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VIETNAM
tratto dal n. 05 - 2005

A trent’anni dalla fine della guerra del Vietnam

I sentieri perduti della pace


Il diario inedito di Giovanni d’Orlandi, ambasciatore italiano a Saigon dal 1962 al 1968. La storia mai scritta dell’“operazione Marigold”, una trattativa segreta che poteva fermare la guerra molto prima del ’75. Ma c’era chi preferiva l’odore del napalm...


di Roberto Rotondo


Sopra, il segretario della Difesa 
Robert McNamara (a sinistra nella foto)  
e il segretario di Stato Dean Rusk, con il presidente degli Usa John F. Kennedy; sotto bombardieri B52 
in azione in Vietnam

Sopra, il segretario della Difesa Robert McNamara (a sinistra nella foto) e il segretario di Stato Dean Rusk, con il presidente degli Usa John F. Kennedy; sotto bombardieri B52 in azione in Vietnam

«Preceduto dalla nostra segnalazione cifrata, è venuto a vedermi stasera Lewandowsky che ha ricevuto la circostanziata relazione dell’addetto militare polacco nel Nord Vietnam sul bombardamento effettuato dagli americani il 2 dicembre ad Hanoi. I termini della relazione fanno paura: “bombardamento indiscriminato e selvaggio dei sobborghi meridionali di Hanoi”, “cannoneggiamento e mitragliamento del centro stesso della città”, “il numero di vittime in Hanoi per quel bombardamento tra morti e feriti supererebbe la cifra di 600”». L’8 dicembre del 1966, Giovanni d’Orlandi, ambasciatore italiano a Saigon, scrive queste note sul suo diario. D’Orlandi è sconvolto, ma riporta minuziosamente ogni particolare dell’incontro. La situazione è delicatissima: lui, l’ambasciatore statunitense Henry Cabot Lodge e l’ambasciatore polacco Janusz Lewandowsky hanno aperto un «canale tripartito», come lo definisce d’Orlandi, e da giugno stanno portando avanti, tra mille difficoltà, una trattativa segreta, denominata dagli americani “operazione Marigold”, per fermare la guerra in Vietnam. Il progetto dei tre si basa su un documento di dieci punti che deve essere accettato sia dai vietnamiti del nord che da quelli del sud, nonché dagli americani. Due giorni prima, il 6 dicembre, d’Orlandi era raggiante perché l’accordo sembrava a un passo. Ma la situazione, nel giro di qua­rantot­t’ore si è completamente rovesciata, a causa di coloro che preferiscono l’odore delle bombe al napalm a quello della carta dei trattati di pace. Continua infatti d’Orlandi: «Questo bombardamento famigerato, immediatamente successivo alla fase del nostro tentativo tripartito, ha avuto luogo dopo un periodo di notevole diminuzione dei bombardamenti […]. Lewandowsky ha parole roventi per bollare il bombardamento di quattro giorni fa, a seguito del quale Hanoi gli ha telegrafato il testo di una protesta da diffondere nel mondo civile. Con grande difficoltà Lewandowsky è riuscito a dissuadere Hanoi dal pubblicare tale protesta due giorni fa (proprio il 6!). Continua tracciandomi un quadro desolante delle distruzioni civili, e non militari, dovute ai bombardamenti. Mi dice che in questo