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LIBRI
tratto dal n. 10 - 2011

Quella volta che ho visto piangere Montale


Leone Piccioni ha raccolto in un libro saggi e articoli, frutto del suo più che sessantennale lavoro di critico letterario.

Un viaggio tra i poeti e i narratori più importanti del Novecento italiano, molti dei quali suoi amici. Intervista


Intervista con Leone Piccioni di Paolo Mattei


Nell’ultimo libro di Leone Piccioni stanno insieme cose antiche e cose nuove. Ai ritratti e ai ricordi di scrittori le cui vicende ebbero prologo ed epilogo tra l’Ottocento e il Novecento, si affiancano i profili di poeti e narratori tuttora nel pieno del lavoro creativo. In Vecchie carte e nuove schede – questo il titolo del libro, le cui pagine scorrono, senza asperità, tra analisi delle opere e flash biografici – l’autore ha raccolto una piccola ma emblematica porzione del suo più che sessantennale lavoro di critico letterario, un’antologia di saggi e articoli sugli scrittori più amati, molti dei quali sono stati e sono suoi amici. Amicizie di lunga durata o balenanti per un istante come rapide scintille.

Nato a Torino nel 1925, Piccioni è stato docente universitario e operatore dell’informazione. Dopo aver studiato con Giuseppe De Robertis a Firenze e con Giuseppe Ungaretti a Roma, nel ’46 iniziò a lavorare alla Rai, diventandone successivamente vicedirettore generale. Per molti anni curatore dell’Approdo letterario, storica trasmissione radiofonica inaugurata nel 1945, ha pubblicato, a partire dal 1950, numerosi libri di viaggio e articoli di critica letteraria. La poesia di Ungaretti è stata una delle passioni predominanti: sua la curatela della prima edizione dedicata ad “Ungà” dei “Meridiani” della Mondadori.

Ci siamo fatti raccontare qualcuno degli incontri con gli scrittori più amati.

 

Leone Piccioni [© Archivio Giovannetti/Effigie]

Leone Piccioni [© Archivio Giovannetti/Effigie]

Iniziamo da Gadda, di cui nei primissimi anni Cinquanta lei ha detto: «È lo scrittore italiano più amaro che io oggi conosca in Italia».

LEONE PICCIONI: Gadda possedeva l’ineguagliabile capacità narrativa di deformare la realtà. Di riempirla, gonfiarla, poi svuotarla e disseccarla. Il risultato è però una desolante verità umana. Era guidato dall’ironia e dalla disperazione del suo sguardo sul mondo.

In che rapporti era con lui?

Fummo amici. Dal 1950 lavorammo per alcuni anni assieme alla Rai, nella sezione letteraria del giornale radio, e con noi c’era anche Pasolini. Gadda era un uomo di grande ironia. Quando gli capitava qualche inconveniente, diceva: «Talvolta la Provvidenza mi usa di questi riguardi». La Provvidenza… Gadda amava immensamente il romanzo della Provvidenza, quei Promessi sposi che si faceva leggere anche sul letto di morte.

L’ironia fu tratto fondamentale anche del carattere di Emilio Cecchi.

Un’ironia diversa da quella di Gadda. Quella di Cecchi, uno dei maggiori scrittori del nostro Novecento, era arguta e strettamente imparentata alla sua toscanità. Io do molta importanza a certe battute di artisti e poeti perché sono segni di grande forza ironica e dicono molto, con l’efficacia della sintesi, del carattere della persona. Ricordo quella volta che, tornando in treno a Roma da Firenze, trovammo ad aspettarci alla stazione mio padre, allora membro del governo. Mio padre, pur non conoscendolo, era un grande ammiratore dello scrittore fiorentino. Un attimo dopo essersi presentati, Cecchi gli disse: «Onorevole, dica a Fanfani che si cambi il cappello»: non sopportava il fatto che lo portasse all’insù, forse per apparire più alto.

Nel 1950 incontra Cesare Pavese.

