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DIPLOMAZIA VATICANA
tratto dal n. 01/02 - 2005

La Santa Sede e la libertà religiosa

Quel che è di Cesare e quel che è di Dio


Nel rispetto di una “sana laicità”, Stato e Chiesa non siano concorrenti ma interlocutori. Intervista con monsignor Giovanni Lajolo, segretario per i Rapporti con gli Stati


di Giovanni Cubeddu


SÌ ALLA LIBERTÀ RELIGIOSA. Giovanni Paolo II in occasione dell’udienza ai membri del corpo diplomatico accreditati presso la Santa Sede, il 10 gennaio  2005

SÌ ALLA LIBERTÀ RELIGIOSA. Giovanni Paolo II in occasione dell’udienza ai membri del corpo diplomatico accreditati presso la Santa Sede, il 10 gennaio 2005

Prima di volare a Washington a prendere possesso del Ministero dei Veteran affairs – affidatogli dal rieletto George W. Bush quale riconoscimento della attiva fedeltà dimostratagli anche come ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede – Jim Nicholson ha concluso lo scorso 3 dicembre il ciclo di conferenze da lui organizzate a Roma con una dedicata alla “Libertà religiosa, pietra angolare della dignità umana”. Sua eccellenza monsignor Giovanni Lajolo, segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, ha avuto qui l’opportunità di ricordare autorevolmente quanto la missione religiosa e la vocazione universale della Chiesa cattolica impegnino la Santa Sede a promuovere le grandi cause dell’uomo e della pace. E come è noto, fra i diritti umani la Santa Sede presta particolare attenzione a quello della libertà religiosa, dando il suo contributo affinché sia riconosciuto da parte degli Stati e, soprattutto, della comunità internazionale.
Nel suo annuale discorso al corpo diplomatico, il 10 gennaio il Papa non ha mancato l’occasione di rinnovare l’auspicio che sia possibile ovunque vivere liberamente la vita religiosa, rassicurando le autorità dei governi ancora sospettose: «Né si tema che la libertà religiosa, una volta riconosciuta alla Chiesa cattolica, sconfini nel campo della libertà politica e delle competenze proprie dello Stato: la Chiesa sa ben distinguere, come è suo dovere, ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio».
Ringraziamo monsignor Lajolo per aver accettato di ripercorrere con noi i punti fondamentali di quella sua relazione così attuale.
«Ricordiamo anzitutto» inizia il ministro degli Esteri vaticano «che le priorità “strategiche” della diplomazia della Santa Sede sono assicurare e promuovere le condizioni favorevoli all’esercizio della missione propria della Chiesa in quanto tale, ma anche alla vita di fede dei credenti e, quindi, al libero esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ancorati nella natura dell’uomo e, dunque, in un ordine morale oggettivo. Come ho detto nella conferenza a Roma, va tenuto a mente quanto affermò il papa Giovanni Paolo II, il 2 ottobre 1979, in occasione del suo primo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: «Il rispetto della dignità della persona umana sembra richiedere che, quando sia discussa o stabilita, in vista di leggi nazionali o di convenzioni internazionali, l’esatta dimensione dell’esercizio della libertà religiosa, siano coinvolte anche le istituzioni che per loro natura servono la vita religiosa». Anche questa, dunque, è una ragione dell’impegno diplomatico della Santa Sede a tutti i livelli.
A proposito di libertà religiosa, è importante tenere ben presente l’attività della diplomazia vaticana in sede multilaterale...
