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ROMA E I SUOI SANTI
tratto dal n. 07/08 - 2005

La parrocchia di “Pippo buono”


Cento anni fa Santa Maria in Vallicella tornava a essere una parrocchia. Lo era già stata ai tempi di san Filippo Neri, le cui spoglie oggi riposano nella chiesa. Qui Filippo raccoglieva intorno a sé i tantissimi ragazzi dell’Oratorio cui aveva dato vita alcuni anni prima


di Paolo Mattei


San Filippo confessa un ragazzo, affresco conservato nella stanza di san Filippo presso il convento di San Girolamo della Carità

San Filippo confessa un ragazzo, affresco conservato nella stanza di san Filippo presso il convento di San Girolamo della Carità

Recentemente hanno rinnovato l’impiantito, ottimo per improvvisare partitelle di pallone o per spericolarsi sugli skateboard. Così, da un po’ di tempo, la piazza antistante Santa Maria in Vallicella, la Chiesa Nuova dove don Filippo Neri teneva l’Oratorio, è sempre più rumorosa e movimentata da ragazze e ragazzi, molti dei quali trascorrono i loro pomeriggi seduti sugli scalini di marmo ai piedi della bianca facciata di fine Cinquecento. Si chiamano, ridono, sfiorano i sorpresi passanti con lanci lunghi o con i propri corpi proiettati a bomba a bordo delle tavolette rotate. Godono del vento che, incanalandosi tra i palazzi di corso Vittorio Emanuele II, invade e scompiglia la “loro” piazza.
Dietro la bianca facciata s’apre uno spettacolo indubbiamente diverso. Ci sono il silenzio e la calma della grande navata centrale e, in fondo, sulla sinistra del presbiterio, la cappellina dove riposano le spoglie di Filippo Neri, “Pippo buono”, il santo fiorentino che, tra il 1534, anno in cui, diciannovenne, arrivò a Roma, e il 1595, anno della sua morte, diede vita all’Oratorio, raccogliendo attorno a sé, come raccontano i biografi, una grande quantità di giovani sfaccendati e oziosi di ogni classe, che egli sapeva attrarre «come la calamita il ferro». Roma si stava ancora curando le ferite che i lanzichenecchi le avevano procurato nella bufera del 1527, quando quest’uomo entrò in città risollevando il buon vento della christiana laetitia che sembrava ormai per sempre caduto. E un chiasso simile a quello di oggi sarà senz’altro risuonato nelle stanze adiacenti alla Chiesa Nuova, quando Filippo si riuniva con «giovani e putti, vecchi, uomini bassi e grandi d’ogni grado» per parlare, leggere, pregare, cantare e fare opere buone insieme, «in spirito di verità e semplicità di cuore», come raccontano i biografi: l’attività dell’Oratorio filippino consisteva essenzialmente in questo.
Prima di stabilirsi in questa zona di Roma, davanti all’attuale corso Vittorio Emanuele, nella “sua” chiesa parrocchiale, la cui edificazione iniziò nel 1575 – proprio l’anno in cui Gregorio XIII eresse canonicamente in Congregazione dell’Oratorio la ventina di sacerdoti amici del santo –, Filippo era diventato prete, aveva abitato per trent’anni a San Girolamo della Carità, era stato per dieci anni rettore di San Giovanni de’ Fiorentini e aveva incontrato un mucchio di persone che lo avrebbero seguito fin qui, felici di aver trovato quell’amico con cui si sentivano a casa ovunque lui si spostasse e che parlava loro del “centuplo quaggiù”, mostrandoglielo con la sua letizia, la sua allegria cristiana. Era il 1583, e Filippo si trasferì nella Chiesa Nuova seguito da un festoso e bizzarro corteo di ragazzi. E qui trascorse il resto dei suoi giorni terreni, continuando a “fare” l’Oratorio, a confessare e a celebrare la messa.
Alla fine della stretta navata di sinistra c’è l’entrata della vasta e bellissima sacrestia. Quattro o cinque poveri stanno seduti su una panca di legno. Due di loro, due donne sulla sessantina, chiacchierano cercando di tenere basso il tono della voce, che s’amplifica e si diffonde comunque sotto l’alta volta. Aspettano padre Peppino, al secolo Giuseppe Ferrari, oratoriano, alla Vallicella da più di sessant’anni. Qui fu ordinato prete il 19 giugno del ’43. Quando arriva, si alzano. Padre Peppino li saluta, fa scivolare nelle loro mani qualche soldo che cava da una tasca nascosta sotto la talare. Poi si allontana.
Padre Peppino lo conoscono tutti da queste parti. È il viceparroco. Ride di cuore se si fa cenno al suo eterno ruolo di “vice”, l’acme di una “carriera” ecclesiastica iniziata più di sessant’anni fa, dopo il liceo a Propaganda Fide, dove ebbe come insegnante di archeologia cristiana Giulio Belvederi e tra i compagni di scuola Raphaël Bidawid, che diventerà patriarca di Babilonia dei Caldei. Alla Chiesa Nuova ha tirato su intere generazioni col catechismo per la prima comunione. Ha confessato chissà quanta gente. Gli sono passate davanti agli occhi tutte le trasformazioni di una città e del suo popolo, fatto di generone e di poveracci, di sopravvissuti alla guerra e di figli della televisione, di «statali di ottavo grado ma vicini a zompà ner settimo», come racconta Gadda nel Pasticciaccio brutto di via Merulana, e di funambolici pattinatori su skateboard. Sta qui praticamente da sempre.
Sopra, la chiesa di Santa Maria in Vallicella, affidata alla Congregazione dell’Oratorio da Gregorio XIII dopo il riconoscimento di quest’ultima; a sinistra, san Filippo distribuisce le corone del Rosario ai fanciulli, incisione del XVIII secolo conservata nell’archivio della Congregazione dell’Oratorio; sotto, la chiesa di Santa Maria in Vallicella in una stampa seicentesca 
di Giovanni Battista Falda

