Il movimento armato
Anni Settanta: movimenti giovanili di contestazione di massa e bande armate caratterizzano una stagione violenta.
Per Angelo Ventura, al di là delle contraddizioni e delle conflittualità, si tratterebbe di un unico soggetto politico: il partito della lotta armata
di Davide Malacaria

Angelo Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, Donzelli, Roma 2010, 182 pp., euro 26,00
Di libri sull’eversione ne sono usciti così tanti che è difficile approcciare una nuova pubblicazione senza essere attraversati dal timore del già letto. Il libro Per una storia del terrorismo italiano è, invece, sotto questo profilo, una felice sorpresa. Il volume di Angelo Ventura, con prefazione di Carlo Fumian, ambedue professori di Storia contemporanea presso l’Università di Padova (il primo ora emerito), s’addentra, infatti, in territori nuovi, accompagnando l’esposizione con una mole di documenti notevole.
L’analisi di Ventura si sofferma sui diversi movimenti protagonisti degli anni di piombo. Quelli di massa, come Potere operaio – che, nell’agosto del 1973, attraverso un processo di «metamorfosi», diventa Autonomia operaia – e Lotta continua, più «ambiguo e oscillante» rispetto alla scelta militarista. E poi le organizzazioni più prettamente terroristiche quali Prima linea, «principale braccio armato di Autonomia», e le Brigate rosse, che assumono un’importanza di primo piano nel terrorismo italiano quando, dopo l’arresto di Curcio e Franceschini (1974), si costituisce la Direzione strategica, «nella quale entrano anche esponenti delle “forze irregolari”, che non vivono cioè nella clandestinità, presumibilmente provenienti dal filone di Autonomia». Queste organizzazioni terroristiche hanno «una consistenza che non consente di confonderle con le infinite sigle di copertura usate per depistare gli inquirenti e per generare l’immagine artificiosa d’una presunta proliferazione spontanea di gruppi armati».
In altri studi si distingue tra i movimenti di contestazione di massa e quelli della lotta armata, nei quali le istanze rivoluzionarie sono vissute con modalità diverse, anche in aperta contraddizione. Per Ventura, invece, tra i movimenti di massa e le bande armate vi sono convergenze profonde, tanto da poter parlare di un unico «partito della lotta armata». Un partito particolare, fluido, con antagonismi e dialettiche interne anche esasperate, costituito da due distinti livelli: un livello di massa, condotto da un’élite «d’intellettuali borghesi che intendono forzare le masse sulla via della rivoluzione», e uno più ristretto, che ne rappresenta l’ala militare. Spiega Ventura: «Come quella di ogni movimento, e specie dei gruppi estremistici fortemente ideologizzati, la sua storia è intessuta di lotte di frazione, politiche e di potere, di contrasti ideologici e di rivalità personali, di scissioni e aggregazioni, ma tutti ruotanti attorno a un asse centrale politico-organizzativo e nell’ambito di una comune strategia complessiva. Ma l’elemento assolutamente originale è costituito dal principio strategico fondamentale su cui è piantato il processo del partito della lotta armata, che consiste nell’articolazione dialettica tra i diversi livelli. Ridotta al suo essenziale schema binario, l’articolazione dialettica si determina in due distinti livelli, secondo la “logica della separazione” che implica anche momenti di contraddizione: l’“organizzazione di massa” e il “partito d’attacco”. Da una parte l’“organizzazione di massa”, organismo politico-militare definito anche “base rossa”, che pratica tutte le forme di violenza legate alle azioni di massa: appropriazioni, autoriduzioni, piccoli sabotaggi, pestaggi, cortei “duri”, lanci di molotov, ecc. Dall’altra il “partito d’attacco”, definito anche da Toni Negri, certo non casualmente in uno scritto del 1974, “brigate rosse dell’attacco operaio e proletario”, al quale spetta “un’azione d’attacco, che talora può e deve essere di terrore rosso”». Il rapporto tra i due livelli di quest’unico partito è strategico: «Da una parte l’“illegalità di massa” serve a radicare nelle masse la pratica e la “coscienza” della lotta armata, e ha al tempo stesso funzione di fiancheggiamento e di vivaio per il reclutamento e l’iniziazione dei giovani da avviare per gradi sulla strada senza ritorno del terrorismo e della clandestinità. È quindi importante comprendere come l’illegalità di massa, la violenza organizzata nelle scuole, nelle università, nei quartieri e nelle fabbriche è parte integrante, funzione primaria e vitale del partito armato, non spontanea violenza sociale [...]. D’altra parte il compito del terrorismo maggiore è di trainare il movimento, aprirgli nuovi spazi colpendo gli avversari e paralizzandoli col terrore, elevare il livello dello scontro per coinvolgere gradualmente le masse nella lotta armata. Senza l’“illegalità di massa” il terrorismo sarebbe insensato, senza terrorismo l’“illegalità di massa” non potrebbe diffondersi e radicarsi». Un partito fluido, che vive e opera attraverso un processo dialettico tra diversi piani, «ai quali corrispondono diversi gradi di “maturità” e d’iniziazione», all’interno di una «contraddizione programmata, promossa e gestita con lucido cinismo dal gruppo dirigente, operante, per così dire, al grado supremo dell’iniziazione».