Sì, lo conobbi dapprima epistolarmente, poco prima della sua morte. Avevo pubblicato un saggio sulle sue opere, e lui mi inviò una lettera in cui mi ringraziava, anche per i suggerimenti che trovava in quel mio scritto. Poi qualche mese dopo ci incontrammo di persona, a Forte dei Marmi, dove io ero in vacanza. Fu un’amicizia improvvisa, e brevissima. In quell’occasione parlammo a lungo. Era piuttosto timido e sofferente. E anche deluso direi, perché stava vivendo un momento molto difficile. Ci incontrammo ancora, sempre in quello stesso anno, al Premio Strega, che sarebbe stato proprio lui a vincere con La bella estate. Di lì a pochi giorni, a luglio, ricevetti un’altra sua missiva, anche stavolta in seguito a un mio articolo, nella quale, avendo saputo del mio matrimonio, tra l’altro scrisse: «Ti faccio ogni augurio, se pure non condivido la fede, di cristiana felicità». Pochi giorni dopo si tolse la vita. Mi è rimasto un grande dolore, un’immensa amarezza.

Naturalmente alcune pagine del libro sono dedicate a Giuseppe Ungaretti, col quale lei ebbe una lunga consuetudine.

Il nostro legame era come quello tra un padre e un figlio. Lo conobbi quando arrivai a Roma, negli anni Quaranta. Venivo da Firenze, col desiderio di studiare e laurearmi con lui. Avevo con me una lettera di presentazione di Giuseppe De Robertis, che era un suo amico. Scrissi la mia tesi sulle dieci canzoni di Giacomo Leopardi e poi feci per qualche anno il suo assistente all’Università La Sapienza, dove insegnava. Nacque insomma un rapporto di confidenza e amicizia che non sarebbe mai venuto meno. Conservo un epistolario di più di duecento lettere.

Lei curò il “Meridiano” della Mondadori a lui dedicato…

Considero Ungaretti uno dei tre o quattro poeti più importanti del mondo. Ricordo che fui invitato a un convegno dedicato all’illusione e mi chiesero di parlare di lui. Dissi che non era il poeta dell’illusione, ma della speranza. Il suo canzoniere è un diario di viaggio verso la speranza, sentimento trasparente già nelle liriche dedicate alla tragedia della guerra: «Un’intera nottata / buttato vicino a un compagno massacrato […] / ho scritto lettere piene d’amore. / Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita». Stupendi in questo senso sono anche i diciassette frammenti di Giorno per giorno, scritti tra il ’40 e il ’46, dedicati al figlio morto a nove anni in Brasile. In quello finale, immagina che il bambino gli cammini accanto e gli sussurri: «“Questo sole e tanto spazio / Ti calmino. Nel puro vento udire / Puoi il tempo camminare e la mia voce. / Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso / Lo slancio muto della tua speranza. / Sono per te l’aurora e intatto giorno”». La speranza del poeta è “slancio muto”, lui non sa da solo trovare le parole e allora affida a un altro la propria preghiera. Sa che «dalle sue mani febbrili / Non escono senza fine che limiti», come si legge nella Pietà.

Anche con Montale fu in amicizia.

Sì. Lo andavo a trovare spesso nella sua casa milanese di via Bigli quando insegnavo allo Iulm, la Libera Università di Lingue e Comunicazione, dove tenevo un corso di letteratura moderna e contemporanea. Ricordo un anno – era il ’68 o il ’69 – in cui avevo scelto come tema monografico gli Ossi di seppia. Dopo una lezione, andai a casa sua. Come sempre, c’era solo la fedele domestica Gina a fare compagnia al poeta, seduto sulla poltrona con il plaid sulle gambe. Era molto contento di quelle mie visite serali. Gli raccontai che avevo appena terminato di commentare ai ragazzi Spesso il male di vivere ho incontrato, uno degli Ossi più belli, e che gli studenti avevano discusso con me per più di un’ora su quegli otto versi. Mi chiese se li sapevo a memoria. Naturalmente li conoscevo. Mi pregò allora di recitarli assieme a lui: «… Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina Indifferenza: / era la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato». Alla fine i suoi occhi erano pieni di lacrime. Vedevo l’algido e ironico Montale piangere, davanti a me, come un bambino… È una poesia commovente. Le cose e le occasioni più feriali della realtà possono talvolta suggerire, accennare, il miracolo della presenza di Dio. E la poesia sembra farsi, anche qui, preghiera che quelle occasioni e cose non vengano meno.

