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COLLEGI ECCLESIASTICI DI ROMA
tratto dal n. 10 - 2011

PONTIFICIO ISTITUTO SAN GIOVANNI DAMASCENO

L’India che è nel cuore di Roma


L’ Istituto fu voluto da Pio XII e oggi ospita quaranta sacerdoti di rito siro-malabarese e di rito siro-malankarese. La nostra visita è l’occasione per conoscere più da vicino questi due riti che, insieme a quello latino, costituiscono la Chiesa cattolica indiana, tra le più fiorenti della cristianità


di Pina Baglioni


La cappella del Pontificio Istituto San Giovanni Damasceno decorata con icone realizzate da don Jacob Kooroth; al centro, un mosaico di Marko Ivan Rupnik [© Paolo Galosi]

La cappella del Pontificio Istituto San Giovanni Damasceno decorata con icone realizzate da don Jacob Kooroth; al centro, un mosaico di Marko Ivan Rupnik [© Paolo Galosi]

 

Si respira un clima di grande letizia all’Istituto Pontificio San Giovanni Damasceno, la dimora di quaranta sacerdoti indiani che soggiornano a Roma per perfezionare i loro studi.
Sono i figli della Chiesa di san Tommaso, fondata, secondo la tradizione, dall’apostolo del Signore nell’estremo sud dell’India, l’attuale Stato federale del Kerala: trentuno di loro appartengono alla Chiesa cattolica siro-malabarese. Gli altri nove, alla Chiesa cattolica siro-malankarese. Tutti e quaranta hanno tra i trenta e i trentacinque anni, con alle spalle diversi anni di sacerdozio.
A guidarli, padre Varghese Kurisuthara: è siro-malabarese e proviene dal Kerala. Dirige il San Giovanni Damasceno da quattro anni, dopo nove trascorsi come vice. Dopo gli studi e l’ordinazione sacerdotale in India, ha conseguito presso l’Accademia Alfonsiana il dottorato in Teologia morale, disciplina che oggi insegna al Teresianum, la Facoltà teologica del Collegio internazionale dei Carmelitani scalzi di santa Teresa di Gesù e di san Giovanni della Croce.
Padre Varghese appartiene alla provincia di Malabar dell’ordine dei Carmelitani scalzi. «Il ruolo dei Carmelitani è stato estremamente importante nella storia dei Cristiani di san Tommaso», spiega il rettore. «Furono inviati da papa Alessandro VII sotto la giurisdizione della Congregazione di Propaganda Fide, alla metà del XVII secolo, al fine di riunire i fedeli e di mettere pace nelle continue dispute tra i missionari portoghesi e i Cristiani di san Tommaso. Sono stati così stimati dai cristiani indiani, soprattutto nel Kerala, da ispirare addirittura congregazioni carmelitane indigene».
Tra i sacerdoti ospiti del San Giovanni Damasceno ci sono studenti della Congregazione missionaria del Santissimo Sacramento, della Congregazione Vincenziana, della Congregazione di Santa Teresa, della Società degli Oblati del Sacro Cuore, dell’Ordine dell’Imitazione di Cristo e della Società missionaria di San Tommaso Apostolo.
Tutti e quaranta i sacerdoti sono arrivati a Roma grazie alle borse di studio concesse dalla Congregazione per le Chiese orientali. Alcuni, per conseguire la licenza; la maggior parte, per ottenere il dottorato: in tredici frequentano i corsi di Diritto canonico e di Liturgia orientale al Pontificio Istituto Orientale. Gli altri studiano soprattutto teologia e filosofia in tutte le altre università pontificie. «Quest’Istituto, inaugurato il 4 dicembre del 1940, fu fortemente voluto da papa Pio XII sia per i sacerdoti provenienti dalle Chiese orientali che non avevano case di formazione proprie, sia per quelli che desideravano esercitare il loro ministero sacerdotale in Oriente. All’epoca, non c’era nessun indiano», racconta padre Varghese. «Il Papa lo volle intitolare a Giovanni Damasceno per l’affezione del santo al papato e per la sua devozione particolare alla Madre di Dio».
In quegli anni i seminaristi e i sacerdoti indiani alloggiavano in un’ala del Pontificio Collegio Russicum. Successivamente, furono sistemati nel Collegio Pio Romeno, perché il regime comunista vietava ai sacerdoti romeni di venire a Roma. Poi, nel 1993, l’Istituto fu trasferito nella sede attuale, un’ex clinica, incuneata in una fitta rete di strade tra le Basiliche di San Giovanni in Laterano e Santa Croce in Gerusalemme, acquistata dalla Congregazione per le Chiese orientali e completamente ristrutturata.
Il San Giovanni Damasceno dipende direttamente dal prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, il cardinale Leonardo Sandri. E, dall’anno accademico 1996-1997, è riservato esclusivamente agli alunni appartenenti alla Chiesa cattolica siro-malabarese e alla Chiesa cattolica siro-malankarese.

