I CATTOLICI AFROAMERICANI
Storia di una fedeltà non comune
Note sui black catholics in una conversazione con Jamie T. Phelps dell’Università della Louisiana
Conversazione con Jamie T. Phelps di Giovanni Cubeddu
![Un momento della tradizionale benedizione del fiume Mississippi [© Magnum/Contrasto]](http://www.30giorni.it/upload/articoli_immagini_interne/01-06-07-011.jpg)
Un momento della tradizionale benedizione del fiume Mississippi [© Magnum/Contrasto]
I cattolici di colore negli Stati Uniti, i black catholics, sono i protagonisti di una storia dimenticata che vede persone toccate dalla fede conquistare pian piano un’identità anche di fronte alla storia e alla cultura. È la storia di una fedeltà non comune alla Chiesa, nonostante l’imposizione di una generale invisibilità rispetto sia agli altri cattolici sia ai protestanti. Gli Stati Uniti sono un Paese wasp, bianco, anglosassone e protestante, dove vivono più protestanti che cattolici, e noi neri cattolici ci sentiamo messi ai margini: anche molti correligionari non conoscono esattamente la nostra vicenda. Da bambina, non lo dimentico, quando confessavo la mia fede davanti ad altri cattolici, capitava che mi rispondessero: «Beh, però tu dovresti essere protestante...». Esisteva, infatti, una certa consuetudine per cui un nero che s’avvicinasse a una parrocchia cattolica veniva “inoltrato” alla comunità protestante, ed era un tempo nel quale si forniva un’interpretazione rigida dell’extra Ecclesiam nulla salus. Insomma, pativamo una doppia marginalizzazione.
Naturalmente, come black catholic, se ti trovi a vivere in una comunità cattolica strutturata, ad esempio irlandese, finisci per festeggiare il giorno di San Patrizio, per imparare i balli degli irlandesi e assorbirne tutta la cultura. Così è successo anche a me, che via via ho assorbito un po’ di cattolicesimo dagli italiani – per la festa della Tavola di san Giuseppe –, dai polacchi, dai tedeschi, e così via… e tutto ciò semplicemente andando a scuola.
Minoranza “non irrilevante”
È stato solo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso che abbiamo iniziato a voler cambiare l’impressione negativa che gli altri avevano di noi. Abbiamo pensato che, in quanto comunità, avremmo dovuto darci un nome, e sentirci in pace con il colore della nostra pelle, anzi esserne fieri. E poi abbiamo anche riscoperto che le nostre radici erano salde nel cristianesimo dei primi secoli nell’Africa del nord. Dovevamo recuperare questa storia.
In questo sforzo i numeri ci hanno aiutato. I cattolici d’origine africana nel mondo sono oggi 270 milioni, cioè circa un quinto dei cattolici di tutto il globo. E 3 milioni di cattolici afroamericani di rito cattolico romano vivono negli Stati Uniti. C’è chi considera noi black catholics “statisticamente” irrilevanti, sebbene in alcuni Stati federali siamo una tradizione giunta alla terza o quarta generazione, come a New Orleans, a Baltimora o a Chicago. 3 milioni, su un totale di circa 60 milioni di cattolici negli Stati Uniti, rappresentano però esattamente lo stesso numero di fedeli che si trovano in Irlanda! Ci sono oggi nel Paese circa milletrecento luoghi di culto cattolici che ospitano prevalentemente gente di colore o che sono comunque riferimenti di parrocchie etnicamente miste, mentre è sconosciuto il numero di quanti di noi ricevono i sacramenti nelle parrocchie prevalentemente “bianche”. Sono afroamericani 250 sacerdoti cattolici, 380 diaconi permanenti, 300 religiose, e non esiste una contabilità certa riguardo ai fratelli laici e a chi fa volontariato nella Chiesa. E non saprei dire con esattezza quanti di noi della “diaspora africana” – preti, diaconi, religiosi e religiose o laici africani continentali, afrocaraibici o afrolatini – oggi svolgano un ministero nella Chiesa.
In cosa credono i black catholics
In che cosa credono i cattolici americani di colore? Credono in ciò in cui crede la Chiesa cattolica romana, magari con sottolineature o accenti caratteristici, come accade in ogni particolare comunità di fedeli.