GIOVANNI LAJOLO: Nel quadro delle Nazioni Unite, l’importanza assunta da tale diritto appare evidente dalla cura con cui l’Onu ne ha favorito la maturazione e la specificazione. È noto che la libertà religiosa è stata riconosciuta nell’articolo 18 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” [«Ognuno ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto comprende la libertà di cambiare la propria religione o credo e la libertà, da solo o in comunità con altri, e in pubblico o in privato, di manifestare la propria religione o credo nell’insegnamento, nella pratica, nel culto e nell’osservanza», ndr]. Tale diritto è stato successivamente ripreso nel “Patto internazionale sui diritti civili e politici” del 1966, e la sua applicazione è stata sviluppata, tra l’altro, nella “Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme di intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o sul credo”, adottata il 25 novembre 1981. Ormai, l’Onu affronta tale tema con periodicità regolare, sia a New York che a Ginevra, dove la Santa Sede ha i propri rappresentanti, con rango di nunzi apostolici e status di osservatori permanenti. A New York, l’argomento è discusso ogni anno, in seno al Terzo comitato dell’Assemblea generale. La Santa Sede interviene formalmente sulla questione, mentre partecipa in modo informale ai negoziati concernenti la risoluzione sulla libertà religiosa.
Da un po’ di tempo al Palazzo di Vetro si pronostica un maggiore impegno internazionale delle organizzazioni religiose. Che ne pensa?
LAJOLO: All’Onu s’è prestata particolare attenzione ad un progetto di risoluzione, presentato dalle Filippine, circa la cooperazione fra le Nazioni Unite e le religioni. La Santa Sede si è dichiarata disponibile ad una tale cooperazione, a condizione, però, che non s’interferisca in questioni d’interesse specifico per il dialogo interreligioso, in quanto esse sono, e debbono rimanere, di esclusiva competenza dei leader religiosi.
Sempre in ambito di impegno multilaterale della Santa Sede, non va taciuto quello profuso nell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, l’Osce, che è a torto meno noto…
LAJOLO: Mi si consenta solo di rilevare che forse non è stato messo adeguatamene in luce l’influsso che il processo di Helsinki – di cui erano parti attive anche i Paesi al di là della cortina di ferro – ha avuto nella preparazione della svolta storica del 1989, proprio per la difesa dei diritti fondamentali dell’uomo, et prae primis della libertà religiosa. I suoi principi restano comunque validi ed impegnativi in tutta la vasta area territoriale coperta dall’Osce, succeduta alla Csce.
Può dirci qualcosa di più circa i precedenti?
LAJOLO: Nel 1975, gli Stati firmatari dell’Atto finale di Helsinki adottarono il cosiddetto decalogo che, tuttora, guida le relazioni fra gli Stati membri. E grazie in particolare all’azione della Santa Sede, il VII principio di tale decalogo annovera espressamente la libertà religiosa fra i diritti umani che gli Stati si sono impegnati a rispettare, per assicurare pace e sicurezza ai propri cittadini. Nelle successive riunioni sull’argomento, la Santa Sede fu sempre un punto di riferimento, perché si presentava come portatrice di interessi religiosi generali e non soltanto confessionali cattolici. Impegno particolare della delegazione della Santa Sede fu di ottenere un’ampia descrizione del contenuto della libertà religiosa. Al proposito vale la pena di ricordare che il 1° settembre 1980, alla vigilia della Conferenza della Csce a Madrid, papa Giovanni Paolo II inviò ai capi di Stato o di governo dei Paesi membri un documento proprio sul valore e sul contenuto della libertà di coscienza e di religione. Ciò contribuì in modo rilevante alla riflessione della Csce in tale campo, e ha trovato riflesso nel paragrafo 16 del documento conclusivo della Riunione di Vienna del 1989, dove si afferma che la libertà religiosa comporta per le comunità religiose una lunga serie di diritti davvero essenziali.
DIPLOMAZIA MULTILATERALE. Monsignor Giovanni Lajolo, al centro nella foto, e, a sinistra,  monsignor Celestino Migliore, nunzio apostolico, osservatore permanente all’Onu