Milano, 14 maggio 1977, autonomi in via De Amicis
Il volume si sofferma anche sull’ideologia del partito della lotta armata, snaturamento nichilista del marxismo: il rifiuto di ogni via riformista, di ogni mediazione politica e partitica s’accompagna a un’ideologia per cui il cambiamento passa per la distruzione delle forme in cui è strutturato lo Stato e la società. Il bersaglio di questa «lotta continua», o «guerra civile permanente», non è più la borghesia o il capitalismo, ma lo Stato in quanto tale. Allo stesso tempo, la lotta non è più funzionale all’instaurazione del «socialismo, sprezzantemente rifiutato come “capitalismo di Stato”, anzi, forma estrema e più raffinata del dominio del capitale. È il capitalismo stesso che va distrutto. Toni Negri giunge a prevedere che la distruzione rivoluzionaria dello Stato dovrà rivolgersi anche contro “scienza, tecnica, macchinario, tutto l’armamentario del lavoro morto, le fabbriche esistenti”». Così da arrivare a preconizzare una «stravagante utopia del “rifiuto del lavoro”», per affermare che «“si può vivere senza lavorare, che ci si può definitivamente liberare dalla schiavitù del lavoro”». Tale concezione, secondo Ventura, è dovuta anche alla modalità di ricezione dell’ideologia marxista in Italia, che, dopo il periodo fascista, si ripropone «attraverso la mediazione idealistica crociana e gentiliana, che ne esaltava le implicite valenze ideologizzanti, condotte poi alle estreme conseguenze dagli entusiasmi del ’68». Un’ideologia irrazionale, dove la teoria giunge a identificarsi con la prassi, e dove «la forza e la violenza trovano unicamente in sé stesse la propria giustificazione». Così Ventura: «Autonomia operaia è anche ed essenzialmente questo: volontà di potenza illimitata, autonomia della prassi fondante la violenza, logica della guerra che non riconosce altra regola che la distruzione del nemico». Idee, umori di fondo, di cui, secondo l’autore, «da sempre si nutrono la cultura reazionaria e il radicalismo di destra». Tanto che Ventura parla di una convergenza oggettiva, anche negli obiettivi, con il radicalismo di destra, dal momento che anche questo lotta per la «disintegrazione del sistema». Così che Pino Rauti, leader di Ordine nuovo, arriva a ipotizzare «una strategia di lotta comune con l’estrema sinistra per “l’eversione del sistema”».

Roma, 1978, Aldo Moro prigioniero delle Brigate rosse
Libro interessante e di certa attualità, che contribuisce a rischiarare un fenomeno complesso e magmatico come quello dei movimenti giovanili degli anni Settanta, che hanno mosso tante coscienze, e hanno interessato anche parte del mondo cattolico. E a gettare luce sull’eversione armata, il cui sinistro simbolo, la stella a cinque punte, presenta nefaste similitudini con il pentacolo usato nei riti satanici.