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COPERTINA
tratto dal n. 09 - 2002

SUGLI ALTARI. Il 20 ottobre la beatificazione di due ragazzi ugandesi

Una piccola, grande storia di grazia


Daudi e Jildo, due giovanissimi catechisti africani martirizzati nel 1918. Non hanno fatto nulla di particolare se non pregare e insegnare a pregare. Ecco la loro storia


di Davide Malacaria


Un’immaginetta 
di Jildo Irwa e Daudi Okelo

Un’immaginetta di Jildo Irwa e Daudi Okelo

«E poi tu, Gildo, sei tanto piccolo!», gli aveva detto il religioso, avendo un qualche presentimento di quella che sarebbe stata la sorte dei due ragazzi. Ma loro erano andati egualmente. E avevano trovato il martirio. Quella di Gildo (Jildo in lingua originale) Irwa e Davide (Daudi) Okelo, due catechisti uccisi nel 1918 in Uganda, è una piccola storia di grazia, semplice e breve, fiorita in soli due anni: questo il tempo trascorso tra il loro battesimo e il loro martirio. È una storia africana, che si svolge in un contesto che può apparire bizzarro ad occhi occidentali, ma che rende testimonianza, ancora una volta, di come Dio ami dare largamente ai poveri e, è questo il caso, ai piccoli. I suoi piccoli. Una storia finora sconosciuta, di quelle che si tramandavano nei villaggi di padre in figlio, da raccontare attorno al fuoco, e che tutti i padri missionari che giungevano in quello sperduto villaggio africano si sentivano ripetere con tanta commozione e venerazione. Loro che pure la conoscevano bene quella storia (i due ragazzi erano diventati cristiani nella loro missione), ma che rimanevano meravigliati nel sentirne parlare in quel modo. Una storia semplice. Di bambini. Che nulla avevano fatto se non pregare ed insegnare a pregare. Come a Dio era piaciuto. Questa piccola storia adesso è stata riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa e, il 20 ottobre 2002, i due piccoli catechisti ugandesi saranno riconosciuti martiri.
La causa di beatificazione di Jildo e Daudi comincia, dopo anni di silenzio, con l’istruttoria avviata negli anni 1952-53 ad opera dei missionari, che raccolgono una ponderosa mole di testimonianze. Tale documentazione prende il nome di “raccolta Albertini”, dal nome di uno dei padri che vi aveva lavorato. Di questi documenti però si perde ogni traccia finché, nel 1996, anno del primo Sinodo diocesano ugandese, si ha un nuovo impulso alle ricerche. I padri comboniani Arnaldo Baritussio e Mario Marchetti sono chiamati, in qualità di postulatore e di vicepostulatore, a coordinare la raccolta delle informazioni. Sono interrogati i testimoni del martirio ancora in vita. Ma poi, nello stesso anno, accade l’imprevisto: è fortunosamente ritrovata, tra le carte degli archivi della missione di Gulu, la “raccolta Albertini”. Il confronto tra le vecchie testimonianze e quelle raccolte negli anni Novanta è sorprendente: corrispondono in maniera impressionante. Una riprova della loro veridicità. La causa, passata al severo vaglio della Congregazione delle cause dei santi, è stata accolta in tempi brevi.

