei Santi Cosma e Damiano a Roma (prima metà del VI secolo)

Cristo è mostrato in posizione elevata, nello splendore della sua regalità, come Signore e legislatore del cielo e della terra. Dal mosaico absidale della basilica dei Santi Cosma e Damiano a Roma (prima metà del VI secolo)

Quando si mette a tema l’escatologia, o meglio quando, senza alcuna tematizzazione, ci si figurano le realtà ultime, anche fra cristiani si immagina, in un futuro più o meno imminente, o un’èra nuova di pace e fraternità interna alla storia o la fine, senza riferimento a Cristo, del cosmo e della storia. Questo sentire, che oggi sembra la quintessenza del sentire cristiano tradizionale, è in realtà il risultato di una svolta nella concezione cristiana della storia. Una svolta che si può far risalire a Gioacchino da Fiore, l’abate calabrese di cui quest’anno ricorre il settecentesimo anniversario della morte (31 marzo 1202).
Joseph Ratzinger, da teologo, mostrò che Gioacchino fece scuola anche perché la sua teologia della storia, emendata degli elementi eterodossi da san Bonaventura, entrò a far parte del patrimonio cristiano delle idee. Lo fece in un bel libro del 1959 tradotto in italiano dall’editore Nardini una decina d’anni fa: San Bonaventura. La teologia della storia. Ne riparliamo oggi non perché il libro sia una novità, naturalmente, ma perché ci sembrano attuali le riflessioni che contiene.
Bonaventura da Bagnoregio, che nel 1257 aveva preso il posto del generale Giovanni da Parma dimissionato e relegato a Greccio perché accusato di simpatizzare per gli spirituali, fra il 9 aprile e il 28 maggio del 1273 poco prima di essere nominato cardinale, scrive o meglio detta l’ultima sua opera, le Collationes in Hexaemeron (Paralleli coi sei giorni della creazione), in «discussione critica con l’abate calabrese e i suoi seguaci. Senza Gioacchino quest’opera sarebbe incomprensibile. [...] Bonaventura non poteva tacere su Gioacchino essendo egli ministro generale di un ordine che era quasi giunto al suo punto di rottura a causa della questione gioachimita. [...] Bonaventura non rifiuta totalmente Gioacchino (come aveva fatto Tommaso): egli lo interpreta piuttosto in modo ecclesiale, creando una alternativa ai gioachimiti radicali» (San Bonaventura, p. 15). Bonaventura rifiuta, infatti, l’idea eterodossa che il messaggio del Nuovo Testamento sia transitorio e che debba essere superato e sostituito, come ritenevano gli spirituali, dal vangelo eterno di cui sarebbe stato portatore Gioacchino. Da Bonaventura è il Nuovo Testamento che «viene designato quale testamento eterno e perciò comprendente tutto il corso restante della storia. In questo modo viene qui chiaramente accettato il fatto che il nuovo schema storico sia abbracciato da quello antico, agostiniano» (ivi, p. 64).
Ma, fatta salva l’ortodossia, Bonaventura per la sua teologia della storia sceglie il nuovo schema che Gioacchino aveva elaborato nella Concordia Veteris et Novi Testamenti.