Gli studenti del Pontificio Istituto San Giovanni Damasceno con il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, in occasione della benedizione dell’iconostasi, il 4 ottobre 2010 [© Pontificio Istituto San Giovanni Damasceno]

Gli studenti del Pontificio Istituto San Giovanni Damasceno con il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, in occasione della benedizione dell’iconostasi, il 4 ottobre 2010 [© Pontificio Istituto San Giovanni Damasceno]

Un Istituto per due Chiese
La giornata dell’Istituto, ci spiega il rettore, comincia con la messa del mattino, alle 6 e 30. Viene celebrata nei due riti nelle rispettive cappelle: in quella più grande, per i malabaresi, nel rito siro-malabarese; in quella più piccola, per i malankaresi, nel rito siro-antiocheno. «Poi si celebra la messa anche in rito latino, tutti insieme. Una sorta di “esercizio” per quando si va a dire messa, alla domenica, nelle parrocchie romane, o anche a Natale e a Pasqua. Oppure d’estate, quando i sacerdoti indiani vanno a dare una mano in molte parrocchie in Italia e in Germania».
Inoltre, per testimonianza diretta di chi scrive, si può ben dire che all’Istituto si può godere di un’eccellente arte culinaria: due volte alla settimana d’origine indiana; per il resto, italiana.
Chiediamo a padre Varghese cosa andranno a fare questi sacerdoti, una volta tornati in India. «Una parte di loro andrà a insegnare nei seminari, un’altra sarà impiegata nell’ambito della curia vescovile, nella pastorale giovanile e nella catechetica presso le diocesi. Altri ancora faranno i parroci».
In Kerala, i siro-malabaresi e siro-malankaresi dirigono moltissime scuole cattoliche di ogni ordine e grado, dove si svolgono i normali corsi di studio statali. «E le spese sono in gran parte a carico delle Chiese. Sono frequentate, oltre che dai cattolici, anche da un gran numero di studenti hindu per via dell’altissimo livello di istruzione che vi viene impartito. E proprio grazie alle scuole cattoliche, il Kerala è lo Stato più istruito dell’India». In India, i cattolici – di rito latino, siro-malabarese e siro-malankarese – sono in tutto 17 milioni: meno del 2 per cento della popolazione indiana.
Le tre Chiese, tutte insieme, gestiscono venticinquemila scuole. Senza contare migliaia di case per vedove e orfani, ricoveri per lebbrosi e malati di Aids, ospedali e case di riposo. Nel Kerala, poi, dove i cristiani sono il 22 per cento della popolazione, l’istruzione, anche femminile, vanta i livelli più alti di tutta l’India. È anche lo Stato con i più alti indici di lettura. Dal 2008 vi si stampa nella lingua locale, il malayalam, anche un’edizione settimanale dell’Osservatore Romano, a cura dei Carmelitani scalzi della provincia del Malabar. Inoltre, il Kerala è lo Stato dove si trova il più alto tasso di pluralismo religioso: insomma, un esempio di convivenza in atto.
«Nelle scuole cattoliche, aperte a tutti, si svolgono i programmi scolastici previsti dall’ordinamento statale. In più ci sono dei corsi specifici per gli studenti cristiani che comprendono dottrina, etica e morale».
Qual è il motivo della grande vitalità della Chiesa siro-malabarese, che, con oltre quattro milioni di fedeli, rappresenta la Chiesa orientale più vigorosa e in rapida crescita dell’intera cristianità? Da sola procura quasi il 70 per cento delle 120mila vocazioni di tutta l’India cattolica. In questo Stato, quasi tutte le diocesi hanno un seminario minore ed è una delle poche regioni in grado di “esportare” sacerdoti e suore.
«Dipende dalle famiglie, dove l’attaccamento alla recita dell’Angelus, al santo Rosario e alla santa messa, è fortissimo, commovente», rivela il rettore. «I papà e le mamme, ma anche i nonni, insegnano ai bambini, sin da piccolissimi, il segno della croce e le prime preghiere. Insomma, imparano tutto questo con il latte materno. Di conseguenza, la famiglia è un ambiente che favorisce lo sbocciare delle vocazioni sacerdotali, che vengono tenute in grande considerazione in famiglia».

