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TEOLOGIA
tratto dal n. 03 - 2005

Erik Peterson e le riletture di Agostino nel novecento

La grazia fa la differenza


È a partire dalla grazia, e non semplicemente per il dogma trinitario o per l’escatologia, che la città di Dio si mostra distinta dalla città terrena


di Massimo Borghesi


In questa pagina, alcuni pannelli lignei policromi del soffitto della chiesa di San Martino, XII secolo, Zillis, Svizzera. Qui sopra, La fuga in Egitto

In questa pagina, alcuni pannelli lignei policromi del soffitto della chiesa di San Martino, XII secolo, Zillis, Svizzera. Qui sopra, La fuga in Egitto

Se c’è un autore che ha dissociato Agostino da ogni possibile uso teocratico, rilanciandolo nel dibattito teologico-politico del Novecento, questi è Erik Peterson. Ogni rilettura non integralistica di Agostino passa da lui. Di fatto l’autore di Der Monotheismus als politisches Problem costituisce il crocevia di gran parte delle interpretazioni tese ad evidenziare la irriducibilità della città di Dio alla città terrena. E questo, come la maggior parte della critica riconosce, nonostante i motivi addotti da Peterson per fondare tale irriducibilità non siano pienamente giustificati1.
Pubblicato nel 1935, il testo di Der Monotheismus raccoglieva due studi precedenti, uno sulla Monarchia divina del 1931 e un altro su L’imperatore Augusto nel giudizio del cristianesimo antico del 1933, dimostrando con ciò una certa difformità2. Il suo intento polemico era comunque chiaro. L’obiettivo critico era dato dall’adesione dei “Deutsche Christen” della Chiesa evangelica al nazionalsocialismo, nel 1933, nonché dalla Politische Theologie di Carl Schmitt citata, in nota, al termine dell’opera. Di fronte al cortocircuito tra cristianesimo e nazionalsocialismo, Peterson, richiamandosi ad Agostino («Sant’Agostino, che s’incontra ad ogni crocevia spirituale e politico dell’Occidente, aiuti con le sue preghiere i lettori e l’autore di questo libro!»3), operava la delegittimazione di ogni possibile teologia politica. Questa, dipendente dalla concezione ellenica della monarchia divina, passata attraverso Filone a parte dell’apologetica cristiana antica, opera una giustificazione teologica del potere mondano consacrandolo nella sua assolutezza. La sua espressione più chiara, in sede cristiana, è data da Eusebio di Cesarea, vicino all’arianesimo, nel quale universalismo cristiano e universalismo romano, Chiesa e impero, Cristo e l’imperatore, si saldano senza residui4. Diversamente, come mostra Gregorio di Nazianzo, la monarchia divina nel cristianesimo è una monarchia trinitaria, concetto questo che non trova analogia nella forma terrena. In tal modo viene sancita l’impossibilità di ogni teologia politica. «Soltanto sul terreno del giudaismo e del paganesimo può esistere qualcosa come una “teologia politica”. Ma l’annuncio cristiano del Dio unitrino si pone al di là del giudaismo e del paganesimo, in quanto il mistero della Trinità esiste soltanto nella divinità stessa, non nella creatura umana»5.
Per Agostino il riconoscimento della irriducibilità del sacro a qualsiasi struttura politico-statale rimane nettissimo. Se c’è una realtà radicalmente secolare e niente affatto teologico-politica, essa è proprio l’impero romano cristianizzato, finalizzato al mantenimento dell’ordine mondano, cioè di un bene del tutto secolare e transeunte
Peterson pensava, in tal modo, di chiudere la porta a ogni giustificazione teologica del nazionalsocialismo, così come veniva svolta da uno dei suoi più recenti apologeti, il Carl Schmitt da lui personalmente conosciuto, già autore di Politische Theologie. Vier Kapitel zu der Lehre der Souveränität edito nel 19226. In realtà, come osserva Giuseppe Ruggieri, «se si legge con attenzione il saggio sul monoteismo, la vera forza dell’argomento del Peterson, quella su cui egli può fondare con ragionevolezza un certo nesso d’interdipendenza tra un’effettiva acquiescenza alla situazione politica esistente e una corrispondente modificazione dell’insegnamento cristiano, è non tanto sul campo dell’ortodossia