DIPLOMAZIA MULTILATERALE. Monsignor Giovanni Lajolo, al centro nella foto, e, a sinistra, monsignor Celestino Migliore, nunzio apostolico, osservatore permanente all’Onu

Possiamo tentare di elencare alcuni dei fronti attualmente più delicati nella difesa della libertà religiosa?
LAJOLO: Con una premessa: nonostante la società di molti Paesi sembri vivere nell’indifferentismo religioso e le generazioni più giovani vengano fatte crescere nell’ignoranza del patrimonio spirituale del popolo al quale appartengono, il fenomeno religioso non cessa d’interessare e di attirare i cittadini. La Santa Sede perciò non si stanca di chiedere che, nel rispetto di una “sana laicità” – la classica espressione che risale a Pio XII – sia riconosciuta la dimensione pubblica della libertà religiosa. L’argomento è stato sollevato più volte dalla diplomazia pontificia, non soltanto in occasione del recente dibattito sulle radici cristiane dell’Europa, ma anche in relazione ad alcune legislazioni nazionali. Il 12 gennaio del 2004 lo stesso Santo Padre si è espresso in questo senso, e ricevendo il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede ha ricordato come un sano dialogo fra lo Stato e le Chiese – che non sono concorrenti ma interlocutori – possa, senza dubbio, favorire lo sviluppo integrale della persona umana e l’armonia della società.
Tra i pericoli odierni per la libertà religiosa, alla conferenza di Roma lei aveva incluso quello degli Stati che negano riconoscimento legale alle realtà religiose. Al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il Papa ha voluto ricordare in gennaio che «la libertà di religione resta in numerosi Stati un diritto non sufficientemente o non adeguatamente riconosciuto».
LAJOLO: Il riconoscimento legale della libertà religiosa è un problema non marginale. Posto che questa libertà è un diritto fondato sulla natura stessa della persona umana e che, di conseguenza, precede il riconoscimento espresso dell’autorità statale, la registrazione delle comunità religiose non può essere considerata quale prerequisito per godere di tale libertà. Quando la registrazione delle comunità religiose è richiesta per il pieno godimento e per l’effettivo esercizio del diritto alla libertà religiosa, essa non potrà essere negata da parte delle autorità statali, purché – ovviamente – sussistano quelle condizioni generali di base, richieste dagli standard internazionali.
E se si ammette la libertà di religione, si ammette anche il diritto di mutarla…
LAJOLO: A livello multilaterale, la Santa Sede ha sottolineato più volte che la libertà religiosa implica, in campo civile, anche il diritto soggettivo di cambiare la propria religione. Questo specifico diritto è oggetto di particolare attenzione nei rapporti bilaterali con Paesi nei quali è riconosciuta costituzionalmente una religione di Stato.
Come ho già ricordato, la stessa Dichiarazione universale afferma che la libertà religiosa «include la libertà di cambiare la propria religione o credo»; inoltre, vari documenti internazionali si sono espressi nello stesso modo.
Va qui menzionato il “Commento generale 22” del Comitato dei diritti umani, relativo all’articolo 18 del Patto dei diritti civili e politici, nel quale è scritto che «la libertà di avere o di adottare una religione o un credo, include necessariamente la libertà di scegliere una religione o un credo e di sostituire quello in cui attualmente si crede con un altro, oppure di assumere una concezione atea». Ho scelto questo documento, perché interpreta autenticamente l’articolo18 e ha valore vincolante per gli Stati parte del succitato Patto.
Libertà religiosa e “tolleranza”: come si rapportano tra di loro?
LAJOLO: Senza entrare in una disquisizione approfondita, va detto che “tolleranza” è un concetto alquanto riduttivo e, in qualche modo, equivoco. Talvolta la comunità internazionale e alcune sue organizzazioni tendono a collocare la libertà religiosa “sotto l’ombrello” della tolleranza. Penso, in modo particolare, all’Osce e all’attenzione che, da qualche tempo, detta organizzazione riserva al tema in oggetto, nell’ambito della sua cosiddetta “dimensione umana”.
Al riguardo, la Santa Sede ha ricordato più volte quanto è affermato da un altro documento internazionale per cui essa si è alacremente impegnata: mi riferisco alla Dichiarazione dell’Unesco sulla tolleranza del 1995. Essa specifica che tolleranza non significa «rinuncia o indebolimento dei propri principi», ma piuttosto «libertà di aderire alle proprie convinzioni ed accettazione che altri possano fare altrettanto». Coloro che vivono con coerenza la propria convinzione religiosa non possono, in quanto tali, essere considerati intolleranti. Lo diventano se, anziché proporre le proprie convinzioni ed esprimere eventualmente rispettosa critica a quelle diverse, intendono imporre le proprie ed esercitano pressioni, aperte o surrettizie, sulla coscienza altrui.
D’altra parte, non è contraria alla tolleranza la previsione di una disciplina giuridica differenziata delle confessioni, purché sia garantita l’identità e la libertà di ciascuna di esse. Di per sé, nemmeno il riconoscimento di una religione di Stato viola i diritti umani. Naturalmente, tale regime non deve pregiudicare l’effettivo e pieno godimento di uno qualsiasi dei diritti civili e politici delle minoranze religiose. In questo senso, è utile ricordare ancora che il “Commento generale 22” del Comitato dei diritti umani ha sottolineato che, per il principio della non discriminazione a motivo della religione o del credo, l’autorità statale non deve limitare l’accesso a servizi e a uffici statali ai soli fedeli della religione maggioritaria o ufficiale.
Concludendo il suo intervento romano lei sollevò una questione preliminare: esiste uno Stato in cui la Chiesa possa dire che la libertà religiosa è così pienamente realizzata che essa con la libertà che le è propria – la libertas Ecclesiae – è sotto tutti gli aspetti garantita?
LAJOLO: Se la risposta volesse essere proprio esatta, non potrebbe essere positiva, senza riserve. Anche negli Stati in cui la libertà di religione è presa molto sul serio ed in cui la Chiesa può dirsi ragionevolmente soddisfatta, v’è sempre qualcosa che non risponde adeguatamente alle sue esigenze: in un Paese, per esempio, non è riconosciuta la specificità di alcune sue istituzioni fondamentali (per quanto riguarda, ad esempio, la struttura gerarchica); in un altro non è dato il dovuto riconoscimento al matrimonio canonico; in un altro il sistema scolastico non è sufficientemente rispettoso del diritto dei genitori ed ancor meno di quello proprio della Chiesa; in un altro ancora il regime fiscale non tiene conto delle finalità propriamente sociali delle istituzioni della Chiesa.
DIFESA DEGLI INTERESSI RELIGIOSI DI TUTTI.
Sopra, Giovanni Paolo II in occasione del suo primo 
discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 2 ottobre 1979; sotto, il cardinale Agostino Casaroli 
firma il Trattato di  Helsinki, il 1° agosto 1975