Schema settenario
semplice e duplice
Si tratta di una opzione del tutto legittima fa capire Ratzinger (in fondo siamo nel campo della teologia della storia, non del dogma), ma tale opzione non si identifica, come potrebbe apparire a prima vista, con la tradizionale comprensione del tempo della storia, con lo schema «antico, agostiniano». L’equivoco potrebbe nascere dal fatto che non solo Bonaventura, ma lo stesso Gioacchino non hanno mai abbandonato completamente, scrive Ratzinger, la dottrina delle sei o sette età, «dato il carattere quasi dogmatico che ad essa veniva riconosciuto» (ivi, p. 216). Questa dottrina, risalente ad Agostino, consisteva molto semplicemente nel prendere a modello i giorni della creazione per dividere senza soluzione di continuità l’intera storia universale in sei/sette periodi: da Adamo fino alla fine dei tempi, fino cioè al giorno eterno settimo/ottavo della resurrezione della carne e del giudizio universale. L’età di Adamo (o di Noè); di Abramo; di Davide; dell’esilio babilonese; di Cristo; della fine; l’eternità.
Si parla indifferentemente di sei o sette età della storia (non esiste ancora «in Agostino nessuna esplicita armonizzazione tra i due schemi» [ivi, p. 51 nota 2]), perché l’idea del settimo giorno, come atto a rappresentare l’eternità, fin dall’inizio fu affiancata da quella dell’ottavo giorno, il dies dominicus, il giorno del Signore, che sembrava altrettanto se non più consona. «Finché non si trovò la soluzione nell’assioma “septima aetas currit cum sexta”» a dire che «da quando esiste la Chiesa esiste anche questa storia parallela, nascosta e gloriosa, la storia dei cieli, ed accanto al faticoso e tormentato sesto giorno, si snoda nascosto ma reale lo splendore del settimo giorno. A questi due giorni reciprocamente legati, segue poi l’ottavo giorno eterno, introdotto con la resurrezione e il giudizio» (ivi, pp. 51-52).
Proprio questa contemporaneità di sesta e settima età insieme correnti (che è in fondo un modo di esprimere quella dualità tipica della visione delle due città di Agostino) viene abbandonata da Gioacchino, e in sua dipendenza da Bonaventura, a favore di un rigido schema settenario, per di più un duplice schema settenario. Con Gioacchino, si perde proprio la flessibilità di uno schema sei/settenario semplice, rispettoso del mistero, a favore di un rigido schema settenario duplice, fondato su complicate allegorie costruite dall’uomo.
«Per Agostino lo schema tramandato delle [sei o] sette età del mondo svolge solo un ruolo molto secondario» (ivi, p. 43). Egli in realtà rappresenta «gli accadimenti terreni nel giuoco di contrapposizione tra civitas Dei e civitas terrena, tra corpus Christi e corpus diaboli; in questa dualità, che su entrambi i versanti (passato e futuro) trascende la storia umana, viene fissato l’intero corso di questa storia dell’uomo» (ivi).
Bonaventura considera questa chiave di lettura agostiniana non un paradigma di teologia della storia, ma solo il modo di far emergere i tipi, le figurae sacramentales della Scrittura, e, sulla scorta di un «pensiero tratto dalla Concordia di Gioacchino» (ivi, p. 45), fonda invece la conoscenza della storia in «una corrispondenza tra la storia dell’Antico Testamento e quella del Nuovo Testamento, che Agostino aveva non insegnato bensì decisamente rifiutato» (ivi, p. 46). Seguito in tale rifiuto, come vedremo, da Tommaso d’Aquino.
I due approcci dunque non vanno confusi, anche se utilizzano entrambi uno schema a base settenaria. «Lo schema settenario duplice va tenuto nettamente distinto dallo schema settenario semplice di Agostino e della Chiesa antica, come pure dalla teologia medievale pregioachimita, perché in esso si esprime una ben diversa consapevolezza del tempo e della storia. [...] Nello schema agostiniano Cristo è la fine dei tempi, laddove in quello bonaventuriano egli è il centro dei tempi» (ivi, p. 54). Ecco il punto. C’è da aggiungere, nota Ratzinger, che «il cristianesimo primitivo non ha mai inteso l’avvenimento di Cristo come “centro” ma sempre e soltanto come “pienezza”, cioè sostanzialmente come “fine” dei tempi. [...] Per ragioni di chiarezza sarebbe preferibile dunque lasciar cadere il concetto di centro quando si tratta di esporre il modo in cui il Nuovo Testamento e i Padri comprendevano la storia» (ivi, p. 54 nota 8).

