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ARTE
tratto dal n. 09 - 2011

MOSTRE. Rembrandt e il volto di Cristo

Rembrandt commosso dal volto di Gesù


Il grande artista olandese dipinse una serie di “ritratti” del Signore, facendo posare come modello un ebreo di Amsterdam. Per essere il più possibile vicino al vero. Per la prima volta queste opere, spesso poco considerate dalla critica, sono state radunate in una mostra bellissima che dopo Parigi è approdata negli Stati Uniti


di Giuseppe Frangi


<I>La cena in Emmaus</I>, 1648, Rembrandt, Museo del Louvre, Parigi

La cena in Emmaus, 1648, Rembrandt, Museo del Louvre, Parigi

 

Nel luglio del 1656 Rembrandt sull’orlo della bancarotta si era deciso a mettere all’asta tutti beni conservati nella grande casa di Jodenbreestraat. Come da procedura il 24 e 25 di quel mese venne realizzato l’inventario a cura della Desolate Boedelskamer di Amsterdam. Un inventario lunghissimo, nel quale a un certo punto vengono elencate tre tavole rappresentanti il volto di Cristo. Una in particolare viene definita in questi termini: «Cristus tronie nae’t Leven». Letteralmente: «Testa di Cristo dal vero». Che cosa indicava quella specifica “dal vero”? Il primo studioso che nel 1834 pubblicò quell’inventario, pensò si trattasse di una svista del magistrato olandese, e non trovò di meglio che far finta di niente e sopprimere quella dicitura. Due anni dopo, un osservatore attento notò quella censura e per risolvere l’enigma ne propose un’interpretazione decisamente forzata: “a grandezza naturale”. Ma in olandese quel “nae’t leven”, contrazione di “naar het leven”, non lascia spazi ad ambiguità: significa “preso dal vero”, cioè da modello vivente. Perché l’anonimo inventarista aveva sentito la necessità di quella precisazione, quasi si trattasse di un tratto identificativo di quella serie di piccole teste di Cristo? Per rispondere a questa domanda il Louvre e i musei di Philadelphia e Detroit hanno messo insieme le forze per organizzare una delle più straordinarie mostre di questi anni recenti. La mostra che a Parigi era intitolata Rembrandt e la figura di Cristo – e che nelle due tappe americane di Filadelfia (fino al 30 ottobre) e Detroit (da novembre a febbraio 2012) ha un titolo molto più diretto: Rembrandt e il volto di Cristo – è accompagnata da un bellissimo catalogo, pubblicato per altro da un editore italiano (Officina Libraria, in vendita a 37 euro su Amazon.it).

Il cuore della mostra, che ha radunato alcuni capolavori assoluti come le varianti che Rembrandt dipinse sul soggetto della Cena di Emmaus, è costituito dalla sala dove le tre teste citate nell’inventario sono state riunite ad altre quattro, tutte su tavola, che la critica nel tempo ha rintracciato. Che questi quadri avessero un’importanza particolare per il pittore lo dimostra il fatto che due di essi, secondo l’inventario, risultavano appesi nella sua camera da letto: ma questo non è bastato per convincere la critica della loro autografia. Così il Rembrandt Research Project, un’istituzione che nell’immensa massa di opere riferite al maestro olandese è chiamata a “certificare” quelle sicure di sua mano, aveva espunto le sette tavole dal catalogo. Ora il lavoro della squadra di critici, supportato anche dalle analisi scientifiche effettuate sulle opere, è giunto a garantire l’autografia di quattro di queste Teste, lasciando per le altre un’attribuzione «all’atelier di Rembrandt». Ma nel frattempo si sono aggiunte anche un paio di copie che certamente documentano altrettanti originali perduti. Segno che per Rembrandt questo era un soggetto di grande importanza e che in tanti glielo chiedevano.

