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ISLAM
tratto dal n. 03 - 2005

Il dialogo come vocazione


Il direttore dell’Osservatorio del Mediterraneo è un intellettuale tunisino di religione islamica. In queste pagine racconta il suo rapporto con il cristianesimo che «chiude il ciclo dei sacrifici rituali»


di Mohammed Aziza


Aziza, a destra nella foto, saluta Mohammed VI, attuale re del Marocco

Aziza, a destra nella foto, saluta Mohammed VI, attuale re del Marocco

Sono nato nel cuore della notte, tra un 24 e un 25 dicembre, nella medina di Tunisi addormentata, mentre, nell’allegria illuminata, la parte europea della città festeggiava il ricordo di una nascita prodigiosa, accaduta tanto tempo fa in un’umile mangiatoia visitata dai Re Magi.
Mi sono sempre immaginato che una stella, allora, avesse strizzato gli occhi nel cielo del solstizio d’inverno per suggellare il mio destino e fare di me, per sempre, il militante convinto e tenace del dialogo interculturale e, anche se sono laico, del dialogo interreligioso.
I casi della vita hanno sempre rinsaldato questa vocazione.
Essendo nato un 24 dicembre in una famiglia musulmana in cui un membro – la moglie di mio zio – era francese e cristiana, avevo diritto a due compleanni.
Il primo avveniva attorno a una torta, e io soffiavo sulle candele alla fine del pasto di festa con tutta la famiglia attorno, ogni 24 dicembre.
Il secondo mi vedeva accompagnare mia zia alla messa di mezzanotte, più o meno addormentato, ma affascinato dagli ori e dalle luci della Cattedrale di Tunisi.
Poiché rispettava la mia appartenenza, mia zia non mi faceva mai partecipare al rito della comunione, al quale facevo in genere poco caso, sapendo che ne ero escluso.
Ma una notte, sentendo le parole rituali che l’officiante pronunciava («Bevete, questo è il mio sangue. Mangiate, questo è il mio corpo»), ebbi una reazione violenta. Avevo infatti interpretato quelle formule consacrate con la letteralità ingenua di un bambino, spaventato da quell’invito che gli sembrava un po’ “cannibale”.
Naturalmente dimenticai subito quell’incidente. E la vita riprese il suo corso normale.
Qualche anno dopo, lavorando nella Biblioteca dei Padri Bianchi di Tunisia, all’ultimo piano di un edificio le cui finestre davano sulla facciata posteriore della Cattedrale, ecco che mi tornò in mente con forza il ricordo traumatico del rito della comunione vissuto in quella lontana notte di Natale, quando avevo accompagnato mia zia.
E subito ebbi un’intuizione che contraddisse in modo risoluto la mia impressione di quando ero bambino.
In un lampo capii che l’ostia e il vino sacramentali dicevano il contrario di quello che da bambino mi aveva spaventato.
Il rito della comunione mi apparve allora in tutta la sua grandezza redentrice, come a chiudere il ciclo del sacrificio, che, per secoli, era stato il cardine della storia degli uomini, il metodo fatalmente necessario per rigenerare il tempo e le forze della natura. Gli Aztechi credevano di far sorgere il Dodicesimo sole grazie ai sacrifici rituali di numerose vittime. Agamennone pensava di dover sacrificare sua figlia Ifigenia per far soffiare venti favorevoli che permettessero alla flotta greca di raggiungere le rive di Troia.
Per la prima volta, l’indiscussa preminenza del sacrificio come una specie di carburante del motore della storia umana stava per essere messa in scacco dalla prova di Abramo, perché comportava la sostituzione del sacrificato umano (Isacco o Ismaele, secondo le tradizioni) con un animale sacrificale.
Ma in questo caso la funzione espiatrice e rigeneratrice del sacrificio resta valida, solo che cambia la natura del sacrificato: da umano diventa animale.
L’abolizione della funzione stessa del sacrificio come espiazione dei peccati e rigenerazione della storia degli uomini stava inaspettatamente per accadere con il sacrificio ultimo e volontario del figlio di Dio, che riscatta, una volta per tutte, i peccati passati e futuri degli uomini e rende caduca l’antica funzione del sacrificio. La storia non ha più bisogno di abbeverarsi di sangue umano o animale del sacrificato per ritrovare i suoi cicli. Così l’ostia e il vino sacramentali ricordano quella chiusura del sacrificio per mezzo del dono della passione e chiamano i credenti a festeggiare la fine definitiva della paura, della perdita e della caduta.
Ecco l’evidenza che mi si fece chiara mentre contemplavo i colonnati e le vetrate della Cattedrale di Tunisi.
Da adolescente, a mio nonno che mi chiedeva cosa mi sarebbe piaciuto fare da grande, diedi una risposta che sulle prime lo fece sorridere, e poi lo fece sprofondare in una meditazione silenziosa: «Nonno, vorrei diventare un “occidentalista”, perché non vedo perché solo gli altri debbano avere il diritto di diventare orientalisti per studiarci!».
Quel destino di apertura, quel “gusto degli Altri” doveva caratterizzare anche la mia vita privata: sono sposato con una francese cattolica; e la mia vita professionale: ho inaugurato con Yehudi Menuhiu il programma di Studi interculturali all’Unesco, in cui ho svolto la maggior parte della mia carriera. E con Mario Luzi ho fondato, a Verona, l’Accademia mondiale di poesia.
Mi sono affiancato agli sforzi della Comunità di Sant’Egidio e non ho perso neanche uno dei loro stimolanti appuntamenti annuali. E all’interno di uno dei Laboratori organizzati nell’ambito di queste riunioni ho potuto mettere in pratica la mia tentazione comparatista, dicendo che se l’islam era sicuramente la religione del Libro, il cristianesimo mi sembrava sorretto da due pilastri: l’incarnazione1 e la resurrezione, mentre l’ebraismo è caratterizzato, secondo me, dal compito di interpretazione che continuamente esige da parte dei suoi fedeli; di qui, l’importanza delle esegesi e dei commentatori, come il grande Rachi de Troyes.
Di recente ho avuto il privilegio di partecipare a una riunione storica che si è svolta a Bruxelles, dal 3 al 6 gennaio 2005.
Questo incontro, organizzato dalla fondazione “Hommes de parole”, ha permesso a cinquanta imam e a cinquanta rabbini di impegnarsi insieme per la pace attraverso il dialogo.
La Cattedrale di San Vincenzo de’ Paoli 
a Tunisi