Cristo al centro dei tempi
cioè al margine
L’idea di considerare Cristo come l’asse dei tempi risulta estranea a tutto il primo millennio cristiano. «Per questo millennio Cristo non è il perno della storia con cui un mondo mutato e redento ha inizio ed una storia irredenta durata sino a quel momento viene abbandonata; per esso Cristo è piuttosto il principio della fine. Egli è “redenzione” nella misura in cui con lui la “fine” comincia a risplendere nella storia. La redenzione consiste (da un punto di vista storico) in questa fine iniziata mentre la storia, per così dire, procede “per nefas” ancora per un certo tempo, conducendo l’antico evo di questo mondo alla sua fine. L’idea di vedere in Cristo l’asse della vicenda del mondo emerge invece propriamente [...] solo in Gioacchino» (ivi, pp. 210-211). Benché tale idea sia dissimulata dal fatto che in Gioacchino gli assi sono due e non uno, per la sua nota concezione di una terza età dello Spirito. Ma «l’esclusione di quest’ultima idea si verificò tuttavia obbligatoriamente con la vittoria della dogmatica ortodossa; restò l’altra idea; e Gioacchino divenne in questo modo, proprio nella Chiesa stessa, l’antesignano di una nuova comprensione della storia che oggi ci appare essere la comprensione cristiana in modo così ovvio da renderci difficile credere che in qualche momento non sia stato così» (ivi, p. 211). Dunque, paradossalmente, si può affermare che la comprensione cristocentrica della storia, benché legittimata fino al punto da ritenersi oggi la sola legittima, è originariamente figlia di una volontà illegittima di andare oltre Cristo.
Accanto alla accentuazione della centralità assoluta di Cristo (cfr. ivi, pp. 216-219), si fa largo in Bonaventura «un’interpretazione gioachimito-escatologica dell’ordine di Francesco» (ivi, p. 223). Confortata dalle profezie (che d’altra parte anche Tommaso riconosce essersi in qualche modo avverate) e dalla dottrina di Gioacchino riguardo all’avvento di un novus ordo, come ciò che caratterizzerà il tempo nuovo ormai prossimo.
«Nello stesso momento in cui in Bonaventura, in virtù della logica del suo pensiero, matura l’idea di Cristo come centro dei tempi e dunque l’altra idea, quella di Cristo come fine dei tempi viene rifiutata, in questo stesso momento nasce in Bonaventura la coscienza del fatto che “la fine è ora veramente vicina” [...]. Queste due linee di sviluppo si contraddicono reciprocamente solo in modo apparente. Infatti la realtà dell’attesa escatologica può acquisire un’urgenza nuova nell’istante in cui viene dissipata la mancanza di chiarezza [sull’ora della fine] che deriva dalla designazione di tutta la storia cristiana come tempo ultimo. E tuttavia questa forma di pensiero escatologico non si identifica con quella del Nuovo Testamento [...]. Viene qui infatti istituita, in certo qual modo, una nuova seconda fine accanto a Cristo, e se pure, in quanto centro, egli sostiene e mantiene tutte le cose, ciò nonostante egli non è più semplicemente quel Telos in cui tutto sfocia e in cui il mondo è condotto alla sua fine e superato» (ivi, pp. 225-226). Paradossalmente l’essere al centro di Cristo si coniuga col suo potenziale accantonamento.

Fronte del ciborio (fine X secolo), basilica di Sant’Ambrogio, Milano

Fronte del ciborio (fine X secolo), basilica di Sant’Ambrogio, Milano

Dalla vittoria di Cristo
sul mondo alla costruzione
cristiana del mondo

Ratzinger, citando il noto saggio di Erik Peterson Il monoteismo come problema politico, mostra che – benché in epoca antica e medievale sia restata sempre viva una coscienza comune della storia «che fa dire: Cristo è la fine dei tempi, la sua nascita cade alla “fine dei tempi”» (p. 193) – c’è già nell’antichità una teologia della storia a cui è possibile riconnettere il pensiero escatologico di Gioacchino. Abbandonando «la teologia pneumatica della vittoria cristiana sul mondo nel senso del Nuovo Testamento» (ivi), Gioacchino si connette infatti alla teologia imperiale di Eusebio di Cesarea «quale teologia di una costruzione cristiana del mondo» (ivi, p. 192). Tale orientamento, afferma Ratzinger «trasferisce qualcosa dello spirito teocratico del pensiero dell’Antico Testamento nella nuova epoca» (ivi, p. 193), mentre l’altro (il rappresentante più significativo del quale è Agostino) conservava, seppure con qualche trasformazione, l’eredità escatologica del Nuovo Testamento.
È un ulteriore paradosso del gioachimismo: mentre sembra che esso si lasci alle spalle il passato per guardare soltanto al futuro, si scopre che in realtà esso giudaizza. Collocandosi appieno in quella temperie spirituale della fine del XII secolo, illustrata mirabilmente da padre Chenu ne La Théologie au XII siècle (recentemente la Jaca Book ne ha ristampato la traduzione italiana), quando in mezzo a feroci polemiche antigiudaiche si giudaizzava, con quell’«aggrovigliarsi del Nuovo Testamento nell’Antico» (p. 244). «I teologi del tempo [...] fanno ripiegare in un certo senso gli elementi della nuova alleanza sull’antica [...]. La continuità delle due alleanze è utilizzata contro il senso del loro sviluppo e del cammino della storia. [...] L’Antico Testamento grava sul Nuovo. Esso esercita sulla sua interpretazione, potremmo dire, una pressione giudaizzante [...] nel curioso miscuglio di una allegorizzazione violenta dell’Antico Testamento e di un escatologismo talvolta dissolvente per il Nuovo» (ivi, pp. 238-239).