trinitaria, quanto su quello dell’escatologia di Eusebio. La notazione che Eusebio utilizza il concetto di monarchia divina per attribuire a Costantino un ruolo privilegiato nell’economia cristiana non significa ancora che ciò sia collegato a una eterodossia trinitaria»7. Secondo l’autore non è la teologia trinitaria che, a rigore, mette al riparo dalla riduzione politica della fede. Di per sé «anche una fede monoteistica può essere garanzia di un rapporto che non strumentalizzi la religione al potere. Negarlo equivarrebbe a ignorare la storia del profetismo biblico. Come all’opposto esistono i teologi di corte anche tra gli ortodossi padri della Chiesa»8. Questo è il punto debole dell’argomentazione di Peterson non a caso rilevato proprio da Schmitt nella sua (tardiva) risposta a Der Monotheismus contenuta in Politische Theologie II.
Per Ruggieri: «Cosa “prova” quindi il saggio di Peterson? È esso effettivamente, come sembrerebbe suggerire il titolo, un’analisi del nesso fra dogma trinitario e possibilità o impossibilità di una teologia politica, oppure esso, nonostante includa uno studio sull’evoluzione del concetto di “monarchia” divina, documenta quel nesso solo a livello di concezione della storia, nel suo rapporto con l’escatologia cristiana? Noi saremmo inclini a considerare più esatta questa seconda alternativa»9. La distanza che separa il cristianesimo dalle sue possibili traduzioni politiche non dipende tanto dal dogma trinitario quanto dalla differenza escatologica tra Regno di Dio e storia. Ed è qui che, al centro della posizione di Peterson, entra Agostino: «Ciò che hanno compiuto i padri greci in ordine al concetto di Dio, lo ha fatto sant’Agostino in Occidente in ordine al concetto di “pace”. La pace di Augusto, con cui si era combattuta nella Chiesa una teologia politica molto dubbia, appare agli occhi di sant’Agostino problematica»10. Quella pace, commenta Peterson citando il De civitate Dei (III, 30), fu preceduta da molte guerre civili. La sua versione provvidenzialistica, sostenuta da Eusebio, Ambrogio, Orosio, cede il posto a una visione più realistica per la quale la civitas terrena è luogo di conflitti sino alla fine del mondo. In tal modo «la dottrina della monarchia divina doveva fallire di fronte al dogma trinitario e l’interpretazione della pax augusta di fronte all’escatologia cristiana. […] Così come la pace, che il cristiano cerca, non viene garantita da nessun imperatore, ma è soltanto un dono di colui il quale è “più alto di ogni ragione”»11. Se la prima tesi è discutibile, la relativa validità della seconda – relativa perché, per Agostino, Dio può servirsi, per attuare la pax terrena, sempre mutevole, anche dei poteri del mondo – sta nel richiamo al modello agostiniano. Come Schmitt comprende molto bene: «Per il problema della teologia politica è decisivo il fatto che Peterson si attenga fermamente alla dottrina agostiniana dei due regni, delle due diverse “città” (di Dio e del mondo)»12. Decisivo nel senso che «Peterson si richiama per la sua liquidazione della teologia politica alla dottrina di sant’Agostino»13. Lo può fare perché, al di là dei riferimenti alla Trinità, è l’escatologia il vero perno della sua argomentazione. Per questo, «dopo i teologi greci del concetto di Trinità, alla fine della trattazione fa apparire ancora rapidamente il grande padre latino della Chiesa Agostino come il teologo del concetto escatologico della pace, al quale egli ha dedicato la sua trattazione, e che ha invocato nella forma di una preghiera. In questo modo la trattazione trova una conclusione edificante, per quanto pure assai affrettata, che fa sparire e occulta la vera problematica – la miscela di spirituale e temporale, aldilà e aldiquà, teologia e politica da rendere distinguibile solo mediante precise istituzionalizzazioni –, dal momento che, non tanto come ariano, sospetto per la sua scorrettezza dogmatico-trinitaria, ma come falso escatologo, per la sua eccessiva valutazione dell’impero romano nella storia della salvezza, Eusebio diventa il prototipo di una teologia politica impossibile»14.
Gesù e il centurione

