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LETTERATURA
tratto dal n. 11 - 2005

LIBRI

Poetae novi a raccolta


Una ricca antologia raccoglie le liriche di 64 poeti nati a partire dal 1945 ed esordienti dal 1973. Tre degli otto curatori spiegano com’è nato questo lavoro


di Paolo Mattei


Parola plurale, 
Luca Sossella Editore, Roma 2005, 1177 pp., euro 20,00

Parola plurale, Luca Sossella Editore, Roma 2005, 1177 pp., euro 20,00

«…Finiremo / storici calunniosi di noi stessi / le quattro poesiole battute a vuoto contro una cassa che non paga». Chissà che questi versi di Michele Sovente, uno degli artisti presenti nella grande raccolta Parola plurale, non adombrino la mestizia del poeta al cospetto delle sempre più numerose opere di autoantologizzazione messe febbrilmente in circolazione da colleghi in cerca di un’improbabile visibilità. In effetti, accanto e dopo gli illustri esempi delle raccolte “d’autore” curate da poeti (si pensi per esempio a quelle di Fortini e di Sanguineti), negli ultimi trent’anni si sono moltiplicate le crestomazie concepite da verseggiatori antologizzatori di sé stessi e delle camarille dei propri amici. Queste operazioni “endogamiche” – che molto spesso vedono la luce sulle pagine di estemporanee vanity press: ma absit iniuria verbo, perché anche grandi e “storiche” case editrici non hanno disdegnato imprese del medesimo genere affidandone la curatela a nomi di un certo lustro – non sempre hanno fatto bene alla poesia e quasi mai ne hanno aiutato la diffusione. Anzi l’hanno talvolta “calunniata”, veicolando di essa l’immagine di oggetto di culto per pochi iniziati. E hanno offerto il destro a chi, anche tra i critici, ne proclamava la morte, o perlomeno l’inutilità a fronte del moltiplicarsi delle pubblicazioni.
È anche a partire dalla lucida constatazione di tali aspetti negativi che gli otto giovani “critici non-poeti” di Parola plurale hanno avuto l’idea di fabbricare questo ricchissimo volume in cui sono raccolti i versi di sessantaquattro scrittori nati a partire dal 1945 ed esordienti dal 1973: un’opera, come si vede dal numero dei nomi messi in campo, generosa, che sicuramente si presta meno di altre al comunque inevitabile gioco-dibattito sugli esclusi. «Abbiamo constatato come negli ultimi decenni l’eccesso di coonestazione reciproca fra poeti abbia finito per elevare delle paratie, steccati di scuola e di corrente in realtà artificiali che non avevano più niente a che fare con quelli più o meno considerati legittimi, a torto o a ragione, degli anni Cinquanta e Sessanta». Andrea Cortellessa, classe 1968, è uno degli otto «guastatori», come si autodefiniscono nell’introduzione, che hanno provato, da una parte, a «coinvolgere la critica giovane, visto che quella delle generazioni precedenti era stata pigra nei confronti della poesia, si era arresa di fronte al mareggiare delle proposte». E dall’altra «a rinunciare all’idea di antologia d’autore, che ha sì una nobile tradizione – la poesia italiana del Novecento si può raccontare attraverso una successione di antologie d’autore: Papini-Pancrazi, Anceschi, Contini, Fortini, Sanguineti… –, ma che rischia di rappresentare solo un manifesto dell’ideologia di una o due grandi personalità intellettuali. Quello che si è voluto fare con questo libro» continua Cortellessa «è una cosa del tutto diversa: partire dal lavoro di otto critici che non scrivono versi, partire cioè da una condizione più esterna al mondo della poesia».
I curatori di Parola plurale – che hanno in comune una formazione prettamente filologica e storico-letteraria e un intenso interesse per il fatto letterario come esperienza conoscitiva – si sono divisi la responsabilità della scelta dei testi e dell’introduzione critica a ognuno dei sessantaquattro autori antologizzati. Ma ogni inclusione è stata decisa collegialmente, sulla base di letture incrociate. «Per alcune scelte ci siamo scontrati, abbiamo dovuto votare a maggioranza», spiega ancora Cortellessa.
Che cosa ha condotto gli otto critici militanti a individuare questo tipo di scansione cronologica (poeti nati dopo il ’45 e ufficialmente operativi dal ’73)? «Per quanto fondata, ogni periodizzazione presenta un margine di arbitrarietà», osserva un altro di loro, Massimiliano Manganelli, nato nel 1966. «Nel caso del ’45, naturalmente, c’è una data simbolica molto netta. Il 1973 invece è il momento in cui si iniziano ad avvertire segnali nuovi dopo alcuni episodi essenziali della poesia novecentesca. Siamo a pochi anni dalla fine della Neoavanguardia, dalla pubblicazione della Beltà di Zanzotto, a due dal Montale di Satura, eppure il clima che si respira è già diverso. La generazione dei poeti che nasce nel secondo dopoguerra ha in comune – ed è questo che la distingue da quella che l’ha immediatamente preceduta – la circostanza di essere meno intimidita dall’ombra di alcune figure ingombrantissime, e penso, su tutti, a Montale; ciò nonostante è consapevole di venire dopo, di arrivare quando tutto sembra già detto».
È proprio oltre questa falsa apparenza di “già detto”, e, quindi, di inutilità, che Parola plurale riesce forse, spes contra spem, a guardare e a far guardare chi ne affronti la lettura: «La poesia degli ultimi trent’anni ha costituito una parte importante delle riserve di immaginario del nostro Paese», osserva Fabio Zinelli, classe 1965, un altro “guastatore”: «Ha avuto una funzione importantissima sul governo della nostra lingua, e l’ha fatto mantenendo vivo il suo rapporto con la tradizione proprio perché ha mantenuto sempre aperta la speranza del nuovo».


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