In termini di pie pratiche, i black catholics sono fedeli alla preghiera quotidiana. Quando ci si imbatte in una comunità afroamericana si scopre che essa è davvero ospitale, riconosce e ama l’umanità delle persone, perché è la stessa umanità che ebbe Gesù, e nulla deve separarci da questa santità “feriale”. Noi accogliamo chiunque: ci ricordiamo bene dell’America del XIX secolo, quando le chiese per i bianchi erano separate da quelle per i neri – in linea con la cultura del tempo e con le norme di legge – e, sebbene le messe fossero celebrate per tutti secondo il rito latino, le assemblee dei fedeli erano composte su base etnica.
Documenti conciliari come la Gaudium et spes sono in profonda consonanza con la sensibilità dei black catholics. Il bisogno della Chiesa di andare verso il mondo è qualcosa che ci apparteneva anche prima del Concilio: da sempre noi invitiamo gli altri a far parte della Chiesa. I miei amici protestanti, ad esempio, m’invitano continuamente a partecipare alle loro funzioni religiose, e qualche volta accetto. Da bambina sentivo la pressione di vivere in un quartiere “ecumenico”, in cui c’erano due chiese protestanti – una presbiteriana a est e l’altra battista a ovest – e due cattoliche – una a nord e l’altra a sud. Mi toccava camminare più a lungo dei miei coetanei per andare alla messa, e ciò mi richiedeva una certa fatica. Anche perché, per giunta, non capivo bene come mai vedevo certi cattolici comportarsi in maniera molto poco cristiana e certi protestanti essere invece “molto” cristiani, e non afferravo l’interpretazione dominante dell’extra Ecclesiam nulla salus. Grazie a Dio tante cose sono cambiate da allora.
Un altro testo basilare per noi black catholics è La giustizia nel mondo, emanato dal Sinodo mondiale dei vescovi del 1971. Il mio cuore ha cantato quando vi lessi che «l’agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo». Crescendo come persone di colore, abbiamo appreso che cosa volesse dire marginalizzazione e che cosa fosse la disistima. Anche se ciò non ci ha definiti, eravamo consapevoli di quanto poco ci considerassero i gruppi culturalmente dominanti. E quando la Chiesa ci insegna di nuovo che la giustizia è un elemento centrale del Vangelo, ci conforta sapere che non è vera Chiesa quella che non cerca la giustizia. Evangelizzazione e giustizia sociale sono le nostre dimensioni quando siamo Chiesa in missione.
La vita c’interessa, e come tutti i fedeli cattolici siamo davvero contrari all’aborto, lo siamo in maniera attiva. Perché negli Stati Uniti la realtà è che il maggior numero di aborti colpisce i bimbi afroamericani.
Vorrei anche fare un accenno a proposito dell’omosessualità. La comunità nera non ha mai marginalizzato gli omosessuali: la Chiesa ci ha insegnato che la pratica dell’omossessualità è un peccato, e pur avendolo imparato sin da bambini, non abbiamo mai perso di vista l’umanità. I ragazzi omosessuali che facevano parte del nostro ambito erano benvenuti, si partecipava tutti con sincerità alla vita della comunità, da omosessuali così come da eterosessuali. E credo che la dottrina della Chiesa indichi esattamente questo.
La Chiesa c’insegna che dobbiamo avere cura dei poveri. La maggioranza dei neri americani è gente a basso reddito, e non perché siano pigri: è semplicemente la posizione loro assegnata negli Stati Uniti. È facile per noi obbedire a tale precetto, perché spesso il povero è nostro fratello, nostra sorella, nostra zia o l’uomo in fondo alla strada. Noi non siamo persone che fanno abitualmente valere le proprie parentele: se tu vivi nel quartiere, per me sei un fratello o una sorella; quando una famiglia programma un picnic, già sa che verranno tutti i bambini del vicinato. Ecco, siamo facilmente una famiglia allargata… Ed è naturale che tra gli insegnamenti della dottrina sociale quello della dignità delle persone abbia risonanza nel nostro animo.