Il rettore dell’Istituto, padre Varghese Kurisuthara [© Paolo Galosi]

Il rettore dell’Istituto, padre Varghese Kurisuthara [© Paolo Galosi]

La diocesi di Adilabad: una Chiesa fiorente
I sacerdoti cattolici siro-malabaresi vivono una situazione paradossale: la loro Chiesa è tra le più fiorenti di tutta la cristianità, ma al di fuori del Kerala si trovano in terra di missione. «Per esercitare al meglio la nostra missione e formare i credenti secondo le nostre tradizioni avremmo bisogno di eparchie nostre. Ecco perché da molto tempo chiediamo al Santo Padre una maggiore giurisdizione fuori del Kerala», ci dice don Prince Panengadan Devassy, a Roma per conseguire la licenza in Teologia biblica all’Urbaniana.
Viene dalla città di Thrissur, dove ha frequentato dalla prima alla decima classe, cioè dalle elementari al liceo; successivamente, due anni di seminario a Bangalore, nello Stato del Karnataka, per studiare filosofia. «Sono andato, poi, in missione nell’eparchia di Adilabad, nello Stato dell’Andhra Pradesh, nell’India centro-orientale».
Adilabad è una delle più giovani eparchie dell’India, creata da papa Giovanni Paolo II il 23 giugno del 1999. Prima di allora faceva parte della diocesi di Chanda, che si estendeva negli Stati di Maharashtra e Andhra Pradesh, con due lingue e due culture diverse.
I primi sacerdoti siro-malabaresi sono arrivati ad Adilabad nel 1962. Là hanno fondato strutture scolastiche per favorire l’accesso all’istruzione delle bambine e dei bambini più poveri.
Nei villaggi, poi, i missionari hanno lavorato intensamente per migliorare le condizioni sociali della gente. Specialmente nell’ambito della sanità e dell’alimentazione. E molte persone, attratte dalla splendida testimonianza dei missionari, hanno scelto la vita cristiana. Oggi la Chiesa di Adilabad conta 15mila cattolici, con sessanta sacerdoti tutti indiani, ventiquattro dei quali diocesani, e con sette vocazioni locali.
Don Prince è un testimone oculare di tanta bellezza. «Per poter comunicare con questa gente ho dovuto studiare la loro lingua. Da noi, in Kerala, si parla il malayalam. Nello Stato dell’Andhra Pradesh, il telugu. Anche la scrittura è completamente diversa», racconta.
Dopo gli anni trascorsi ad Adilabad, don Prince è dovuto salire al nord, nel Madhya Pradesh, per studiare teologia per quattro anni. Poi è stato ordinato sacerdote e di nuovo è tornato ad Adilabad per altri due anni. Gli chiediamo, allora, cosa significhi fare missione in mezzo a un oceano di hindu e a un gran numero di musulmani. «È la meraviglia della cultura indiana. L’India ha dato origine a diverse religioni e ha accolto tutte le religioni del mondo. Gli indiani sono tolleranti, pacifici e accolgono tutti. Rispettare le altre religioni e accogliere a piene mani il bene, da qualsiasi parte questo arrivi, è la caratteristica della cultura indiana. Ognuno ha la libertà di credere nella religione che preferisce», aggiunge il giovane sacerdote. «Per noi fare missione vuol dire innanzitutto andare semplicemente a visitare i villaggi sparsi nelle grandi aree rurali abitate da braccianti agricoli e allevatori di bestiame. Non diciamo nulla di Gesù e del Vangelo, ma assistiamo i malati e aiutiamo i più poveri. Poi chiediamo ai genitori se vogliono affidarci i loro figli per farli studiare gratuitamente. Quasi tutti acconsentono. E quindi portiamo i bambini nelle nostre scuole, dove insegniamo le materie curricolari. È questa la prima fase della missione. Vale a dire quella in cui cerchiamo di costruire un rapporto forte con le persone attraverso l’aiuto ai loro bisogni. Molti missionari si sono prodigati per portare l’elettricità e l’acqua nei villaggi isolati.
