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RECENSIONI
tratto dal n. 07/08 - 2005

I signori della città


Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale di Jean-Claude Maire Vigueur è una messa a punto magistrale sulla militia, quella classe che tra la fine dell’XI e la prima metà del XIII secolo svolge le funzioni militari. Assicurando la difesa armata per tutti i cives e ricchi bottini per sé, diventa la classe egemone


di Lorenzo Cappelletti


Jean-Claude Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. 
Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 556, euro 35,00

Jean-Claude Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 556, euro 35,00

Il titolo dell’opera, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, e ancor più i titoli accattivanti dei singoli capitoli possono trarre in inganno, dando da pensare che si tratti di un testo di facile e gratificante lettura. Niente di più fallace. Il testo è arduo, sia per l’argomento sia per l’argomentare sia per la quantità delle argomentazioni (oltre 500 pagine). Dicendo che è un testo arduo non intendiamo prendere le distanze dall’alto, o meglio dal basso di una pretesa di semplificazione. Al contrario intendiamo sottolineare con soddisfazione la sua ricchezza e il suo rigore.
Innanzitutto nel metodo.
In qualunque ricerca storica che si rispetti si deve poter riscontrare l’utilizzazione delle fonti (e, vorremmo dire, soprattutto la loro interpretazione adeguata) insieme all’umile ammissione che non sono e spesso non saranno mai in grado di farci conoscere tutto del passato, sia per la incompletezza delle fonti stesse sia per la limitatezza delle capacità umane. Ebbene, è proprio quanto emerge da ogni pagina del testo in questione. Da una parte Jean-Claude Maire Vigueur ricava tutto quanto è possibile ricavare da una lettura attenta delle fonti, arrivando fino a “dare i numeri”, ad accettare coraggiosamente cioè il rischio di formulare ipotesi in termini quantitativi: che prezzo poteva avere un cavallo da guerra, all’inizio del XIII secolo? Che numero di cavalieri poteva vantare questo o quel grande comune italiano? Qual era la natura e il costo del loro equipaggiamento? E così via. Dall’altra parte, quasi come un ritornello, egli ripete che a tante domande su fatti e meccanismi anche importanti della società medievale non è possibile e forse non sarà mai possibile dare risposta.
Bisogna dunque essere grati a Jean-Claude Maire Vigueur – appassionato studioso francese del Medioevo italiano, come tanti suoi illustri compatrioti, e docente a Lettere e Filosofia a Firenze – che in anni di lavoro (una ricerca seria si misura in anni e non in mesi) si è sobbarcato la fatica di una analisi e di una sintesi affidabili. È cosa non frequente trovare un testo il cui valore d’uso è ben superiore al valore di scambio. Di quanti dei troppi libri in commercio ci si può fidare, quando vi si avverte sempre meno la fatica di una ricerca in prima persona e sempre più e solo un furbo collage? E (sia detto fra parentesi), se di tanti testi non ci si può fidare, viene anche a cadere la condizione di possibilità di qualsivoglia dialogo e di qualsivoglia progresso scientifico, che presuppone che ciascuno possa fidarsi di quanto scritto da altri.
Ma veniamo al merito.
Il libro è una messa a punto magistrale sulla militia, quella classe che nella prima fase (la cosiddetta epoca consolare) dell’Italia comunale, ovvero fra la fine dell’XI e la prima metà del XIII secolo, svolge le funzioni militari e proprio per questo, assicurando cioè la difesa armata per tutti i cives e ricchi bottini soprattutto per sé, risulta privilegiata ed egemone. Non un’élite ristretta, ma «una classe sociale che, in ogni città dell’Italia comunale, è composta da varie centinaia di famiglie» (p. 509). Dalla quale usciranno buona parte dei protagonisti del grandioso sviluppo in Italia delle attività commerciali e finanziarie, ma che inizialmente si avvale essenzialmente dei proventi procurati dalla guerra. La primitiva accumulazione per quello sviluppo, si potrebbe dire, è resa possibile dalla guerra. «La guerra è per i milites, considerati nel loro insieme, un’attività fortemente redditizia» (p. 107), soprattutto in forza del principio di «privatizzazione dei profitti e collettivizzazione delle perdite» (più volte messo in rilievo da Maire Vigueur: cfr. pp. 107. 181 e passim), che governa tale economia guerriera. Economia guerriera più che guerra, perché il vero scopo delle azioni guerresche della militia è il far bottino e il far prigionieri, cioè il riscatto, che avviene comunque in base a delle regole: «In principio ogni prigioniero ha diritto di essere trattato correttamente. La sua resa, soprattutto quando si svolge in conformità al rituale previsto, lo mette sotto la protezione del vincitore. Entrambi sono allora vincolati da una sorta di contratto: il prigioniero non tenterà di fuggire e farà di tutto per ottenere dai suoi il pagamento del riscatto, in cambio del quale il catturatore-vincitore lo tratterà come farebbe con qualsiasi altro compagno dello stesso rango» (p. 85). Mentre «la volontà di degradare e anche di annientare psicologicamente e fisicamente l’avversario è nell’insieme del tutto estranea al trattamento in uso verso i prigionieri nell’età comunale. Quando se ne scopre un indizio, vuol dire che ci troviamo in presenza di una forma di potere molto particolare che esige un riconoscimento totale e incondizionato della sua trascendenza» (p. 85). Come quando – ci sia permessa questa anacronistica analogia – durante la Seconda guerra mondiale si è dato il via, da una parte, allo sterminio programmato di un intero popolo fatto prigioniero e, da tutte le parti, e anche dopo la Seconda guerra, si è proceduto a bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile intrappolata nelle città.
Cavalieri, particolare degli affreschi di Pietro Lorenzetti nella Basilica inferiore di Assisi