Gesù e il centurione

Schmitt coglie qui la vera anima – liquidata come “edificante” – che sta dietro l’argomentazione petersoniana15. Peterson può opporsi alla sacralizzazione degli ordinamenti politici perché la tensione escatologica, presente nella civitas Dei agostiniana, lo preserva da ogni idolatria del potere. Nel contesto tedesco del 1935 il riferimento ad Agostino diviene un riferimento “liberale”, un presidio per la libertà religiosa e civile di fronte alla potenza del totalitarismo politico. E questo nonostante i limiti dell’argomentazione petersoniana, limiti che toccano anche la stessa recezione agostiniana. Infatti, secondo Lettieri «anche da un punto di vista della definizione dell’autentica escatologia, gli essenziali riferimenti petersoniani ad Agostino appaiono non del tutto sufficienti, e proprio qui sta il limite più profondo dell’agostinismo di Peterson: ancora una volta, il problema è che, agostinianamente, l’autentica escatologia è la grazia»16. È a partire dalla “grazia”, e non semplicemente per la forma trinitaria del dogma, che la “civitas Dei” si mostra come irriducibile alla “civitas terrena”. Al di là di tali limiti, è un fatto che la lettura di Peterson, con il coraggio della sua provocazione, contribuisce a “liberare” Agostino dalle sue declinazioni teocratiche rendendolo disponibile verso una prospettiva che valorizza appieno l’impianto teorico del De civitate Dei, impianto nel quale non entra la figura dell’“impero cristiano”. Come osserva Lettieri, in un saggio ruotante in larga misura proprio attorno a Peterson, «malgrado Agostino consideri origenianamente la conversione del saeculum al cristianesimo come provvidenziale realizzazione allegorica del millennio apocalittico, la contestualizza soltanto in ambito ecclesiastico, e niente affatto politico-imperiale. Non si dà affatto, per Agostino, una res publica ovvero un imperium christianum di tipo eusebiano o orosiano, come Peterson afferma e come lo stesso Schmitt sa benissimo e riconosce apertamente, essendo costretto, nel Nomos della terra, a tener fuori Agostino – dato della massima importanza – dalla traditio dell’ideologia sacrale patristico-medievale della respublica christiana. Per Agostino, con l’assoggettamento dei dèmoni al potere trionfante di Cristo, l’impero, lo Stato diviene ormai una realtà del tutto secolare, neutralizzata»17. A ciò non contraddice il fatto che l’elogio di Costantino e di Teodosio, così com’è presente nel De civitate Dei, sembra preludere a una concezione per cui «la civitas terrena liberata dai dèmoni, convertita al culto del vero Dio, pare divenire davvero l’impero cristiano medievale»18. In realtà, per Agostino, è «più esatto parlare di imperatori cristiani (singoli fedeli virtuosi), piuttosto che di impero cristiano. Il riconoscimento della irriducibilità del sacro a qualsiasi struttura politico-statale rimane nettissimo. Se c’è una realtà radicalmente secolare e niente affatto teologico-politica, essa è, paradossalmente […], proprio l’impero romano cristianizzato, finalizzato al mantenimento dell’ordine mondano, cioè di un bene del tutto secolare e transeunte»19.
Questo beneficium – «magnum» lo definisce Agostino – è la pace. La pace terrena è il bene più grande che, nel suo ambito, possa garantire lo Stato; da essa trae vantaggio anche la civitas Dei pellegrina. È un bene riversato su tutti, buoni e cattivi, che deve essere perseguito tanto dall’impero pagano così come da quello permeato dal cristianesimo.
La lettura di Lettieri, sensibile alla lezione di Peterson, si incontra qui con quella propria di Ratzinger nell’affrontare Agostino. Una lettura che dimostra come, dopo Peterson, l’interesse per Agostino si incentri proprio sul senso escatologico della città di Dio, unitamente a una concezione non teocratica della città terrena20. Non contraddice quanto detto il fatto che Ratzinger, nel suo primo lavoro dedicato ad Agostino, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, del 1954, non citi affatto Peterson. Cionondimeno nelle poche pagine dedicate al rapporto tra Chiesa e Stato v’è un’evidente coincidenza con la prospettiva petersoniana. «Del tutto in antitesi con il punto di partenza di Ottato» scrive Ratzinger, «Agostino quindi ha praticamente preso come base la situazione della Chiesa delle catacombe quando ha progettato la sua determinazione del rapporto tra Chiesa e Stato. La Chiesa non appare ancora per nulla come elemento attivo in questo rapporto, l’idea di una cristianizzazione dello Stato e del mondo non appartiene decisamente ai punti programmatici di sant’Agostino»21. Di fronte alla lettura di von Harnack, per il quale la pax terrena, in Agostino, può nascere solo dalla giustizia in possesso della Chiesa, Ratzinger obietta che «di subordinazione dello Stato alla Chiesa non si può parlare in nessun passo di Agostino»22. I testi chiariscono che «Agostino non ha stretto nessun intimo patto con lo Stato, bensì che gli si è opposto assumendo quel comportamento che era eredità cristiana delle origini: sopportarlo pazientemente così come esso è, non tentare di mutarlo, poiché è fuori delle possibilità cristiane»23.
Gesù guarisce lo storpio