![Padre Herbert Vaughan, fondatore della Società Missionaria di San Giuseppe di Mill Hill, seduto al centro della foto, con alcuni padri missionari e collaboratori. In prima fila, con il rosario in mano, sono riconoscibili due afroamericani, Baltimora, 1870 [© Archivio Mill Hill Missionaries]](http://www.30giorni.it/upload/articoli_immagini_interne/02-06-07-011.jpg)
Padre Herbert Vaughan, fondatore della Società Missionaria di San Giuseppe di Mill Hill, seduto al centro della foto, con alcuni padri missionari e collaboratori. In prima fila, con il rosario in mano, sono riconoscibili due afroamericani, Baltimora, 1870 [© Archivio Mill Hill Missionaries]
Arriviamo ora alle radici. La nostra storia comincia in Africa, col fiorire del cristianesimo nel III e IV secolo. Nel Nord Africa la comunità cristiana era culturalmente romana e mediterranea, ma anche berbera e nera. E sono “nostri” i Padri come Origene, Agostino, Cirillo d’Alessandria, le sante martiri Perpetua e Felicita, sant’Antonio d’Egitto, san Mosè il Monaco del deserto, i santi papi africani Vittore, Melchiade e Gelasio: li reclamiamo con grande orgoglio, li sentiamo parte di noi. Come sentiamo nostra la storia della Chiesa in Egitto o in Etiopia. Noi ricordiamo pure il Congo del XVI secolo, sotto il re Alfonso, che invitò i missionari portoghesi a diffondere il cristianesimo. Essi però furono in qualche modo contigui al commercio degli schiavi, e questo è il lato amaro della vicenda, in cui il male s’affiancò al bene. Sappiamo però che, anche se ci hanno stimati meno di quanto valevamo, ci hanno dato la fede.
In realtà, poiché siamo stati lungamente schiavi, si possono ritrovare sparsi un po’ dovunque cattolici romani d’origine africana. Lo furono, per esempio, Benedetto il Moro in Italia, e san Martino di Porres in Perù. Probabilmente molti di questa “diaspora” non si riconoscerebbero nella definizione di black catholics, e comincerebbe tra noi una discussione – come capita ad esempio con gli afrocaraibici – sui limiti del concetto e sulla sua inclusività. Perché se a un africano continentale io mi dichiarassi afroamericana metterei l’accento sulle nostre differenze, mentre se mi definissi semplicemente “nera” punterei sulla nostra comune indiscutibile origine africana, e “nero” diventerebbe così una bella parola di benvenuto…
Secondo la storia dei black catholics redatta dal benedettino Cyprian Davis, il primo cattolico afroamericano è stato Esteban, uno schiavo battezzato in Spagna che arrivò negli Stati Uniti nel 1536 assieme ad alcuni esploratori di lingua spagnola. Tra il XVI e il XIX secolo i battesimi nella Chiesa cattolica degli schiavi africani condotti nelle colonie venivano amministrati con l’assenso dei padroni. Coloro che fuggivano dagli insediamenti inglesi in Carolina e in Georgia erano invitati dagli spagnoli a trovare la libertà in Florida, dove veniva loro offerta la possibilità di accettare il cattolicesimo romano. Una delle mete degli africani era la città di Saint Augustine, in Florida appunto, dove, tra il XVIII e il XIX secolo essi, secondo le testimonianze di documenti ufficiali, vivevano come schiavi, liberti o soldati.
Prima della Guerra civile americana furono numerose le ragioni che impedirono un’ampia attività missionaria a favore dei neri, liberi o schiavi, affinché fossero evangelizzati e battezzati. Noi siamo stati convertiti “uno ad uno”. Non per gruppi o come comunità: noi non abbiamo avuto alcuna applicazione del cuius regio eius religio. L’aggravante era, semmai, che negli Stati Uniti essere cattolici destava immediatamente sospetti. La “fondazione” dello Stato – uso intenzionalmente le virgolette perché l’America era già abitata dai nativi – fu opera degli wasp, e i cattolici che migravano in America erano malvisti e considerati emissari del Papa con il mandato di soffocare l’autonomia conquistata rispetto all’Europa. Per non irritare ulteriormente i bianchi anglosassoni protestanti, che erano anche gestori della tratta dei neri, la Chiesa cattolica fu riluttante nel denunciare la schiavitù, al fine di non compromettere la propria reputazione con l’assumere una posizione antitetica all’ordine costituito.
Il cattolicesimo, arrivando negli Stati Uniti con le varie etnie degli immigrati, ha attecchito grazie a irlandesi, tedeschi, polacchi, lituani e così via. Ogni etnia portava con sé i propri sacerdoti e rispettava il modello già stabilito di “segregazione culturale del ministero”. Un residuo ancora visibile di questo fenomeno è la presenza agli angoli di certe piazze delle città americane di quattro differenti chiese cattoliche, una per etnia. Così, da un certo punto di vista, l’emergere successivo di una comunità specifica di black catholic s è stata coerente con lo schema.