modo i negoziati a Varsavia stanno per naufragare prima ancora del loro inizio e mi prega di fare presente al segretario di Stato Rusk (che vedrò a cena domani sera) quanto una simile provocazione sia aberrante. Tutti sanno, mi dice, che se si negozia ci si aspetta una diminuzione dei bombardamenti o quanto meno che essi non accrescano d’intensità; nel nostro caso, a ogni significativa intesa ha fatto seguito un grave inasprimento dei bombardamenti!».
Questo brano del 1966, tratto da una delle oltre mille pagine dattiloscritte che compongono il diario vietnamita che d’Orlandi tenne dal luglio 1962 al dicembre1968, solleva immediatamente una domanda: mentre la crisi del Vietnam stava procedendo sulla strada maestra dell’intensificazione dello scontro militare, ci fu la concreta possibilità di farla deviare sul sentiero stretto delle trattative di pace? Il diario di d’Orlandi ci testimonia che la possibilità c’era, ma la storia ci dice che questo sentiero di pace, aperto dal tripartito di Saigon, fu presto smarrito, e la guerra guerreggiata, anche se mai dichiarata, del Vietnam si fermerà solo il 30 aprile 1975, quando gli ultimi elicotteri Usa decollarono dal tetto dell’ambasciata americana a Saigon, lasciando definitivamente la capitale del Sud ai vietcong vittoriosi. A quel punto si stilarono i bilanci di quella tragedia: vent’anni di guerra, sette milioni di tonnellate di bombe (più di quante ne furono esplose durante tutta la Seconda guerra mondiale) su un territorio poco più grande dell’Italia, sessantamila americani e seicentomila soldati vietnamiti uccisi, tre milioni di morti tra i civili, devastazioni immense di cui ancora oggi il Vietnam, a trent’anni dalla fine della guerra, porta le cicatrici.
La storia completa dell’operazione Marigold, che fu seguita nel 1968 dall’operazione Killy, non è mai stata scritta. Le poche cose uscite sui giornali dell’epoca furono molte volte liquidate ingiustamente come tentativi velleitari. Ma le due operazioni non sono l’unico motivo di interesse del diario totalmente inedito che 30Giorni, in collaborazione con la famiglia d’Orlandi, sta per pubblicare integralmente. Il diario, infatti, avvincente e leggibile come un romanzo storico, ci permette di ricostruire da un punto d’osservazione assolutamente privilegiato tutto il periodo dell’escalation dell’impegno militare Usa in Vietnam. Basti pensare che, alla fine del 1962, i soldati americani presenti in Vietnam (sotto lo status di consiglieri militari) sono 11mila, e nel 1968 arrivano alla cifra record di 580mila. Questi sono gli anni in cui «quel piccolo piscioso Paese», come lo definì il presidente Usa Johnson, che aveva ereditato il problema da Kennedy e lo avrebbe lasciato come eredità a Nixon, da crisi regionale del Sudest asiatico, su cui Stati Uniti e Urss esercitavano la loro pressione, diventò per gli Usa un incubo, uno shock nazionale che cambierà la stessa concezione dell’american way of life e alimenterà le manifestazioni di protesta sessantottine in tutto il mondo.