Gesù guarisce lo storpio

Se nell’opera del ’54 Ratzinger non cita Peterson, il suo nome è invece ben presente in Das neue Volk Gottes, del 196924, e, soprattutto, in Die Einheit der Nationen, del 1971. Qui l’opera di Peterson, non limitata a Der Monotheismus, è indicata a più riprese e in contesti essenziali. Il testo, che ruota attorno «a due grandi figure, Origene e Agostino»25, è mosso dall’interesse verso la “teologia politica” la quale, nel contesto degli anni Sessanta-Settanta, ha come punti di riferimento le opere di Johann Baptist Metz e Jürgen Moltmann. Queste, anche se Ratzinger non lo afferma esplicitamente, trovano una loro analogia con la posizione origeniana per la quale «l’elemento cristiano qui è concepito totalmente in funzione della radicalità del fattore escatologico, che rivoluziona il mondo e neppure si dà affatto pena di dissimulare o di smentire questo suo carattere rivoluzionario»26. Per esso il cristiano rifiuta gli uffici politici, il servizio militare, così come, a certe condizioni, può congiurare contro il tiranno e defezionare dalle sue leggi. In tal modo, nonostante sia rimasto di fatto cristiano ecclesiale, «Origene senza dubbio nella radicalità del suo ethos rivoluzionario si è spinto sino a giungere a stretto contatto con i confini della concezione gnostica, con la sua negazione per principio degli ordinamenti naturali»27. Diversa è la posizione agostiniana. Essa desacralizza gli ordinamenti politici senza destituirli però del loro significato proprio: la custodia dell’ordine del mondo. Per Agostino «tutti gli Stati di questa terra sono “Stati terreni”, anche quando sono retti da imperatori cristiani e abitati più o meno completamente da cittadini cristiani. Sono Stati su questa terra e quindi “terreni” e nemmeno possono divenire di fatto qualcosa d’altro. In quanto tali, sono forme di ordinamento necessarie di quest’epoca del mondo ed è giusto preoccuparsi del loro bene; Agostino stesso ha amato lo Stato romano come sua patria e si è preoccupato amorevolmente del suo perdurare»28. Quest’amore non giunge però, come in Eusebio, all’identificazione tra cristianesimo e Impero romano. Questi «equivoca l’universalismo cristiano con quello romano, abbassa quindi il primo al livello politico e così gli toglie la sua vera e propria grandezza»29. Ratzinger, che cita qui Der Monotheismus, integra Peterson con Endre von Ivanka il quale «rimanda segnatamente alle componenti veterotestamentarie dell’idea bizantina di impero, che non potrebbe affatto essere intesa semplicemente come prosecuzione cristiana della concezione dell’impero divino dei pagani»30. All’opposto di Eusebio, «presso Agostino l’elemento di novità cristiana è mantenuto: la sua dottrina delle due civitates non mira né ad ecclesializzare lo Stato né a statalizzare la Chiesa, ma, in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che questa storia abbia raggiunto il suo fine»31. Ciò porta a constatare che «Agostino non ha tentato di elaborare qualcosa da intendere come la costituzione di un mondo fatto cristiano. La sua civitas Dei non è una comunità puramente ideale di tutti gli uomini che credono in Dio, ma non ha neppure la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo strutturato cristianamente, bensì è un’entità sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo avvenire»32. Questa distinzione permette ad Agostino di sfuggire la doppia limitazione che sorge dalle “teologie politiche” di Origene e di Eusebio. «Così per lui lo Stato, pure in tutta la reale o apparente cristianizzazione, rimase “Stato terreno” e la Chiesa comunità di stranieri, che accetta e usa le realtà terrene, ma non è a casa propria in esse»33. L’escatologismo agostiniano rimane rivoluzionario e legale a un tempo. «Mentre dunque in Origene non si vede bene come questo mondo possa proseguire, ma si percepisce soltanto il mandato di tendere allo sbocco escatologico, Agostino mette in conto una permanenza della situazione attuale, che ritiene tanto giusta per quest’epoca del mondo da desiderare un rinnovamento dell’Impero romano. Ma rimane fedele al pensiero escatologico in quanto reputa tutto questo mondo un’entità provvisoria e non cerca perciò di conferirgli una costituzione cristiana, ma lascia ch’esso sia mondo, che deve tendere lottando a conseguire il proprio relativo ordinamento. In tal misura anche il suo cristianesimo, fattosi consapevolmente legale, rimane, in un senso ultimo, “rivoluzionario”, poiché non può considerarsi identico ad alcuno Stato, ma è invece una forza che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo»34. Anche quelle, è il caso di aggiungere, che sorgono dalla “civiltà cristiana”35.


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