La schiavitù e “le congregazioni di colore”
Ma si deve ammettere che la relazione del cattolicesimo con chi era di colore è stata un po’… complessa. Dal XVI al XIX secolo, vescovi, clero e laicato cattolici hanno interpretato la schiavitù come “un’istituzione socioeconomica legale”. Nel periodo coloniale precedente alla Guerra civile americana la Chiesa non combatteva la schiavitù, come ho già detto, ma chiedeva che fosse resa più umana. Fu solo nel 1839 che papa Gregorio XVI, riferendosi al Brasile, condannò l’«indegno commercio con il quale i Negri vengono ridotti in schiavitù». Il dibattito del XIX secolo si focalizzò sulla dimensione morale della tratta degli schiavi e il risultato fu che alcuni rimasero neutrali, altri abolizionisti, altri ancora antiabolizionisti, mentre qualcuno auspicò un’abolizione graduale. Ciononostante esistevano qua e là vescovi e sacerdoti che continuavano, anche se in modo talvolta necessariamente sporadico, a battezzare gli schiavi e a dare loro la vita sacramentale e l’istruzione religiosa. Prima della Guerra civile fu favorita dall’episcopato la fondazione di due “congregazioni di religiose di colore” per dare istruzione agli schiavi e ai liberti, aggirando il divieto legale in proposito. Il vescovo di Charleston, in South Carolina, John England, e il vescovo di Saint Louis, Peter Kenrick, eressero scuole specificamente dedicate ai bambini di colore e aiutarono la nascita delle congregazioni religiose delle Sorelle Oblate della Provvidenza, a Baltimora, erette nel 1829 e riconosciute ufficialmente nel 1831, e, qualche anno dopo, delle Sorelle della Sacra Famiglia.
Ma che cosa significa esattamente “congregazione di religiosi di colore”? Sia le leggi allora vigenti sia la prassi facevano sì che quando uomini e donne di colore si candidavano alla vita sacerdotale o religiosa semplicemente non venissero accettati. Non v’era una norma nell’ordinamento canonico che li respingesse, ma la pratica era che si manipolasse la situazione per tenerli fuori, rimediando qualche motivazione che suonasse legittima: magari perché erano figli di un matrimonio non canonico, o perché non vi era certezza che fossero stati per tutta la vita cattolici. Gli ostacoli che in altri casi venivano normalmente rimossi erano invece assolutizzati per chi era di discendenza africana. Il frutto di ciò furono appunto le “congregazioni separate”. Di fatto, però, le Sorelle Oblate della Provvidenza accolsero e istruirono anche bambini non neri, figli di europei.
![Santa Katharine Drexel con due frati francescani tra i Navajo a Lukachukai, in Arizona, nel 1927 [© Archivio The Sisters of the Blessed Sacrament]](http://www.30giorni.it/upload/articoli_immagini_interne/04-06-07-011.jpg)
Santa Katharine Drexel con due frati francescani tra i Navajo a Lukachukai, in Arizona, nel 1927 [© Archivio The Sisters of the Blessed Sacrament]
Dopo la Guerra civile e nel momento della ricostruzione dello Stato federale, una nuova attenzione verso gli ex schiavi emerse nel secondo (1866) e nel terzo (1884) Concilio plenario di Baltimora, e nel Concilio Vaticano I (1870). I dibattiti che vi si tennero resero gli Stati Uniti consapevoli dei propri obblighi, mentre un piccolo numero di sacerdoti diocesani e di religiose lavorava già tra i neri emancipati. Le principali congregazioni dedite al ministero tra i neri vennero erette dopo il Vaticano I, e comunque anche sacerdoti, religiose e laici “bianchi” dettero manforte. Tra queste nuove congregazioni si distinsero i padri Giosefiti – Josephite Fathers, una diretta discendenza dei Missionari inglesi di Mill Hill – grazie all’iniziativa di John Slattery. John era un giovane d’origine irlandese nato a New York, che divenne sacerdote in Gran Bretagna nella Società Missionaria di San Giuseppe di Mill Hill per poi tornare in America e fondare i padri Giosefiti, che ebbero il compito specifico – oggetto di un voto religioso – del ministero tra la gente di colore. Padre Slattery era convinto, e lo si legge nel suo carteggio, che se avesse accettato nel suo istituto oltre a sacerdoti di colore anche preti di discendenza europea questi ultimi avrebbero finito per gravitare di preferenza intorno agli ambiti a loro culturalmente affini, trascurando la gente di colore. Ecco il perché del “voto negro” dei padri Giosefiti. Ancora oggi essi lavorano quasi esclusivamente con gli afroamericani. La loro scuola “Sant’Agostino” a New Orleans esiste ancora oggi e ha una storia gloriosa.
