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PRIMO MILLENNIO
tratto dal n. 11 - 2011

Perseguitati in tempi recentissimi


La Prima Lettera di Clemente ai Corinzi, in cui si parla delle persecuzioni subite dai cristiani «per invidia e gelosia»,
fu redatta non molto tempo dopo la morte di Nerone, e quindi a pochissimi anni dal martirio dei santi Pietro e Paolo a Roma.

Un articolo del presidente emerito del Pontificio Comitato di Scienze storiche


del cardinale Walter Brandmüller


I santi Pietro e Clemente, particolare del mosaico absidale del XII secolo della Basilica di San Clemente, a Roma [© Paolo Galosi]

I santi Pietro e Clemente, particolare del mosaico absidale del XII secolo della Basilica di San Clemente, a Roma [© Paolo Galosi]

 

Rispetto alle testimonianze scritte della Chiesa primitiva a noi pervenute, la Prima Lettera di Clemente è quella in ordine di tempo più prossima ai testi neotestamentari. Non ci si può stupire, dunque, se da tempo riscuote l’attenzione particolare degli studiosi. Ma questo testo è stato, ed è dibattuto in ogni suo minimo dettaglio soprattutto perché la tradizione cattolica vi vede la primissima testimonianza extrabiblica in favore del primato della Chiesa romana in seno alla cristianità. Particolare interesse riveste perciò la questione della data di composizione. È generalmente accettato che la Prima Lettera di Clemente sia stata composta verso la fine del I secolo dell’era cristiana. Partendo dal riferimento alla persecuzione dei cristiani, la si fa perciò risalire all’epoca dell’imperatore Domiziano che regnò dall’81 al 96.
Sono però da tempo sorti dubbi su questa datazione e studi più accurati hanno dimostrato che sotto Domiziano non si ebbe alcuna persecuzione dei cristiani.
Nei capitoli dal 3 al 5 della Lettera, che è un appello all’unità e all’amore in seno alla Chiesa, si parla delle funeste conseguenze della gelosia per la comunità dei cristiani. L’autore porta a questo riguardo una serie di esempi tratti dall’Antico Testamento, per poi proseguire: «Ma lasciando gli esempi antichi, veniamo agli atleti di tempi recentissimi. Per invidia e gelosia, colonne di massima grandezza e rettitudine furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo ad esempio i valenti Apostoli: Pietro, che per ingiustificata invidia non una o due, ma molte pene patì [...]. Dinanzi all’invidia e alle liti, Paolo mostrò quale fosse la palma per la sopportazione paziente [...]. Si ritirò perciò dal mondo e raggiunse il luogo santo da eccelso modello di pazienza».
Subito dopo, la Lettera parla anche dei martiri della persecuzione per mano di Nerone e accenna – come più tardi anche Tacito (+117) – al modo in cui morirono, dicendo inoltre in maniera esplicita che tutto ciò è accaduto “da noi” (a Roma) – •n ämîn – e, per la precisione, ≤ggista , vale a dire “in tempi recentissimi”.