I primi piccoli passi dei santi
La chiesa di Kitgum 
negli anni Trenta

La chiesa di Kitgum negli anni Trenta

È il 1911 quando i Comboniani erigono la prima missione in Uganda, precisamente a Gulu, nel nord. Il Paese africano al tempo è una colonia inglese, anche se il nord non è ancora completamente sottomesso. Da Gulu l’azione dei padri comboniani si dipana in varie direzioni e, nel febbraio del 1915, è eretta la stazione missionaria di Kitgum. Qui i padri trovano l’ostilità dei protestanti, giunti al seguito degli inglesi, e la diffidenza della popolazione locale che, all’inizio, li assimila ai conquistatori che mettono sotto controllo i loro capi, quando non li destituiscono, li obbligano a costruire gratis strade e strutture e a trasportare, sempre gratis, le loro merci. Attorno al fuoco, punto d’incontro del villaggio, i missionari incontrano i vari clan degli acholi, la tribù che vive in questa immensa regione. A poco a poco la diffidenza con la gente locale si stempera, tanto che i religiosi vengono identificati in maniera diversa dai pastori protestanti: questi venivano chiamati munu ingereza, bianchi inglesi, mentre i comboniani sono chiamati munu Khartoum, bianchi di Khartoum (dal nome della capitale del Sudan), ad indicare una diversa vicinanza. In poco tempo gli acholi cominciano a mandare i loro figli a Kitgum per imparare il catechismo e ricevere il battesimo. All’inizio del 1916 nella stazione missionaria vengono amministrati i primi nove battesimi solenni. In quello stesso anno giungono anche Davide e Gildo. Vengono da villaggi diversi. Padre Gambaretto, uno dei primi missionari di Kitgum, ricorda come, durante una delle prime visite al suo villaggio natìo, Gildo, ancora bambino, gli fosse venuto incontro festoso, cosa inusuale nel clima di diffidenza che di solito incontrava. Durante il catecumenato i due ragazzi non fanno nulla di speciale. I loro coetanei non serbano ricordi particolari, se non che si trattava di persone «buone davvero, serie e diligenti». Lo stesso padre Gambaretto annota: «Nulla di speciale, solo la buona vita cristiana di quei tempi». I registri della missione riportano i passi essenziali della loro vita cristiana: è il 6 giugno 1916 quando sono battezzati. Il 15 ottobre dello stesso anno, sempre insieme, ricevono il sacramento della cresima. Davide ha tra i 14 e i 16 anni e Gildo tra i 10 e i 12 (l’età dei battezzati veniva stabilita più o meno a occhio dai padri missionari, mancando documentazione certa sulla nascita). Sugli inizi della vita cristiana viene a mente una frase di un grande santo africano, Agostino di Ippona, che osserva: «Per quanto sia lodata ed esaltata la virtù che senza la vera pietà è utile alla gloria degli uomini, non la si può nemmeno paragonare ai primi piccoli passi dei santi, la cui speranza è posta nella grazia e nella misericordia del vero Dio».
La chiesa di Kitgum negli anni Trenta

La chiesa di Kitgum negli anni Trenta

Ricevuti i sacramenti, Davide torna per qualche tempo al suo villaggio. Un giorno ritorna alla missione a chiedere dei soldi: vuole portare un sussidio alla famiglia di un suo fratellastro, Antonio, che di tanto in tanto si recava ad insegnare catechismo nel villaggio di Paimol ed era morto da poco tempo. Durante quella visita, inaspettatamente, chiede ai padri di poter andare al posto lasciato libero da Antonio. La sua richiesta è accolta e, per alcuni mesi, saltuariamente, si reca a Paimol insieme a un altro catechista. Il piccolo Gildo intanto trascorre la maggior parte del suo tempo alla missione, per lo più a fare lo sguattero delle suore. Il 1917 è un anno terribile per la regione: un’epidemia di vaiolo decima la popolazione. Le adunanze nei villaggi, in cui gli stregoni invocano gli spiriti per allontanare il male, non fanno altro che alimentare il contagio. La missione di Kitgum diventa una sorta di lazzaretto. E, dopo il vaiolo, la carestia…
Padre Mario  Marchetti 
in visita a Wi Polo

Padre Mario Marchetti in visita a Wi Polo

Il giorno di Ognissanti del ’17 si svolge una riunione di tutti i catechisti a Kitgum. Durante la riunione, il ragazzo che aveva affiancato Davide a Paimol chiede di poter svolgere il suo compito in un altro luogo, per stare più vicino alla sua famiglia. Al suo posto va Gildo. Padre Gambaretto annota così la partenza dei due ragazzi: «Io non sapevo chi mandare colà [a Paimol ndr], anzi pensavo se fosse il caso di mandare nessuno. Io temevo per la fame e più per la barbarie famosa di quella popolazione. Ancora non si sapeva nulla di rivolta né per motivi politici né per motivi religiosi». È allora che si presentano i due ragazzi. Il primo a parlare è Davide: «“Padre, se vuoi, andiamo noi due a Paimol”. Esposi loro le difficoltà, ma infine dissi: “Venite domani, vedremo”. Il giorno seguente si presentarono con le loro stuoie e coperte e si fermarono sotto la veranda di fronte alla mia porta. Esco e dico loro: “Dunque siete disposti ad andare a Paimol? Sapete bene che la gente di quel luogo è cattiva e tu, Gildo, sei tanto piccolo!”. “Davide però è grande” rispose “e noi staremo insieme”. “Ma se vi ammazzeranno?”. “Andremo in Paradiso”. “C’è già anche Antonio” soggiunse Davide; “io non temo la morte. Gesù non è morto per noi?”. Io ero commosso, quasi presentivo qualcosa, ma mi scosse Gildo: “Padre, non temere, Gesù e Maria sono con noi”. Mi ritirai, presi il catechismo, libretti e rosario. Uscii, li consegnai ai due giovani inginocchiati sulla veranda, li benedissi, recitammo insieme un’Ave Maria e partirono». I genitori di Davide, conosciuta la sua destinazione, fanno di tutto per farlo desistere. Preghiere, esortazioni e minacce sono vane: Davide parte egualmente, portando con sé Gildo, anche lui sconsigliato dai suoi.
A Paimol sono accompagnati da Bonifacio Okot, capo dei catechisti di Kitgum. Come si usava, i due ragazzi sono presentati alle autorità del villaggio. Il sottocapo Ogal li accoglie calorosamente, gli offre una capanna e gli assicura il vitto. Inizia così, sotto i migliori auspici, la breve missione dei catechisti. Nessuno del villaggio ricorda alcunché di particolare: «Si diportavano bene» è quello che diranno tutti, come un ritornello. Padre Antonio Vignato (dal 1915 a Kitgum e in seguito designato alla guida della prefettura apostolica del Nilo equatoriale, eretta nel 1923), in un articolo per Nigrizia del 1933, descrive per accenni la loro vita da catechisti: Davide era «di temperamento tranquillo e timido, assiduo ai suoi doveri di catechista ed amato da tutti. Al primo albeggiare batteva il tamburo per raccogliere i suoi catecumeni alle preghiere del mattino, a cui aggiungeva per sé e per Gildo la recita del rosario, non potendo assistere alla santa messa. Di giorno si portava da un piccolo villaggio all’altro facendo istruzione di catechismo ora sotto una pianta, ora nell’aperta pianura, ove si trovavano i catecumeni occupati alla guardia del bestiame o nei lavori dei campi. Verso il tramonto dava il segno della preghiera comune e della recita del rosario, che coronava sempre con qualche canzoncina alla Madonna». Gildo, di carattere vivace e gentile, «era di grande aiuto a Davide nel radunare i ragazzetti all’istruzione con le sue maniere delicate e la sua insistenza infantile. Sapeva poi intrattenere tutti con giochi innocenti e con chiassose ed allegre adunanze». Poco a poco i ragazzi del villaggio sono conquistati dalla loro semplice presenza. L’inizio della costruzione di una piccola cappella, che però resterà incompiuta, ne è ulteriore prova.

