Home > Archivio > 03 - 2005 > Al termine dell’esilio la misericordia
LIBRI
tratto dal n. 03 - 2005

Al termine dell’esilio la misericordia


Intervista con Antonia Arslan, padovana di origine armena, che ha voluto rendere omaggio con un romanzo alla memoria della sua famiglia, falcidiata nello sterminio del popolo armeno in Anatolia durante la Prima guerra mondiale


di Giovanni Ricciardi



la copertina del libro,
La masseria delle allodole, Rizzoli, Milano 2004 , 235 pp., euro 15,00

la copertina del libro, La masseria delle allodole, Rizzoli, Milano 2004 , 235 pp., euro 15,00

La masseria delle allodole, in libreria dallo scorso aprile, è già un caso letterario. Sette premi in pochi mesi, seconda al Campiello – a soli due voti da Una barca nel bosco di Paola Mastrocola – e un’ottima accoglienza di pubblico. Un risultato inaspettato per una studiosa “prestata” alla letteratura, al suo esordio narrativo. Antonia Arslan, padovana di origine armena, ha voluto rendere omaggio con questo romanzo alla memoria della sua famiglia, falcidiata nello sterminio del popolo armeno in Anatolia durante la Prima guerra mondiale. E lo ha fatto con una scrittura leggera, sognante, che ricorda il taglio narrativo de La vita è bella di Benigni. Raccontando, nella tragica cornice del genocidio, la storia vera di Sempad, il fratello di suo nonno, della moglie Shushanig e dei loro figli: alcuni dei quali riuscirono, per una serie di circostanze, a fuggire dalle “carovane della morte” e a emigrare in Europa. Intorno alla famiglia di Sempad si muove un gruppo di personaggi che tessono la trama della salvezza per questi pochi “fortunati” in mezzo a un popolo destinato alla morte: dal prete greco Isacco al mendicante turco, Nazim, devoto ai propri benefattori armeni caduti nella morsa della persecuzione. Nel tentativo di salvare alcuni, essi saranno i muti testimoni dello sterminio di una moltitudine. All’autrice del libro abbiamo rivolto alcune domande.

Perché ha deciso, dopo tanti anni, di trasformare in romanzo la storia dei suoi familiari?
ANTONIA ARSLAN: Le “pressioni” di alcuni amici e le suggestioni che mi ha comunicato la lettura del poeta armeno Daniel Varujan, di cui ho curato la traduzione italiana, mi hanno dato la spinta decisiva. Varujan mi ha offerto le immagini, i profumi, il respiro stesso della terra d’Anatolia. Gli amici mi hanno convinto che quella storia che avevo raccontato tante volte a voce era già “pronta” per diventare un romanzo. Ma credo che la parola chiave per intendere lo spirito con cui ho voluto raccontare questi fatti sia la parola “pietà”. Pietà per questo infinito numero di vite spezzate, ognuna con una vicenda personalissima e terribile. Donne, vecchi, bambini che hanno percorso quella via dolorosa attraverso il deserto, per perire di stenti o di spada. Sono storie spesso agghiaccianti, difficili da “assorbire”. A quelle persone è rivolta la memoria di ogni sopravvissuto; ho voluto unire la mia voce a questo “coro di memorie”.
Eppure nel suo libro questo ricordo così terribile è sempre in qualche modo sfumato in un’atmosfera quasi sognante. E il racconto segue la movenza della “favola” nonostante abbia, naturalmente, i suoi momenti di crudezza. Perché?
ARSLAN: Se da bambino ascolti tante volte, come è accaduto a me, una vicenda orribile, la fai diventare come una storia di bambini; e quando questa “storia” la racconti di nuovo, tendi quasi naturalmente a “trasfigurare” i particolari. Altrimenti l’angoscia eccessiva, onnipervasiva che ne promana, sarebbe difficile da sopportare. E soprattutto tenderebbe a nutrirsi di sé stessa e a trascinare alla disperazione, verso il nulla.
Una forma di difesa, per non essere risucchiati dall’orrore del male?
ARSLAN: Fin da ragazza mi è rimasta impressa una bellissima poesia di Dylan Thomas: Rifiuto a piangere la morte per fuoco di una bambina a Londra. Thomas, a un certo punto, dice: «After the first death there is no other», «Dopo la prima morte non ce ne sono altre». Certo, esiste anche la “morte seconda”, quella dell’anima. Ma pensando alle atrocità subite dal popolo armeno, ai bimbi trucidati, alle donne che subirono ogni sorta di violenza, ai vecchi lasciati morire nel deserto, agli uomini passati per le armi, non c’è altra alternativa: o quella tragedia è un giudizio senza appello e l’ultima parola è il male e il nulla; o l’ultima parola è la misericordia di Dio per quelle anime. Solo questa prospettiva può togliere al racconto di una vicenda così terribile la sensazione che al male non vi sia scampo. È per questo che alla fine, anche per chi resta, sono vere le parole: et Iesum post hoc exilium ostende, che si recitano nella Salve Regina.
Nel romanzo compaiono due personaggi, Nazim e Djelal, turchi, che hanno un ruolo fondamentale nell’economia della vicenda. Saranno loro a permettere, alla fine, la salvezza dei suoi familiari. Perché proprio dei turchi?
ARSLAN: I personaggi turchi sono solo in parte d’invenzione; Nazim, il mendicante, corrisponde vagamente alla memoria di questo povero turco che aveva aiutato la mia famiglia nel momento della deportazione. È un personaggio che, nel corso della storia, si evolve. La sua devozione alla famiglia di Sempad è istintiva, legata al ricordo delle ricche elemosine che riceveva dagli armeni benestanti. Ma seguendo i personaggi nel loro viaggio infernale, capisce a poco a poco di poter svolgere un ruolo decisivo per la loro salvezza. Lui, che è l’ultimo dei mendicanti, finisce per diventare il perno sul quale ruota la vicenda. Svolto il suo compito, potrà tornare in pace con Dio e sentirà di essere pronto per il “suo” pellegrinaggio, decidendo di terminare i suoi giorni alla Mecca. Ma Nazim rappresenta anche quella parte del popolo turco che non fu complice della ferocia di coloro che premeditarono ed eseguirono lo sterminio. Moltissimi turchi in realtà contribuirono a salvare armeni. Magari non sempre per motivi nobili: prendevano dei bambini per farne dei piccoli servi di casa, o semplicemente per adottarli, perché non avevano figli; donne armene andarono in spose a turchi e furono islamizzate. Ma questa gente non condivideva il fanatismo di coloro che pianificarono il genocidio, e in seguito, nel 1922, il massacro e l’espulsione dei greci dall’Anatolia. Negli anni Ottanta due sociologi americani raccolsero le testimonianze di circa 150 sopravvissuti armeni allora residenti in California. Molti di loro erano stati salvati da turchi.
E come finirono poi negli Stati Uniti?
ARSLAN: Grazie all’opera straordinaria di Henry Morgenthau, che negli anni del genocidio era stato ambasciatore statunitense presso l’Impero ottomano. Dopo la guerra, a partire dal 1920, fondò l’associazione “Near East Relief”, che riuscì a riscattare con denaro sonante migliaia di bambini armeni sopravvissuti in famiglie turche. Furono organizzati centri di accoglienza e orfanotrofi; e papa Benedetto XV aprì agli armeni la villa di Castel Gandolfo, dove per molti anni vi fu un orfanotrofio armeno: un particolare che pochi conoscono. Grazie all’associazione di Morgenthau, che, non dimentichiamolo, era ebreo – come Franz Werfel, l’autore nel 1933 del primo grande romanzo sulla tragedia degli armeni: I quaranta giorni del Moussa Dagh –, questi armeni poterono essere accolti e trasferiti soprattutto in Francia e in America.
In questa e nelle altre pagine dell’articolo, 
alcune fotografie che l’ufficiale tedesco Armin T. Wegner scattò clandestinamente in Anatolia tra il 1915 e il 1916. Sono una delle poche testimonianze fotografiche della deportazione e del genocidio degli armeni