Ma questo vuol dire che la persecuzione di Nerone appartiene all’esperienza diretta dell’autore. La Lettera non può dunque essere stata scritta molto tempo dopo la morte di Nerone (68), laddove l’anno del massacro di cristiani non è ancora sicuro (64/65).
A tal proposito, sorge anche la questione se nello scatenarsi dell’invidia e gelosia di cui parla Clemente, e di cui gli apostoli Pietro e Paolo furono vittime, siano da riconoscere i conflitti all’interno della comunità cristiana di Roma. I noti contrasti intorno a Marcione, Valentino e Cerdone sono tutti di una generazione dopo.
È molto più verosimile pensare alle tensioni tra cristiani e giudei. Non va infatti dimenticato che in quei decenni era in pieno corso la separazione tra giudei e cristiani, una situazione più che favorevole a invidie e gelosie.
Sappiamo inoltre da Giuseppe Flavio che la moglie di Nerone, Poppea, era una proselita, vale a dire una convertita all’ebraismo, e doveva perciò aver avuto stretti legami con gli ambienti giudaici a Roma.
Quindi, è davvero impensabile che nella ricerca di capri espiatori per l’incendio della Roma neroniana sia stata lei ad aver dirottato l’attenzione sui cristiani, così invisi ai giudei?
In tutti questi approcci interpretativi è comunque necessario usare cautela, considerata l’assenza di prove certe nelle fonti.
È invece il momento di affrontare la questione dell’autore. È evidente che il nostro testo – che si presenta come una trattazione in forma epistolare – non è opera di una collettività: che la «Chiesa di Dio che vive a Roma in terra straniera» scriva alla Chiesa di Corinto è solo un espediente formale. A prestare la penna, si ritiene sia stato “Clemente”, nome che – per quanto ci è noto – viene per la prima volta citato in una lettera di risposta del vescovo Dionisio (Dionigi) di Corinto a papa Sotero (166-174 ca.). Scrive Dionisio (Dionigi): «Oggi celebriamo il giorno santo del Signore e in questo medesimo giorno abbiamo letto la vostra lettera, la quale, così come il precedente scritto a noi inviato da Clemente, sempre leggeremo ad ammonimento».
Se questo Clemente è nominato accanto al vescovo di Roma Sotero e la sua lettera è letta al pari della lettera di un papa durante la liturgia, si può ritenere che con tale Clemente si faccia riferimento a un altro vescovo di Roma. Come probabilmente suggerisce anche il Clemente romano ricordato nel Pastore di Erma, scritto nella prima metà del II secolo, poiché dal contesto si evince che quel Clemente era persona di alta autorità.
Non va dimenticato che fino al IV secolo, allora come in passato, la Lettera di Clemente era di pubblico uso in gran parte delle Chiese. In Egitto e Siria, in particolare, le veniva attribuita un’autorità quasi canonica.

Il “muro dei graffiti” con l’apertura che immette nel loculo dove si conservano le reliquie di Pietro, necropoli sotto la Basilica di San Pietro, Città del Vaticano [© Veneranda Fabbrica di San Pietro]

Il “muro dei graffiti” con l’apertura che immette nel loculo dove si conservano le reliquie di Pietro, necropoli sotto la Basilica di San Pietro, Città del Vaticano [© Veneranda Fabbrica di San Pietro]

Nel Codex Alexandrinus, famoso manoscritto della Bibbia del V secolo oggi conservato a Londra, insieme al Nuovo Testamento è anche contenuta proprio la Prima Lettera di Clemente.
Ora, come si è detto, tutti questi dibattiti, ovvero controversie, hanno un retroterra: la Prima Lettera di Clemente può essere considerata la prima prova postbiblica in favore del primato del vescovo di Roma nella guida della Chiesa universale? Le risposte sono diverse a seconda del diverso punto di vista confessionale.
Dovrebbe essere chiaro quale lampante anacronismo rappresenterebbe chiedersi se il primato di Roma, così come formulato dai due Concili Vaticani, sia testimoniato dalla Prima Lettera di Clemente. È giusto però chiedersi se qui non emerga la responsabilità su tutta la Chiesa dell’Ecclesia Romana.
Per questo conviene innanzitutto dare uno sguardo al motivo e al contenuto della Lettera. Come mai fu necessario scriverla?
Dal testo si comprende che nella comunità di Corinto si era verificata una spaccatura, poiché i giovani si erano ribellati ai presbiteri della comunità e li avevano rimossi dal loro ufficio.
L’intervento di Roma, in questa situazione che minacciava la vita della Chiesa di Corinto, è un fatto notevole. È del tutto ignoto se sia stato in seguito a una richiesta di aiuto da parte dei capi della Chiesa esautorati o se Roma abbia preso l’iniziativa motu proprio. Per la nostra questione, è del tutto irrilevante, perché nel primo caso, se erano stati i presbiteri a far ricorso a Roma, vuol dire che allora ne riconoscevano l’autorità e la facoltà di tutelare i loro diritti; nel secondo, l’intervento di Roma testimonierebbe che l’Ecclesia Romana esercitava in modo ovvio l’autorità sulla Chiesa tutta.
Il fatto appare ancor più notevole, se si considera che all’epoca dell’invio della Lettera a Corinto – poco importa se si data prima o solo intorno alla fine del I secolo – a Efeso era ancora vivo uno dei Dodici, Giovanni. Inoltre, via terra Corinto distava da Efeso circa 1.300 chilometri – meno della metà via mare –, mentre, sempre via terra, Roma era lontana 2.500 chilometri. Doveva esserci perciò un motivo, se non fu l’ultimo dei Dodici, ma il Vescovo di Roma, a essere interpellato e a intervenire in questa situazione.
La supposizione perciò che si sia ricorsi al Successore di Pietro come all’istanza ultima potrebbe non essere affatto sbagliata.



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