In cielo
Ma la situazione, tutto ad un tratto, si incattivisce e precipita. Il vecchio capo della zona di Paimol, Lakidi, sostituito alcuni mesi addietro dagli inglesi con una persona più fidata, Amet, dopo mesi di prigionia, ritorna in libertà. E torna al villaggio, dove si scontra con il nuovo capo. L’occasione è data da una caccia allo struzzo: secondo le usanze acholi chi catturava la preda doveva riservare l’ala e una gamba al capo. È Lakidi a catturare lo struzzo, ma rifiuta l’atto di sottomissione. Ne nasce una colluttazione con gli uomini di Amet, in cui perde la vita una figlia di Lakidi. Vista la mala parata, il vecchio capo si dà alla macchia insieme ad alcuni suoi fidati. Diventa così un adwi, come erano chiamati i componenti delle bande di ribelli, spesso protagonisti di fatti di sangue, che girovagavano nella savana. Qui Lakidi trova l’appoggio in una banda di abas, gruppi di abissini e somali che usavano depredare la regione di avorio, ma dedite anche al traffico di schiavi, contrastato in ogni modo dai missionari. Lakidi e i suoi meditano vendetta contro il nuovo capo e gli occupanti stranieri. Ma anche contro quella religione cattolica che pure – il processo di beatificazione lo ha appurato in modo incontrovertibile – non aveva nulla a che vedere con le loro disavventure, cosa risaputa e testimoniata da tutti. Odium fidei, unica spiegazione.
Catechisti in visita alla cappella eretta di recente a Wi Polo