DIFESA DEGLI INTERESSI RELIGIOSI DI TUTTI. Sopra, Giovanni Paolo II in occasione del suo primo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 2 ottobre 1979; sotto, il cardinale Agostino Casaroli firma il Trattato di Helsinki, il 1° agosto 1975

In tali Stati, nonostante questa o quella particolare limitazione, la Chiesa tuttavia può dire di godere quasi sempre di sufficiente libertà, alla pari delle altre confessioni religiose. Ed essa sa accettare certe limitazioni, nella consapevolezza del suo essere pellegrina, in statu viae, compagna e solidale di ogni homo viator che cerca, consapevolmente o meno, il volto di Dio.
La libertas Ecclesiae, la libertà che è ad essa intrinseca, è in ogni caso più forte di ogni possibile limitazione che venga ad essa imposta, perché deriva dal mandato di Cristo ed ha il profondo e vasto respiro dello Spirito: è la libertà di quell’amore che l’abita – così antico e sempre nuovo – per l’uomo, che è immagine viva di Dio.
Eccellenza, dal 3 al 6 gennaio scorso, lei si è recato in un paese islamico, la Tunisia….
LAJOLO: Tra i paesi del Maghreb la Tunisia è forse il più aperto a criteri normativi “europei” di libertà religiosa. Va ricordato che la comunità cattolica tunisina è davvero minuscola, 20mila fedeli, pressoché tutti stranieri, in una popolazione di circa dieci milioni di abitanti. In Tunisia, la libertà della Chiesa è però essenzialmente di culto: libertà religiosa intra muros.
Nei colloqui politici ho notato l’attenzione che i governanti danno alla figura del Santo Padre e ai suoi messaggi, all’opera di pace e umanitaria della Santa Sede. Essi riconoscono il ruolo positivo svolto dalla Chiesa cattolica e dalle sue istituzioni nel Paese, nell’ambito loro concesso, e mostrano una buona attitudine al dialogo.
Possiamo dire che sant’Agostino è stato all’origine del suo viaggio…
LAJOLO: L’esposizione su sant’Agostino [“Saint Augustin, africanité et universalité”, allestita nell’ex Cattedrale di Cartagine, sull’Acropolium, dal 15 dicembre 2004 al 10 gennaio 2005, ndr] è stata favorita dal ministro degli esteri tunisino Abdelbaki Hermassi, già quando era al dicastero della Cultura, e il nuovo titolare, Mohamed Aziz Ben Achour, è stato pure attivamente a favore dell’iniziativa. In Tunisia mi ha colpito un certo senso di fierezza per Agostino, questo grande padre della cristianità e dell’umanità che ha speso a Cartagine – oggi una cittadina alla periferia di Tunisi – gli anni decisivi della sua formazione che ai nostri giorni chiameremmo “universitaria”, e che, dopo essere tornato dall’Italia nella sua terra, come vescovo di Ippona si recava frequentemente a Cartagine per i concili provinciali dei vescovi.
Agostino è in un certo senso “conteso” tra Algeria e Tunisia, essendo nativo di Tagaste e poi vescovo di Ippona, cittadine entrambe situate nell’attuale territorio algerino; ma sarebbe antistorico coartarne la figura dentro confini politici attuali. Agostino è un santo tanto africano – era un berbero, pare: «Afer sum» diceva di se stesso – quanto romano… e anzi europeo. Sant’Agostino è una figura che unisce: veramente cattolica.


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