Diem il “cesaropapista”
Quando, il 17 luglio 1962, sotto una pioggia tropicale battente, Giovanni d’Orlandi, ambasciatore italiano presso il Vietnam, la Cambogia e il Laos, atterra per la prima volta a Saigon, pur sapendo che lo attende un lavoro difficile (è una delle feluche più esperte della Farnesina), non può neanche lontanamente immaginare cosa lo aspetti negli anni a seguire. Il Vietnam che trova è un Paese diviso in due all’altezza del diciassettesimo parallelo dagli accordi di Ginevra del 1954. Accordi mai rispettati, né a nord dal regime comunista di Hô Chi Minh, appoggiato prima dalla Cina e poi dall’Urss, né a sud dal governo del nazionalista cattolico Ngô Dinh Diem, sostenuto fin dal 1954 dagli Usa, perché, secondo la famosa “teoria del domino”, se il Paese asiatico fosse caduto nelle mani dei comunisti, l’intera Indocina e il Sudest asiatico avrebbero subito la stessa sorte.
Uno scenario che, per quanto grave, non è, nel 1962, al primo posto dell’agenda del presidente statunitense John F. Kennedy. JFK, succeduto nel 1961 a Eisenhower, infatti, ha ben altre gatte da pelare: a ottobre deve con un blocco navale, costringere i sovietici a ritirare i missili strategici da Cuba. Il Vietnam, quindi, è solo uno dei molteplici scenari di quella fase storica che è stata definita di “coesistenza competitiva” tra i due blocchi. Fase in cui, in tutte le zone del globo, Usa e Urss cercano di limitare l’influenza del rivale.
D’Orlandi, fin dalle prime pagine del suo diario vietnamita, descrive una situazione politica, economica e militare difficile. Il presidente Diem, acceso nazionalista anticomunista, non riscuote più il successo di un tempo a Washington, e anche nel Vietnam del Sud la sua popolarità sta precipitando. Il suo è un regime a “conduzione familiare”: il fratello Nhu, suo consigliere politico, è la vera eminenza grigia del governo; la cognata, essendo Diem scapolo, è diventata una sorta di first lady; l’altro fratello, Thuc, è l’arcivescovo cattolico di Hué, la città imperiale di fondamentale importanza per gli equilibri sociali e religiosi del Vietnam. Tutti e tre si distinguono per il loro estremismo, la loro arroganza e sete di potere. I cattolici, che rappresentano solo il dieci per cento della popolazione e detengono le leve del potere in ogni campo, già sono invisi per questo al resto della maggioranza buddista, ma il terzetto coinvolge continuamente il mondo cattolico in manifestazioni e prese di posizione intransigenti, anticomuniste e guerrafondaie che nulla hanno a che vedere con la sua fede. D’Orlandi, fin dal primo momento, è preoccupato della situazione religiosa in Vietnam: le repressioni poliziesche delle manifestazioni buddiste, il cinismo della signora Nhu, che dichiarava di voler fornire benzina e fiammiferi per i bonzi che si davano fuoco per protestare contro il regime, le provocazioni dell’arcivescovo di Hué, che sarà poi scomunicato dal Vaticano, non solo esasperavano la situazione politica, ma creavano infiniti problemi a quei tanti cattolici che non si riconoscevano affatto nelle idee della famiglia Diem ed erano alle prese, come il resto della popolazione, con ben altri guai. Uno di questi era il progetto dei villaggi strategici che si stava realizzando: la popolazione delle campagne, tra mille difficoltà, veniva costretta a vivere in villaggi circondati da filo spinato e fortificazioni, per impedire la continua infiltrazione di vietcong e di soldati nordvietnamiti tra i contadini. Lo stesso era stato fatto per i quartieri delle grandi città. Ma i risultati erano disarmanti se non controproducenti. D’Orlandi dedica pagine molto interessanti ai villaggi fortificati, stupito dal fatto che non nascevano solo da motivi strategici, ma anche ideologici: infatti, per la famiglia Diem, come il nemico vietminh faceva discendere le sue tattiche di guerriglia dalla dottrina di Mao Tse-tung, così i villaggi strategici, nati per difendere il contadino dai comunisti, ma trasformatisi in prigioni, traevano ispirazione dalla filosofia personalista francese. Era una sorta di purificazione per la popolazione. Per d’Orlandi, cattolico anche lui, questa è una follia, ma non è l’unica che registra tra i cattolici del Paese, divisi tra fondamentalisti e moderati. In questi anni, d’Orlandi cercherà sempre di aiutare questi ultimi, protestando più volte contro i discorsi guerrafondai sul Vietnam del cardinale di New York Spellman, cercando di far leva sugli appelli di Paolo VI contro la guerra, aiutando come può missionari ed istituti religiosi cattolici.
Nel 1963 d’Orlandi stringe amicizia con l’ambasciatore Usa Henry Cabot Lodge, che lo metterà al corrente del colpo di Stato contro Diem organizzato dai generali sudvietnamiti con l’appoggio degli Usa. Disgraziatamente il 3 novembre Diem viene ucciso dai golpisti: «La più grossa tragedia della guerra del Vietnam» commenterà il capo della Cia William Colby, intuendo che si stavano impantanando in una palude pericolosa.
Ma gli americani sono presto costretti a guardare altrove, perché, venti giorni dopo, viene ucciso il presidente Kennedy a Dallas e gli succede, come detto, il suo vice Lyndon Johnson. Stranamente d’Orlandi non ne riporta in quei giorni le ricadute sulla situazione nel Sudest asiatico.