In seguito, solo quando si è stabilito un rapporto di fiducia vicendevole, cerchiamo di renderli consapevoli della dignità della vita e dei diritti umani. A volte collaboriamo per emanciparli dallo sfruttamento e dall’ingiustizia», dice ancora don Prince Panengadan Devassy. «Dopo qualche tempo di servizio nei villaggi e nelle scuole, capita, molto spesso, che la gente ci chieda della nostra religione e del nostro Dio. A quel punto noi parliamo esplicitamente di Gesù. Non predichiamo Gesù con la forza e non cerchiamo di convertire nessuno con degli incentivi. Ma cerchiamo di rendere testimonianza a Gesù attraverso la nostra vita, amando tutte le persone senza nessuna distinzione. Questo nostro modo di vivere attrae le persone, che sono spinte a chiederci da dove viene la nostra capacità di accogliere tutti, ricchi e poveri, chi è veramente Gesù e cos’è il Vangelo. Per facilitare la comprensione della nostra fede, a volte proiettiamo dei film sulla vita del Signore in qualche sala o nello spazio pubblico del villaggio, visto che quasi nessuno possiede un televisore. La cosa bellissima è che molte di queste persone, soprattutto i bambini, fanno personale esperienza di Gesù. Perché grazie alla preghiera e al rapporto personale con Lui, vedono una corrispondenza nella loro vita, hanno una risposta alle loro domande, come mai era capitato loro prima. Certo, molti non ne vogliono sapere di Cristo. Ma quelli che dicono “sì”, ricevono una fede fortissima. Insomma, noi non convertiamo nessuno, ma le persone stesse si convertono sotto l’azione della grazia divina. È una loro scelta. E in questo contesto lo Stato garantisce la libertà di credere nella religione scelta da ognuno. Questa è la terza fase della missione», conclude don Prince. «È comprensibile che tutte le persone da noi servite e aiutate non arrivino allo stesso punto. Molti rimangono nella prima o seconda fase. Nonostante ciò, non smettiamo di svolgere il ministero. Continuiamo a servire quella gente, perché le nostre attività non sono mirate alla conversione, che è opera dello Spirito Santo, ma alla proposta rispettosa e libera».
Si unisce intanto alla conversazione Benedict Kurian, della Chiesa cattolica siro-malankarese. Proviene dall’eparchia di Mavelikara, suffraganea dell’arcieparchia di Trivandrum. Ordinato nel 2002, ha fatto il parroco per quattro anni ad Amburi, nel Kerala. A Roma dal 2007, sta per conseguire il dottorato in Diritto canonico orientale con una tesi sui diritti e i doveri dei laici. «Roma mi piace moltissimo. Anche perché, in India, a scuola, studiamo la storia dell’Impero romano in maniera approfondita», racconta.
Gli chiediamo cos’hanno di tanto particolare i cattolici siro-malankaresi, tornati in comunione con Roma solo dal 1930. «La differenza con i nostri fratelli malabaresi sta solo nella liturgia; la nostra è siro-antiochena. Invece quella della Chiesa siro-malabarese proviene dalla tradizione caldea. Una delle particolarità nella nostra liturgia sta nel fatto che da noi si celebra la messa con il sacerdote rivolto sempre verso l’altare, e i nostri fedeli sono attaccatissimi alla nostra tradizione liturgica», spiega don Benedict.
«La riunificazione con il successore di Pietro, il papa, l’hanno realizzata cinque persone. Oggi siamo 500mila. E nella nostra Chiesa sono nate anche due congregazioni femminili – denominate Sisters of the Imitation of Christ e Daughters of Mary – e una congregazione maschile, Order of Imitation of Christ.
Noi siro-malankaresi abbiamo la stessa tradizione apostolica, la stessa origine dei siro-malabaresi. Siamo anche noi eredi dei Cristiani di san Tommaso. E anche noi, come i nostri fratelli malabaresi, chiediamo alla Santa Madre Chiesa di Roma di aiutarci, di estendere la nostra giurisdizione».



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