Nacquero poi la Società del Verbo Divino, i Padri del Santo Spirito e gli Edmonditi. I Padri del Santo Spirito aprirono una scuola per ragazzi a Rockcastle, in Virginia, chiamata l’“Accademia militare Sant’Emma”; la Società del Verbo Divino eresse il seminario minore “Sant’Agostino” nel Mississippi.
Delle numerose congregazioni maschili e femminili fondate per l’esclusiva missione verso i neri, molte comunque, a parte quelle appena citate, finirono presto per rivolgersi a tutti, incuranti del colore della pelle.
Fedele al mandato iniziale restò la congregazione delle Suore del Santissimo Sacramento – fondata da Katharine Drexel, canonizzata undici anni fa – la cui missione era ed è promuovere parrocchie e scuole per i neri e i nativi americani. Anche l’ateneo dove oggi io insegno, la Xavier University, in Louisiana, fu fondata da santa Katharine.
La nostra iniziativa laicale
Esiste un’iniziativa laicale dei black catholics, e merita di essere menzionata in chiusura. Essa è cominciata prima che nei documenti ecclesiastici il termine “ministero laicale” diventasse una specie di tormentone, come di certo è oggi negli States. Chi diede vita a un’iniziativa laicale fu Daniel Rudd, che scoprì e conobbe le organizzazioni cattoliche in Europa e ne importò il modello negli Usa nel XIX secolo, dando vita, a partire dal 1889, ai Congressi dei cattolici di colore, i National Black Catholic Congresses. In vita ne indisse cinque, dove vescovi, sacerdoti e laici di colore – ho in archivio le foto di quegli incontri e di donne, sinceramente, non se ne vedono molte… – provavano a disegnare una piattaforma comune, anche per avere più voce nel generale ministero ecclesiale. Era naturale che Rudd si trovasse a lavorare fianco a fianco con padre Slattery, come infatti avvenne.
All’inizio del Novecento Thomas Wyatt Turner fondò un gruppo denominato Federazione dei cattolici di colore, Federated Colored Catholics. Egli era davvero amareggiato dai continui disordini razziali e aveva assistito al linciaggio senza processo di 75 neri. Quando un sistema malato e razzista non accetta cambiamenti le eruzioni di violenza sono purtroppo da mettere nel conto. Wyatt cercò invece soluzioni costruttive e con la sua Federazione tentò di aiutare la Chiesa.
Quando negli anni Sessanta del XX secolo ci siamo trovati nella necessità di rispondere ai cambiamenti in corso nella Chiesa e a quelli introdotti dai movimenti per i diritti civili, abbiamo ripescato proprio la tradizione dei Congressi e l’abbiamo mantenuta nei decenni successivi. L’eredità del XIX secolo è rivissuta nel XX, sino alla creazione dell’Ufficio nazionale dei cattolici di colore, il National Office for Black Catholics, nel 1970. Nel medesimo alveo c’è il Catholic Interracial Council, che affianca bianchi e neri in progetti comuni. Nell’epoca della lotta per i diritti civili venne creato pure il National Black Catholic Clergy Caucus, cioè una fraternità di sacerdoti afroamericani con la missione dell’aiuto vicendevole e all’intero clero. Come aiutarci e aiutare gli altri è un’ansia che ci ha sempre accompagnato, e anche l’Istituto per gli studi sui cattolici di colore, l’Institute for Black Catholics Studies della Xavier University, ha questa passione originale. All’inizio è stato frequentato da chi, bianco o nero, volesse avvicinarsi alla storia dei black catholics; oggi è invece una destinazione ricercata per lo più dai soli afroamericani. Vorrei suggerire a chiunque arrivi negli Stati Uniti a motivo del proprio lavoro sacerdotale o religioso di visitarlo. È un centro missionario, nato per permettere proprio a chi non è di colore di venirci incontro più facilmente, e toccare con mano che cosa la comunità nera ha dato e dà alla nostra Chiesa.
(Testo raccolto da Giovanni Cubeddu e rivisto dall’autore)