Il cristocentrismo
della Scrittura e dei Padri
In effetti l’uso invadente dell’allegoria gioca un ruolo non indifferente nella costruzione della nuova teologia della storia. Ratzinger afferma che la teologia della storia di Bonaventura non è altro che il risultato dell’«influsso esercitato dall’esegesi di Gioacchino sulla comprensione bonaventuriana della Scrittura» (San Bonaventura, p. 170).
Si capisce allora perché la critica della teologia della storia di Gioacchino da parte di Tommaso d’Aquino, che «prima di Bonaventura si era addentrato nella discussione teologica con Gioacchino» (ivi, p. 228) sia di carattere esegetico. Secondo Tommaso, infatti, fa notare Ratzinger, se si presuppone una specularità di Antico e Nuovo Testamento viene a cadere la sacrosanta ignoranza riguardo al momento della resurrezione finale, perché esso sarebbe conoscibile in base al momento corrispondente dell’Antico Testamento, come tale storicamente determinato. Per questo, secondo Tommaso, la prefigurazione del Nuovo Testamento nell’Antico non può «intendersi nel senso di un rimando del particolare al particolare, ma nel senso che il tutto rimanda a Cristo, “nel quale tutti gli esempi dell’Antico Testamento sono compiuti”. A buon diritto Tommaso si richiama a questo proposito al De civitate Dei di Agostino che ha rifiutato di applicare l’interpretazione delle piaghe d’Egitto alle persecuzioni dei cristiani, respingendo in questo modo di fatto quella forma di esegesi che sostiene l’intera teologia della storia di Gioacchino. [...] I segni e i tempi dell’Antico Testamento non rimandano a loro volta ad un analogo sviluppo temporale nel Nuovo Testamento – la qual cosa di necessità rappresenterebbe una deformazione del Nuovo Testamento sulla base dell’Antico – ma a Cristo che è pienezza e compimento dell’Antico Testamento. [...] Tommaso d’Aquino oppone alla speculazione sulla storia dell’abate calabrese il cristocentrismo della Scrittura e dei Padri» (ivi, p. 229).
Con ciò Ratzinger può affermare che la posizione di Bonaventura «coincide in fondo con la posizione tomistica, dal momento che anch’essa significa l’affermazione del cristocentrismo» (ivi, p. 231). Infatti, «se Bonaventura riprende ed afferma il parallelismo dei tempi respinto da Tommaso, a questo lo guida una tendenza molto diversa da quella di Gioacchino nello stabilire il suo computo del tempo. Se a quest’ultimo, infatti, premeva prevalentemente rendere visibile l’autosuperamento del secondo periodo in direzione del terzo, per Bonaventura si tratta, sulla base di un raffronto parallelo dei due periodi, di manifestare Cristo come il vero centro, il punto di svolta della storia» (ivi, p. 232). Intorno al cristocentrismo della Scrittura e dei Padri si realizza così una vicinanza di Bonaventura a Tommaso maggiore della distanza che li separa.
Resta che l’unicità della mediazione di Cristo non coincide col suo essere concepito al centro dei tempi. Anzi, l’unicità della mediazione di Cristo, quanto l’unicità di Dio e la sua volontà salvifica universale (cfr. 1Tm 2,1-8), sembrano tanto più salvaguardate quanto più si tiene distinta la “pienezza” dal “centro” dei tempi, in altre parole quanto più è il magnanimo finalismo della Scrittura e dei Padri ad abbracciare il cristocentrismo e non viceversa: «Fintantoché la vicenda di Cristo viene concepita come fine dei tempi tutto il tempo è tempus remedii, seppure con intensità diversa. Nel momento in cui Cristo diviene centro dei tempi, nasce anche quella nota divisione dei tempi che ad un periodo di non-redenzione e di tenebre affianca un periodo di redenzione e di luce» (ivi, p. 217 nota 6).


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