La Cattedrale di San Vincenzo de’ Paoli a Tunisi

L’apertura intellettuale e spirituale del dialogo con le diverse culture e religioni continua grazie alla fondazione – tramite Franco Frattini, ex ministro degli Esteri e attuale vicepresidente della Commissione europea – di un Osservatorio sul Mediterraneo, in seno al Ministero degli Esteri.
Frattini, presidente di questa nuova istituzione, me ne ha affidato la direzione generale.
L’accostamento di un presidente della riva settentrionale con un direttore generale di quella meridionale è un fatto da sottolineare, altamente simbolico e abbastanza raro.
Eppure è un accostamento che abbiamo già visto nel passato, ai tempi dell’Ifriquia [Africa romana, ndr], quando personaggi come sant’Agostino, san Cipriano, Tertulliano, Terenzio o Apuleio, senza contare Settimio Severo, si mescolarono senza problemi nella gestione della res publica. O come anche al tempo della Sicilia arabo-normanna, quando un geografo geniale, Al Idrissi, che veniva dal Marocco, fece parte della Cour des Rois (Corte dei Re) normanna di Sicilia.
È sostenendoci su simili insegnamenti della storia che possiamo riprendere un dialogo che in passato fu fertile e fecondo.
Al di là di tutti i problemi complicati che dobbiamo risolvere insieme, la questione della scelta resta relativamente semplice: «Come vediamo il Mediterraneo di domani, quello che stiamo lasciando alle generazioni future? Un muro che separa o un ponte che collega?».


Nota
1 Da cui l’importanza dell’immagine come rappresentazione del Verbo incarnato. Cosa che non è uguale per l’islam, come ho cercato di dimostrare nel mio testo L’immagine e l’islam.


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