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AFRICA
tratto dal n. 10 - 2011

La siccità attanaglia il Corno d’Africa


Da mesi il Corno d’Africa soffre per la mancanza d’acqua. Una tragedia che, nella Somalia centro-meridionale, si somma a quella di una conflittualità permanente causata dalla mancanza di un vero e proprio Stato.

Parla monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio


di Davide Malacaria


Profughi somali [© Associated Press/LaPresse]

Profughi somali [© Associated Press/LaPresse]

 

La siccità attanaglia il Corno d’Africa. Tredici milioni di persone rischiano di morire se la comunità internazionale non interviene presto e con efficacia. È la crisi umanitaria più tragica del momento, secondo quanto dichiarato dall’Onu. Monsignor Giorgio Bertin ne parla accorato, ma anche come chi ormai è abituato ad approcciare le tragedie che da decenni straziano questo angolo di mondo. La Somalia è l’iniziale terra di missione del francescano Bertin. Poi giunge a Gibuti dove, nel 2001, è nominato vescovo; carica che si somma a quella di amministratore apostolico ad nutum Sanctae Sedis di Mogadiscio. «È stata l’Onu per prima a lanciare l’allarme su quanto si stava consumando in questa regione, nel luglio scorso», ricorda Bertin, «anche se la situazione era andata deteriorandosi poco a poco e già da febbraio-marzo c’erano indizi sufficienti per capire che la siccità aveva iniziato a tormentare il Paese. Almeno io me n’ero accorto già allora, notando un incremento di sfollati all’interno della Somalia, non spiegabile solo con la conflittualità interna. Attualmente a causa della siccità sono a rischio di vita circa tredici milioni di persone». Una catastrofe umanitaria che in Somalia ha conseguenze più tragiche che negli altri Paesi del Corno d’Africa. E i numeri, nella loro cruda realtà, sono impressionanti. Li snocciola Bertin, chiamato più volte a esporre questo tragico rendiconto, nella speranza di sensibilizzare l’opinione pubblica: «Si tratta di 146mila persone a rischio nel solo Gibuti, circa quattro milioni in Somalia e il resto distribuito tra Etiopia e Kenya. La situazione più drammatica è però quella in cui versa la Somalia centro-meridionale, dove questa catastrofe si somma a quella decennale della violenza diffusa e della mancanza di uno Stato». Già, perché da quando è caduto il regime di Siad Barre, nel 1991, la Somalia è sprofondata in un’anarchia generale, in una guerra civile tra signori della guerra intenti a massacrarsi e a massacrare la popolazione civile. Nel 2004, dopo diversi tentativi andati a vuoto, la comunità internazionale era riuscita a conciliare la maggior parte delle diverse anime del Paese e a creare una sorta di governo, purtroppo di vita breve. Era seguita una nuova fase di anarchia, dove oltre ai signori della guerra, le comunità locali si erano organizzate attorno alle Corti islamiche. È in questo periodo che, per la prima volta, nel Paese era giunto anche il fondamentalismo islamico, qui identificato con gli shebab, i quali a mano a mano hanno aumentato la loro influenza fino a diventare fattore principale dei giochi politici del Paese. Due anni fa, ancora sotto la spinta della comunità internazionale, si è costituito un nuovo governo di transizione, fragile e non ancora in grado di amministrare lo Stato. Una debolezza di cui gli shebab hanno saputo approfittare riuscendo, di fatto, a prendere il controllo di parte del territorio nazionale e a imperversare nelle zone controllate dall’autorità centrale con attacchi militari o sanguinosi attentati contro la popolazione civile ed esponenti del governo. «Tutto questo accade nella parte centro-meridionale della Somalia, perchè al nord, dove si sono costituiti lo Stato del Somaliland e la regione autonoma del Puntland, la situazione è più stabile ed è più facile portare aiuti», spiega Bertin, che poi racconta delle masse di sfollati che vagano per il Paese, in fuga dai conflitti e, adesso, anche dai morsi della siccità. Si tratta di qualcosa come trecentomila o quattrocentomila persone, quantifica il presule, ai quali bisogna aggiungere i tanti rifugiati, un milione di persone circa, ammassati nei diversi campi profughi distribuiti in Etiopia e in Kenya, a ridosso dei confini con la Somalia. Si tratta di vere e proprie città in cui folle di disperati sopravvivono solo grazie agli aiuti umanitari. Tra questi, Dadaab, in Kenya, che, con i suoi quattrocentomila occupanti, è il campo profughi più grande del mondo. «Questi campi sono nati dopo la fine del regime di Siad Barre», continua Bertin, «e c’è gente che vive in queste tendopoli fin da allora... Ora in questi accampamenti stanno confluendo nuovi profughi, in fuga dalla siccità, che, secondo una stima di inizi ottobre, giungono al ritmo di 1.200 al giorno. Come Caritas Somalia siamo presenti nei campi per rifugiati situati all’estero, portando aiuti di ogni genere. Abbiamo provato a operare anche all’interno del Paese, ma ci è stato chiesto di nascondere la nostra identità cristiana. Sinceramente, ci è sembrata una richiesta inaccettabile, così abbiamo declinato, preferendo intervenire altrove. Nonostante questo, sottotraccia, collaboriamo con alcune organizzazioni umanitarie locali, anche islamiche, che lavorano all’interno del Paese, anche nelle zone controllate dagli shebab...». Proprio nelle zone controllate dai fondamentalisti islamici la crisi dovuta alla siccità è più forte, anche perché questi non accettano nei loro territori che alcune organizzazioni umanitarie. «Si dice che gli shebab siano di al-Qaeda, ma è alquanto riduttivo. In realtà, quando la comunità internazionale ha favorito la creazione del nuovo governo di transizione, anche loro hanno cercato un qualche sponsor internazionale. E l’hanno trovato in al-Qaeda. Gli shebab non nascono come formazione terroristica, anche se poi, di fatto, usano le stesse tecniche di lotta. Tra loro, poi, ci sono due anime: una più moderata, formata da gruppi islamici locali, e una più estremista, formata da persone che vengono per lo più dall’estero. Comunque, al di là di tutte le distinzioni, religiose e altro, quello che veramente differenzia un gruppo dall’altro, in Somalia, è il clan. La società somala è profondamente clanica e senza capire questo fattore si rischia di non capire nulla di quanto accade nel Paese».