Leone Piccioni, <I>Vecchie carte e nuove schede. 1950-2010</I>, Nicomp, Roma 2011 224 pp., euro 16,00

Leone Piccioni, Vecchie carte e nuove schede. 1950-2010, Nicomp, Roma 2011 224 pp., euro 16,00

Montale frequentava negli anni Trenta lo storico caffè “Giubbe Rosse” di Firenze, punto di riferimento di un altro amico di cui si parla nel libro: Carlo Bo.

Il silenzioso Bo…

Bargellini lo gratificava del soprannome che era stato attribuito a san Tommaso d’Aquino: “Bue muto”…

Le nostre conversazioni erano colme di silenzi. Potevi fargli domande di ogni tipo e lui ti rispondeva con un’occhiata più eloquente dei molti discorsi che altri avrebbero fatto.

Un carattere particolare…

Complesso, vario e affascinante. Negli anni Trenta scrive dapprima sul Frontespizio dei cosiddetti “tradizionalisti”, Bargellini, appunto, e Papini, introducendo nell’ambiente della rivista cattolica fiorentina – i cui componenti si riunivano soprattutto nel chiuso di librerie e case editrici – i giovani Luzi, Macrì, Bigongiari e Parronchi, che con lui costituiranno il gruppo, diciamo così, di “sinistra” all’interno del periodico. Contemporaneamente stringe amicizie forti con persone che, invece di incontrarsi in luoghi chiusi, amano ritrovarsi all’aperto, al caffè: il “San Marco” prima, le “Giubbe Rosse” poi. Gente che con quelli del Frontespizio ha ben poco a che fare: Montale, appunto, poi Gadda, Rosai, Bilenchi, Vittorini, Pratolini… Queste dimestichezze su fronti diversi chiariscono subito il carattere di Bo: di sé amava ripetere che era «cattolico, apostolico, romano», e proprio questa fedeltà alle cose essenziali della fede gli permise a mio avviso di intrecciare profondi rapporti e durature amicizie anche con chi la fede non aveva avuto in dono, con i “liberi pensatori” di quei tempi. Amicizie che gli consentirono di aprirsi alla comprensione – piena di ironia e di pietà – di sé stesso e degli altri.

Ironia… come nell’episodio accennato dallo stesso Bo dei pantaloni di Montale…

Sì, per spiegare la precarietà di quegli anni, da tutti i punti di vista, racconta come un suo grosso tomo su Sainte-Beuve fosse utilizzato da Montale per stirarsi i calzoni… Ma un ricordo di Bo che mi rimane nel cuore fu un viaggio che feci con lui a Cremona. Lo accompagnai là perché doveva tenere una commemorazione di don Primo Mazzolari, che aveva conosciuto di persona. Disse che incontrandolo aveva conosciuto un santo e che «quando si incontra un santo tutti gli altri valori perdono quota e sembrano ben poca cosa».

Di molti altri poeti si parla nel suo libro, come quelli della generazione di Bertolucci, Sereni, Caproni, Parronchi e Luzi, nati tutti tra il ’10 e il ’20…

Un gruppo di poeti straordinari, del tutto degni della tradizione di Montale, Ungaretti e Saba. Poeti che non si sottrassero alle esperienze più dure e prosaiche della vita: lavoro, impegni, famiglie da mantenere. L’abbraccio dell’esperienza fu brusco e talvolta soffocante per loro. Furono provati dal «fuoco della controversia», per dirla con Luzi, e da quella vita nacque la più bella poesia del Novecento.



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