Catechisti in visita alla cappella eretta di recente a Wi Polo

Tutto si svolge durante il fine settimana tra il 18 e il 20 ottobre del 1918. La sera del sabato, Bonifacio Okot, che era catechista in un villaggio vicino, giunge a Paimol con i suoi catecumeni, per passare, come altre volte, la domenica con Davide e Gildo. Ma trova una grande agitazione. C’è in corso una cerimonia di divinazione, presieduta dagli stregoni del villaggio. Questi, nel tempo, avevano accresciuto la loro acredine verso la religione straniera. Per colpa di questa, il loro prestigio religioso andava scemando e conseguentemente il loro ruolo sociale. Alla religione straniera erano attribuite le grandi disgrazie, il vaiolo e la successiva carestia, che avevano falcidiato la popolazione: era la vendetta degli spiriti abbandonati. Un clima di odio che, montato poco a poco, aveva fatto presa sulla gente. E che quella sera era particolarmente tangibile. Bonifacio Okot racconta che, stesa la stuoia nella capanna dei catechisti, più volte gli viene rimossa. Inizia una discussione con la gente del villaggio, ma l’ostilità non accenna a diminuire, tanto che fa cenno ai catecumeni che lo accompagnano di fuggire. Durante l’estenuante discussione Davide e Gildo restano accanto a Bonifacio, in silenzio, tranne sussurrare di tanto in tanto: «Non siamo venuti per la parola del bianco, siamo venuti per la parola della religione». A un certo punto Bonifacio fa anche a loro segno di fuggire, ma replicano: «Abbiamo lavorato nella stessa opera, se è necessario morire, bisogna che moriamo insieme. Queste sono sofferenze connesse con la religione, il Signore ci aiuterà». La discussione va avanti fino alla mattina di domenica, quando Bonifacio viene invitato in una capanna. Fiutando la trappola, fa entrare prima gli altri, poi sale sulla sua bicicletta e scappa. Davide e Gildo invece rimangono. Non si sa bene cosa fanno in quel giorno. In attesa, avranno recitato le solite preghiere. Alla sera si ritirano nella loro capanna: al contrario delle altre notti in cui erano soliti ospitare alcuni dei loro catecumeni, quella notte sono soli. Nel villaggio si era sparsa la voce che Lakidi e i suoi adwi stavano arrivando.
È una spedizione ben organizzata. Un gruppo va ad assalire il villaggio dove risiede il capo Amet, altri si dirigono verso un altro villaggio dove risiedeva un altro sottocapo imposto dagli inglesi. Cinque adwi giungono al villaggio di Davide e Gildo verso le 3.30-4.00 del lunedì, quando “i galli avevano cantato due volte”, come usavano scandire il tempo gli acholi. Entrano nella capanna dei catechisti, trovandoli presumibilmente in dormiveglia e, dopo averli percossi, li trascinano fuori con la forza. Davide piange e dice: «Aiuto… non rivedrò più mia madre». È il più piccolo a confortarlo: «Perché piangi? Se ti uccidono, ti uccidono senza motivo, perché non hai recato danno a nessuno». Davanti alla capanna continuano le minacce e gli scherni. Ai due vengono stracciate le vesti, Gildo viene ferito con un coltello. Nel gruppetto degli assalitori riconoscono due loro ex catecumeni, Opio Akadamoy e Ibrahim Okidi: saranno i loro carnefici. La confusione attira gli altri abitanti del villaggio. Alcuni parenti di Ogal, tra cui un certo Ocok, intervengono a favore dei due. Non possono essere uccisi nel villaggio, spiegano, perché ciò attirerebbe la vendetta degli spiriti. Davide intanto, superato lo sconforto, esclama: «Ocok, se questi uomini vogliono uccidermi, lascia che mi uccidano. Io non sono venuto qua per raccogliere i loro beni, ma soltanto per insegnare la religione». Davide allora è trascinato fuori dal recinto del villaggio e ucciso con un colpo di lancia. Gildo è troppo piccolo, dice uno degli assalitori. Tra le lacrime, il piccolo catechista replica: «Anch’io sono insegnante di religione, come Davide. Abbiamo insegnato insieme e dobbiamo morire insieme». Anche lui è trascinato fuori dal villaggio e ucciso. I corpi dei due ragazzi, diversamente dalle usanze locali, vengono parzialmente seppelliti, presso un termitaio abbandonato. Il luogo della loro sepoltura è chiamato dai loro carnefici Wi Polo, che vuol dire “in cielo”. Un nome dato con disprezzo, con un’accezione di scherno, ma che verrà conservato con gratitudine dai cristiani del posto, che da allora iniziano a farsi seppellire in quel luogo, accanto ai loro martiri, in quel pezzo di terra così vicino al cielo.
Nel corso della ribellione, che infiammò la regione, altri catechisti e i loro catecumeni furono oggetto di minacce e violenze. Una cappella fu data alle fiamme. La rivolta durò tre mesi e fu repressa dall’intervento delle truppe inglesi. Lakidi fu impiccato ma, prima di morire, volle ricevere il battesimo, amministrato dai padri di Kitgum. I due esecutori materiali del delitto ebbero grandi sventure, avendo uno perso la vista ad un occhio e l’altro il braccio rattrappito: una vendetta di Dio, secondo i cristiani del luogo. Per tranquillità sociale, la vicenda dei due catechisti fu lasciata sopire per anni, essendo ancora presenti focolai di ribellione e persistendo vecchi rancori. Solo nel 1926 monsignor Vignato poté recuperare quel che restava delle loro spoglie. Giunto a Paimol trovò un gran numero di persone, molte delle quali divennero cristiane in quell’occasione, che gli parlavano con commozione di Davide e Gildo. Dopo aver pregato con loro, il presule raccolse le ossa di Davide (quelle di Gildo erano state divorate dalle fiere), e le portò alla chiesa di Kitgum, dove sono ancora oggi. E dove continuano ad attirare gente che prega i suoi martiri, «morti per la religione». «Il sangue di questi eroi ha interceduto presso Dio e ha ottenuto e va ottenendo la conversione del paese, miracoli della grazia!», scriveva monsignor Vignato nel 1927. Così Daudi e Jildo, senza aver fatto nulla se non pregare e insegnare a pregare, hanno guadagnato il cielo. Come a Dio è piaciuto.


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