Ma qual è il motivo di un così sottile ostracismo della critica verso queste opere? Certamente c’entra quel “nae’t leven” che ha lasciato interdetti gli studiosi per tanto tempo. Rembrandt viveva in una società ormai solidamente protestante, in cui anche la concezione dell’arte era profondamente cambiata. Decenni prima, nel 1566, il conflitto con il cattolicesimo era sfociato in una violenta campagna iconoclasta, con la distruzione di tantissime opere nelle chiese dei Paesi Bassi. A sud della Schelda i cattolici avevano ripreso il controllo della situazione, tornando a riempire le chiese di Anversa grazie all’energia fluviale di Pieter Paul Rubens; al nord, invece, la storia era cambiata per sempre. Gli artisti si erano dirottati su scene di genere, alimentando un mercato che non aveva più grandi committenti ma una nuova classe di ricchi compratori. I soggetti religiosi si erano molto rarefatti, con una netta prevalenza di scene dell’Antico Testamento. Quanto all’immagine di Gesù, era al centro di un dibattito acceso: uno degli allievi di Rembrandt, Jan Victors, aveva addirittura sostenuto che c’era un rischio di “idolatria”.

<I>Testa di Cristo</I>, 1648 circa, Rembrandt, Museum Bredius, L’Aia, Paesi Bassi

Testa di Cristo, 1648 circa, Rembrandt, Museum Bredius, L’Aia, Paesi Bassi

Rembrandt in questo contesto si mosse invece in assoluta libertà. Certo, la sua produzione era a circolazione privata se non addirittura per sé stesso. Ma è evidente che lui sentisse un bisogno profondo, quasi insopprimibile, di confronto con la figura di Cristo. L’esperienza di Caravaggio, che aveva sottratto le rappresentazioni della vita di Gesù dalla prospettiva idealistica e lo aveva riportato in un orizzonte di credibilità realistica, gli aveva fornito una sponda essenziale. Rembrandt va oltre su quella strada, facendo i conti con il contesto in cui si trova ad agire. Era molto attento alle fonti per i particolari concreti che potevano fornire. Aveva studiato la storia di Flavio Giuseppe, come dimostra un’incisione del 1659, San Pietro e san Paolo alla porta del Tempio, in cui l’edificio è disegnato seguendo le indicazioni tratte dalle Antichità giudaiche.

Il “nae’t leven” di cui parla l’inventario suggerisce, in questo senso, un elemento essenziale. Rembrandt, come scrive Lloyd DeWitt, uno dei curatori della mostra, cercò un modello nella comunità ebraica di Amsterdam, un po’ per sancire i buoni rapporti che lo legavano a quella comunità ma soprattutto per avere davanti un tipo umano «etnograficamente vicino a Cristo». Questo rappresentava «un rifiuto sia degli stereotipi iconografici sia dell’idolatria, attraverso il realismo». Non è un caso che la mostra e le relative scoperte siano state ampiamente sottolineate dalla stampa israeliana. In particolare dal quotidiano Haaretz che ha pubblicato un articolo dal titolo molto significativo: Rembrandt’s Jewish Jesus.

Secondo un altro critico, Willem Adolph Visser’t Hooft, «a prima vista, il ritratto sembra quello di un rabbino, il più profondo e delicato possibile. Ma si avverte subito che c’è un qualcosa di misterioso. Questo Cristo è lontano dall’impressionarci per la sua maestà. Al contrario è “senza forma né bellezza”, non “alza la voce”». In queste sottolineature c’è la sostanza delle immagini di Cristo dipinte da Rembrandt. “Senza forma né bellezza” indica l’assenza di ogni retorica, di ogni idealismo estetico. Cristo ci sorprende in un contesto di assoluta normalità, sia nell’ambientazione sia nella calma riflessiva del suo atteggiamento. E poi “non alza la voce”, perché Rembrandt lo immagina in un istante di dialogo profondo e amichevole con chi gli sta attorno. Cristo è immaginato in un momento di intimità, dietro le quinte della sua avventura pubblica. Un Cristo antieroico, vero nello struggimento del suo sguardo e nella tenerezza del legame che instaura con il suo interlocutore. Sono immagini che si ponevano in continuità ambientale rispetto ai luoghi a cui erano destinate, come a sottolinearne la contemporaneità. È questo che probabilmente Rembrandt cercava, prima di tutto per sé ma poi anche per una piccola comunità di persone che non s’arrendeva a quel vuoto che il protestantesimo aveva imposto. Oggi le sue Teste di Cristo fanno breccia proprio perché nella loro elementarità iconografica, non hanno bisogno di chiavi interpretative, non richiedono una “preparazione” particolare. Chiedono solo di essere guardate.



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