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EDITORIALE
tratto dal n. 07/08 - 2005

Attorno all’Onu


Della riforma dell’Onu si parla da molto tempo e vi sono stati gruppi di lavoro, tentativi di arrembaggio, ricerche di consensi in varie direzioni. Che debba essere riformata tutti sono concordi, tanto da suscitare per il momento una svalutazione globale, che a me sembra ingiusta. Anche perché tesi e antitesi si concentrano sul Consiglio di sicurezza, in una cornice per di più molto contestativa


Giulio Andreotti


La città di Falluja distrutta dai bombardamenti statunitensi dell’ottobre 2004

La città di Falluja distrutta dai bombardamenti statunitensi dell’ottobre 2004

Della riforma dell’Onu si parla da molto tempo e vi sono stati gruppi di lavoro, tentativi di arrembaggio, ricerche di consensi in varie direzioni. Che debba essere riformata tutti sono concordi, tanto da suscitare per il momento una svalutazione globale, che a me sembra ingiusta. Anche perché tesi e antitesi si concentrano sul Consiglio di sicurezza, in una cornice per di più molto contestativa; in quanto sembra ingiusto il protrarsi di un pentapolio legato solo alla vittoria nella Seconda guerra mondiale. Sarebbe peraltro equo mettere in luce il valore positivo delle Agenzie che fanno capo all’Onu; con la loro notevole incidenza in campi molto sensibili: la salute, l’infanzia, i rifugiati.
Nel Consiglio di sicurezza vi sono cinque Paesi stabilmente e dieci a rotazione. Profonde trasformazioni intervenute hanno portato ad attribuire il seggio cinese alla Repubblica Popolare, dopo una lunga protrazione di rappresentatività lasciata all’isola di Taiwan. Anche la Russia, affossata l’Urss, ha mantenuto il seggio stabile con il relativo potere di veto.
Il discorso si è spostato sull’allargamento della pentarchia e su un possibile meccanismo di appartenenza in Consiglio differenziata nel tempo, per gruppi di Stati. Anche l’Italia fece proposte in quest’ultima direzione, che però comportavano una graduazione di importanza forse più sgradita della stessa eredità goduta esclusivamente dai cinque Grandi.
Due Paesi hanno bussato con insistenza per entrare stabilmente nel Consiglio: Germania e Giappone: ambedue contando sul sostegno degli Stati Uniti d’America che sembrava diplomaticamente acquisito.
Il problema della Germania è particolarmente delicato perché mette in luce l’inesistenza di una politica comune estera e di sicurezza. È la direzione che ambiziosamente (e sbagliando) adottammo a Maastricht; e che su questa falsariga è stata ribadita nella bozza di Costituzione redatta sotto la guida del presidente Giscard d’Estaing (creandosi in più un ministro degli Esteri, che si aggiunge ai venticinque esistenti). Forse se l’impegno fosse per una convergenza delle politiche da realizzarsi gradualmente, si potrebbe onorare.
Comunque si era inserita l’ipotesi di una composizione del Consiglio di sicurezza imperniata sui continenti, tanto più dopo l’avvio dell’Unione africana promosso dal colonnello Gheddafi. Apparve subito però la irrealizzabilità, per l’impossibile concentrazione, non solo del Giappone ma dell’India e anche dell’Indonesia.
Da ultimo – e sarebbero state messe in calendario date molto ravvicinate – una iniziativa di riforma è stata proposta da un consorzio formato da quattro Paesi: Brasile, Germania, India e Giappone.
Il modello abbozzato mira ad acquisire consensi; proponendo, ad esempio, l’aggiunta di due seggi africani nel Consiglio di sicurezza con rotazione interna tra gli stessi Stati africani. Non so se per constatazione o soltanto per una speranza i quattro promotori sostengono di avere acquisito i consensi del necessario numero di voti nell’Assemblea generale, fissandosi anzi una sessione straordinaria ad hoc prima delle vacanze estive.
Non è intelligente a mio avviso – lo ripeto – concentrare l’attenzione solo sul Consiglio di sicurezza; invece di fare il punto, ad esempio, sugli adempimenti o non adempimenti del programma per il terzo millennio.
Ricordo un’iniziativa molto felice realizzata con un’Assemblea straordinaria imperniata sui problemi dell’infanzia. Eravamo nel pieno della Guerra del Golfo e, se da un lato l’Onu poteva accreditarsi con questa operazione militare, non ripetendo la solita liturgia degli ordini del giorno di condanna e di deplorazione del tutto privi di conseguenze (vedi i tanti documenti sulla Palestina), si doveva però dare al mondo un segnale positivo della missione dell’Onu stessa. Il concentrarsi su tanti bambini che muoiono di fame e sono privi di assistenza medica e di strutture scolastiche dava una cornice molto qualificante. Ricordo con emozione quella riunione. Per l’ordine alfabetico dei Paesi sedevo accanto all’emiro del Kuwait, che era lì concentrandosi sul problema e lasciando da parte per il momento quelli in corso nel suo Paese per l’iniziativa nefasta di Saddam Hussein.
Sotto un aspetto la Società delle nazioni conseguì un risultato importante: con la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Ma purtroppo la Seconda guerra mondiale fu bilateralmente combattuta non più su fronti di battaglia…
Certamente occorre sfuggire alla mancanza di concretezza in queste assise internazionali. Quando ad esempio – è già accaduto – i capi di Stato e di governo si sono riuniti in sede Fao e hanno preso un impegno, preciso e calendarizzato, di riduzione della fame nel mondo, ci si poteva aspettare che fosse onorato. Per monitorare, come usa dirsi, questi progressi, fu dato incarico all’Unione interparlamentare che ha tenuto specifiche sessioni di verifica. Purtroppo le scadenze non sono state onorate.
A me sembra più importante il riflettere su questo e cercare rimedi che non alimentare suscettibilità e rancori con una riforma del Consiglio di sicurezza. È, ovviamente, il mio pensiero personale. E se, anche attraverso l’azione del nostro Ministero degli Esteri, si troveranno soluzioni accettabili, non mi dispiacerà certamente.
Parlando dell’Onu, non posso non ricordare l’amarezza provata fino agli estremi della sua vita dal presidente De Gasperi per le porte chiuse dell’Onu verso l’Italia sconfitta. Gli Stati Uniti proponevano l’ingresso italiano, bloccato regolarmente dal veto sovietico. Va però detto che il veto sarebbe stato rimosso se a loro volta gli americani avessero desistito dalla opposizione all’ingresso della Romania e di almeno un altro dei Paesi legati a Mosca.
Riuscimmo a entrare all’Onu esattamente cinquant’anni fa; De Gasperi era morto l’anno precedente.
A sessant’anni dalla sua nascita può ritenersi positivo il bilancio dell’Onu? Userei l’immagine del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Nelle cronache dell’Assemblea ricordo i discorsi molto profondi fatti da Paolo VI e da Giovanni Paolo II.
Comunque è un bilancio nettamente superiore a quello della ginevrina Società delle nazioni ideata dal presidente Wilson, che ebbe subito un colpo mortale per la mancata partecipazione degli americani (il Senato sconfessò il presidente).
Sotto un aspetto la Società delle nazioni conseguì un risultato importante: con la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Ma purtroppo la Seconda guerra mondiale fu bilateralmente combattuta non più su fronti di battaglia, ma con bombardamenti delle città e l’assassinio di milioni di civili. Nacque una categoria nuova di vittime: i mutilatini.
Ci si riflette poco. Sembra si abbia paura di definirlo, come fu, terrorismo degli Stati.


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