Agli inizi di ottobre, anche facendo seguito ai vari appelli di Benedetto XVI a favore delle popolazioni colpite dalla siccità, il cardinale Robert Sarah ha convocato un’assemblea straordinaria del Pontificio Consiglio «Cor Unum», alla quale ha voluto partecipare, con un intervento scritto, anche il primate anglicano Rowan Williams, all’insegna di un non usuale, quanto efficace, ecumenismo della carità. Nell’assemblea, ricorda Bertin, oltre a coordinare gli aiuti immediati per la questione della siccità del Corno d’Africa, si è richiamata l’urgenza di superare la logica dell’emergenza, tentando di realizzare piani di intervento che possano favorire lo sviluppo e prevenire certe emergenze che, in alcuni luoghi del pianeta, sembrano diventate strutturali. A complicare ancora di più le cose, verso la fine di ottobre, lo sconfinamento di truppe del Kenya in territorio somalo. Motivo ufficiale: la messa in sicurezza dei confini keniani minacciati dalle incursioni degli shebab. Non è ancora chiara la portata e la durata di questa incursione, ma di certo per profughi e rifugiati l’innalzamento del livello dello scontro non è una buona notizia.

«In ogni caso», conclude Bertin, «i problemi della Somalia non si risolveranno finché non si uscirà da questa situazione di caos. Senza la creazione di un vero Stato, sia pure non in linea con i nostri criteri di democrazia, non si risolverà mai niente. Purtroppo temo che anche quest’ultimo, fragile, governo di transizione, senza un aiuto vero della comunità internazionale possa fare la fine dei precedenti. Ma, al di là di questo, reputo che per uscire da questa situazione sia necessario coinvolgere anche la diaspora somala».



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