Sopra, la chiesa di Santa Maria in Vallicella, affidata alla Congregazione dell’Oratorio da Gregorio XIII dopo il riconoscimento di quest’ultima; a sinistra, san Filippo distribuisce le corone del Rosario ai fanciulli, incisione del XVIII secolo conservata nell’archivio della Congregazione dell’Oratorio; sotto, la chiesa di Santa Maria in Vallicella in una stampa seicentesca di Giovanni Battista Falda

«L’Oratorio è il luogo dell’orazione e l’orazione stessa», precisa con fare ironicamente didattico, attento all’etimologia e al doppio – triplo, se si include l’Oratorio musicale, nato proprio dall’esperienza filippina – significato del sostantivo. «C’è il bellissimo Oratorio del Borromini, qui accanto, colla facciata concavo-convessa che “abbraccia” la città e il mondo, e c’è l’Oratorio fatto di uomini che si ritrovano per parlare e soprattutto per pregare e fare opere buone». Come accadeva con san Filippo: la mattina confessava e nel pomeriggio, per continuare l’attività del confessionale, incontrava quei suoi amici coi quali ascoltava la Parola di Dio e cantava le laude, perché alcuni di loro erano “musici”, e tra questi probabilmente c’era anche Pierluigi da Palestrina. Poi indicava le opere buone, le opere di carità, specialmente la visita agli ammalati. Ma le distinzioni non finiscono qui. «Sì, quella tra la Congregazione dell’Oratorio, l’Istituto religioso di cui faccio parte, che san Filippo affermava di non aver mai fondato perché, diceva, “la fondatrice è Maria”, e l’Oratorio secolare, quello dei laici che continuano la tradizione degli incontri filippini». L’Oratorio secolare c’è ancora, naturalmente. Lo presiede un laico, il “rettore”, aiutato da un consiglio, anch’esso di laici. Poi c’è il “prefetto”, padre Peppino stesso. E si organizzano sermoni su svariati temi. «Semplici, non accademici. Ma nemmeno prosaici», puntualizza padre Peppino.
La parrocchia di Santa Maria in Vallicella quest’anno compie cent’anni. «Era parrocchia ai tempi di san Filippo» spiega. «Ma nel XVII secolo le attività parrocchiali cessarono. Fu Pio X a istituirla di nuovo, proprio cento anni fa, nel 1905. Da allora abbiamo ricominciato a fare il catechismo per i ragazzi e tutte le attività proprie di una parrocchia».
Naturalmente padre Peppino è un turbine di memorie. Racconta dei grandi parroci della Vallicella con cui ha lavorato, come padre Botton («che da parroco divenne viceparroco: anche lui, come me, ecclesiastico di carriera...») o padre Calesana, confessore, quando era chierico a Brescia, di Montini. Mostra una vecchia fotografia di gruppo in cui si vede un giovanissimo Eugenio Pacelli — «è nato qui dietro, a via degli Orsini, Palazzo Pediconi» — che era il “cerimoniere e turiferario” tra i ragazzi che seguivano padre Giuseppe Lais, un altro importante prete, «romano e romanesco», della Chiesa Nuova.
«A quei tempi c’era il cortile. I ragazzi andavano là. Ora non è più nostro... C’erano anche più padri, e più assistenti...», dice padre Peppino pensando ai giovani “sfaccendati” che popolano oggi il sagrato della Chiesa Nuova. Loro non oltrepassano quasi mai la porta d’ingresso, si fermano fuori, come fa il vento che scompiglia la loro piazza, e molto probabilmente non hanno mai sentito parlare di san Filippo Neri, l’Apostolo di Roma. Al quale andarono dietro, diventando suoi amici, attratti “come il ferro dalla calamita”, molti loro coetanei vissuti più di quattro secoli fa. Naturalmente i paragoni sono inutili. Quella storia, è stato detto, è un passato che ormai non li riguarda più. «Eppure, un po’ dello spirito di Filippo qui è rimasto», conclude padre Peppino.
Nessuno può dire se e quando quell’allegria cristiana così contagiosa tornerà ad attirare a sé, al “centuplo quaggiù”, i ragazzi di piazza della Chiesa Nuova. Queste sono cose che sa il Signore. Intanto loro continuano a godersi questa giornata, «così splendidamente romana», come racconta ancora Gadda nel Pasticciaccio, che forse si sentono rinascere in cuore «un nun socché, un quarche cosa che rissomija a la felicità».


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