Cavalieri, particolare degli affreschi di Pietro Lorenzetti nella Basilica inferiore di Assisi

La classe dei milites è estremamente fluida e duttile ai suoi esordi. Entrava a far parte di essa molto banalmente chi era in grado di mantenere un cavallo da guerra con il relativo equipaggiamento. Maire Vigueur smentisce che ci possa essere una catalogazione dei milites diversa da questa, fatta in base cioè a pretese cerimonie di investitura o a chissà quali altri rituali d’ingresso. Tutto girava attorno a quella formidabile risorsa costituita dal cavallo.
Lo stile di vita predatorio era esercitato dai milites in forma associata – come branchi di lupi, scrive Maire Vigueur (cfr. p. 360) –, ma l’unione vigeva solo all’esterno: «all’esterno guerra e rapina, all’interno odio e conflitto» (p. 511). Una rivalità spietata «oppone gli uni agli altri lignaggi e sistemi di alleanze ben decisi ad accaparrarsi la maggiore quantità di risorse disponibili, si tratti di cariche ecclesiastiche o comunali, di beni delle chiese o della collettività, di donne da sposare o di immobili da acquistare, e via dicendo» (p. 511). Anche il tratto fondamentale della cultura delle stirpi militari è «la presenza ossessiva dell’odio e del conflitto» (p. 388): la cultura della competizione determina a tal punto l’insieme dei comportamenti da fare dell’amicizia una realtà manifestamente subordinata all’inimicizia: «l’amicitia non è altro che la serva dell’inimicitia» (p. 400).
Maire Vigueur si sofferma su città che ben mostrano tale fenomeno, da Venezia a Milano, da Bologna a Perugia, da Firenze a Siena. Roma sembra essere aliena da questa conflittualità permanente, necessaria peraltro alla sussistenza stessa della classe dei milites. Il cardinale Napoleone Orsini così si rivolge «al papa Giovanni XXII che, per provocarlo» scrive Maire Vigueur, «lo trattava da cardinale ghibellino: “Santissimo Padre, io non sono più guelfo che ghibellino e non so bene che cosa vuol dire essere guelfo o ghibellino […]. I romani hanno un gran numero di amici e un gran numero di nemici e contano sull’aiuto degli amici senza chiedersi se sono guelfi o ghibellini […]. Essi aiutano e amano i loro amici quali che siano, ma non troverete mai che un vero romano sia realmente guelfo o ghibellino”» (p. 404). Maire Vigueur giustamente fa notare che, rivolgendosi al Papa, è possibile che l’Orsini non abbia voluto insistere sul peso nella vita dei romani di odi e contrapposizioni. Ma ciò non toglie che quel dialogo riveli chiaramente «il fattore determinante delle relazioni sociali a Roma: non tanto le posizioni che qualcuno può essere indotto ad assumere nel quadro dei conflitti di famiglia quanto i sentimenti di amicizia o di ostilità che ogni individuo intrattiene con un certo numero di persone e di lignaggi» (p. 405). Un bel libro, perché il bello di un libro è la sua serietà.


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