Il suicidio di un monaco buddista a Saigon per protestare contro la politica del governo di Diem nel 1963

Il suicidio di un monaco buddista a Saigon per protestare contro la politica del governo di Diem nel 1963

L’escalation militare
Quello di Diem fu solo il primo di una serie di colpi di Stato e di manovre che porteranno al governo personaggi come Minh, il generale Khanh e il generale Cao Ky, i quali avranno per le sorti del Vietnam del Sud un effetto devastante quanto la guerriglia vietcong. D’Orlandi in questi anni non è solo un testimone intelligente e per questo scettico sulla possibilità di vittoria da parte del Vietnam del Sud, ma in alcuni casi viene anche sollecitato dalle componenti vietnamite più moderate per far sì che gli Usa non appoggino la salita al potere degli elementi più violenti ed estremisti dell’esercito. D’Orlandi, infatti, può contare in questi anni sulla fiducia dell’ambasciatore Cabot Lodge (che nel ’64 viene però sostituito per essere poi reintegrato l’anno dopo) anche se deve tenere in considerazione l’opera di due falchi come il segretario alla difesa Robert McNamara e il segretario di Stato Dean Rusk, che fino al 1968 sono tra i principali artefici dell’escalation militare Usa in Vietnam.
Un processo che nel diario è seguito e analizzato in ogni particolare: l’attacco nordvietnamita nel Golfo del Tonchino a due navi Usa (incidente del 1964 su cui d’Orlandi nutre molte perplessità e che, come molti, teme sia stato provocato per convincere il Congresso Usa a dare carta bianca al presidente Johnson sul Vietnam); lo sbarco in forze nel 1965 dei marines, che diede il via alle operazioni terrestri su vasta scala dell’esercito statunitense per riprendere il controllo di un territorio, quello sudvietnamita, che sfuggiva sempre di più al governo di Saigon, infiltrato com’era dalle truppe di Hô Chi Minh e dai vietcong, che controllavano a macchia di leopardo ampie zone del delta del fiume Mekong; l’operazione Rolling Thunder del 1965, il primo dei tanti bombardamenti massicci sul Vietnam del Nord, con i quali gli Usa pensavano di costringere i nordvietnamiti alla resa, ma che non produsse mai gli effetti sperati. Scrive infatti d’Orlandi nel suo diario: «Non capisco perché gli americani si ostinino così pervicacemente a voler continuare i bombardamenti giacché le infiltrazioni dei nordvietnamiti invece di diminuire sono quadruplicate. Da fonte autorevole ho appreso che solo nell’ultimo mese non sono state inferiori a 22mila uomini». Ma non è l’unica cosa che d’Orlandi non riesce a spiegarsi, perché, prendendo in esame la componente economica, che per lui non è secondaria a quella militare, il 29 maggio del 1966 scrive: «Se l’aiuto americano sinora stanziato fosse stato distribuito pro capite, ogni famiglia vietnamita avrebbe oggi una casa, un frigorifero, la televisione e l’orto. Vorrei sapere in quale settore civile sia stata creata una solida infrastruttura o quale problema economico sia stato risolto. In questo Paese a fianco dell’affarismo sfacciato, e dell’intrallazzo, si procede senza alcun piano preordinato. Quando l’alluvione ha provocato l’esodo di centinaia di migliaia di persone, tra cui 200mila cattolici, non è stato dato che un pugno di riso e qualche coperta. L’uomo della strada non vede alcun aiuto concreto da parte degli Usa ed è convinto che gran parte dei dollari profusi sia tornato in America, in Svizzera o ad Hong Kong. Come è possibile nell’attuale caos politico-economico-militare controbattere gli argomenti di quei vietnamiti (e sono sempre più numerosi) che sostengono che in tanta corruzione vietnamita e straniera i soli ancora onesti sono i vietcong? Molto si poteva fare, e forse si potrebbe ancora tentare di fare per evitare questo stato di cose, e ben poco è stato fatto. Per quanto mi concerne, ho sempre creduto di dover esprimere con molta franchezza agli amici americani quanto mi constava e quanto mi preoccupava. Quando si dovesse, al Senato e al Congresso, aprire un’ampia inchiesta sugli errori e le colpe che hanno fatto precipitare la situazione vietnamita, non vorrei essere nei panni dei vari dirigenti dell’aiuto economico americano a Washington o nel Vietnam».