In questa e nelle altre pagine dell’articolo, alcune fotografie che l’ufficiale tedesco Armin T. Wegner scattò clandestinamente in Anatolia tra il 1915 e il 1916. Sono una delle poche testimonianze fotografiche della deportazione e del genocidio degli armeni

Nel romanzo si avverte anche il senso della “maledizione” che alcuni turchi sentono pesare su di sé per questa immane carneficina…
ARSLAN: Lo sterminio avvenne per responsabilità precisa del partito “Ittihad”, i Giovani Turchi che vanno al potere nel 1908, esautorando il sultano. La loro élite intellettuale si era formata nelle università europee; si proclamavano atei e ostentavano disprezzo per i capi religiosi islamici. L’episodio di Konia, descritto nel libro, in cui gli imam della città chiedono perdono a Dio per quanto sta accadendo e maledicono i carnefici, è storico. Con questo non voglio ovviamente ridimensionare le responsabilità degli autori del genocidio. Ma il nazionalismo etnico che è alla base del protocollo segreto con cui fu deciso di eliminare le minoranze in seno all’Impero ottomano non è di matrice islamica. Quando si parla di queste cose, distinguere è fondamentale.
Eppure la Turchia continua ufficialmente a negare la realtà del genocidio.
ARSLAN: È vero, anche se qualcosa oggi si sta muovendo, almeno in una parte del mondo turco. Alla fine di ottobre si è svolto a Venezia, presso la Fondazione Cini, un simposio in cui per la prima volta studiosi armeni e turchi si sono confrontati sul genocidio ed è stato affrontato anche il tema del “tabù” che ancora oggi vige in Turchia a proposito delle stragi del 1915.
È l’effetto Europa a smuovere qualcosa?
ARSLAN: Eliminando gli armeni prima e poi cacciando i greci, popoli che per cinquecento anni erano vissuti nella realtà multietnica dell’Impero ottomano, i turchi in realtà tagliarono da sé dei ponti che li rendevano molto più europei di quanto non si sia portati a credere oggi. Credo che se la Turchia guardasse a questo suo passato come a eredità culturale “perduta”, potrebbe far tesoro degli errori di una generazione per entrare finalmente in una prospettiva nuova.
Come prologo al libro, lei ha inserito il ricordo della sua prima visita, da bambina, alla Basilica di Sant’Antonio a Padova, in compagnia di suo nonno Yerwant e della zia Henriette, scampati per vie diverse al genocidio. Perché?
ARSLAN: L’episodio della visita al Santo è un ricordo d’infanzia che ha lasciato in me una traccia, un’impressione profonda: una sensazione di felicità e di protezione che non mi ha più abbandonato; ed è legato intimamente al ricordo dei miei cari che non ci sono più. In quella Basilica immensa, anche troppo grande per la città che la contiene, tra la folla di coloro che sussurrano una preghiera, che s’inginocchiano alla tomba del Santo, che vengono a chiedere una grazia magari da molto lontano, non mi sono mai sentita sperduta. Per mio nonno, che aveva perso oramai la speranza di rivedere la sua patria, era forse l’unico luogo dove poteva sentirsi veramente a casa.


Español English Français Deutsch Português