Un mese dopo questa amara analisi, il 27 giugno del 1966, d’Orlandi riceve la visita del delegato polacco presso la Commissione di armistizio di Ginevra Janusz Lewandowsky. Costui rappresenta un Paese oltrecortina con stabili rapporti con Hanoi ed è latore di un messaggio che lascia d’Orlandi di stucco: Hanoi è disponibile a un compromesso per la sistemazione del conflitto nel Vietnam, non esige né la riunificazione immediata del Paese, né vuole imporre un sistema socialista al Vietnam del Sud. Però non accetta soluzioni che possano essere lette come una capitolazione ed esige, oltre alla totale segretezza sull’operazione, anche la fine dei bombardamenti. Nei giorni che seguono vengono stilati, insieme all’ambasciatore Usa Cabot Lodge, dieci punti detti “scalini” perché dovevano essere accettati uno dopo l’altro fino ad arrivare all’accordo finale. Il ritmo del diario diventa incalzante, traspare da queste pagine la passione con cui d’Orlandi (sostenuto in Italia dal ministro degli Esteri Amintore Fanfani e da quella parte della Dc che temeva che le proteste contro gli Usa in Vietnam finissero per favorire il Pci) vive il momento più importante ed esaltante della sua carriera. Il presidente Usa Johnson è informato fin dal primo momento del negoziato e sembrano esserci tutti i presupposti per andare avanti. Ma i falchi dell’amministrazione Usa, tra cui Rusk e McNamara, sotterrano il tentativo di accordo sotto una pioggia di bombe. Dopo l’ennesimo raid su Hanoi del 13 dicembre crolla tutto, e i nordvietnamiti chiudono ogni trattativa. Segue un periodo buio, i polacchi vengono anche accusati dagli americani di aver bluffato e d’Orlandi viene tacciato di ingenuità.
Ma anche il presidente Johnson a metà del 1967 comincia a parlare di cessazione dei bombardamenti in cambio di “discussioni produttive” anche se i comandi Usa sono convinti di essere comunque a un passo dalla vittoria militare. Ma l’offensiva del Tet nel gennaio del ’68, con l’attacco simultaneo alle maggiori città sudvietnamite, è una doccia gelata. I vietcong sono dappertutto e, come racconta d’Orlandi nel diario, la reazione Usa è rabbiosa. Per riconquistare Hué alla fine di febbraio, vengono causati migliaia di morti tra la popolazione e i monumenti dell’antica città imperiale ridotti a macerie. Cabot Lodge è già stato sostituito e d’Orlandi, anche per motivi di salute, si appresta a lasciare il suo incarico. Fanfani, invece, lo incarica nel febbraio del 1968 di un nuovo tentativo che lo porterà a incontrare i nordvietnamiti prima a Roma, poi in Cecoslovacchia. I dieci scalini rappresentano ancora la piattaforma più elaborata di accordo, e Fanfani è ben deciso a proporsi come mediatore. Gli Usa rifiutano ancora e l’operazione Killy si arresta. Ma l’epoca Johnson sta finendo. Il presidente non si ricandiderà alle elezioni, a causa della situazione in Vietnam. Si apre l’epoca di Richard Nixon e del suo consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger. Da Parigi ripartono nuove trattative di pace, ma marceranno parallele ad altri sette anni di guerra.
Paradossalmente, proprio nel 1968, quando lo scontro in Vietnam tocca uno dei momenti più drammatici – con Breznev che assicura il completo appoggio militare al Vietnam del Nord e Rusk che dichiara che non è escluso il ricorso alla bomba atomica – Usa, Urss e Inghilterra firmano l’accordo di non proliferazione nucleare, un caposaldo degli equilibri mondiali del secondo Novecento. Prova che l’Urss, a dispetto della teoria del domino, aiutava il Vietnam non per accaparrarsi il Sudest asiatico ma per logorare il suo rivale e “ammorbidirlo” su altri fronti.


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