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CINEMA
tratto dal n. 11 - 2005

Il vento d’Oriente


L’interesse per il cinema asiatico non è più un fenomeno di nicchia. Un terzo dei film presentati a Cannes, Venezia o Berlino proviene dall’Asia e i registi cinesi e coreani sono sempre più seguiti e apprezzati. Ecco come è nato un nuovo polo d’attrazione del cinema mondiale


di Antonio Termenini


Quando, nello scorso mese di luglio, Marco Müller, direttore della Mostra del cinema di Venezia, ha annunciato, in conferenza stampa, che il film inaugurale della sessantaduesima edizione sarebbe stato Seven swords del regista di Hong Kong Tsui Hark, forse è terminata definitivamente l’idea che l’esplosione, avvenuta negli ultimi decenni, del fenomeno del cinema asiatico su tutti i mercati mondiali fosse un fenomeno di nicchia, per qualche folto gruppo di cinefili o di intellettuali affascinati dall’esotismo asiatico.
In queste pagine, alcune immagini 
del film Seven swords;

In queste pagine, alcune immagini del film Seven swords;

Certo, prima c’erano stati altri importanti fenomeni come Hero del cinese Zhang Yimou e La tigre e il dragone, altri due wuxiapian (racconti basati sulla tradizione orale e letteraria cinese antecedente alla nascita di Cristo, con al centro combattimenti tra abili spadaccini e indomiti guerrieri), ma la solenne apertura di uno dei tre festival più importanti del mondo affidata a un tradizionale wuxiapian che unisce la spettacolarità tipica di Tsui Hark – definito, non a caso, lo Spielberg d’Oriente, per la sua capacità di unire senso degli affari e senso dell’arte – e il realismo dei Sette samurai di Akira Kurosawa, ha definitivamente consacrato anche a livello “istituzionale” l’ascesa del cinema orientale.
Tutto era cominciato nel 1991 quando le geometrie del potere che soffocavano e strumentalizzavano la condizione femminile nella Cina degli anni Venti nello splendido Lanterne rosse di Zhang Yimou colpì non solo la giuria di quella edizione del Festival di Venezia, che gli assegnò il Leone d’Argento per la miglior regia, ma tutto il pubblico occidentale. Seguirono altri film di Zhang Yimou – come La storia di Qiu Ju e Vivere! – e di Chen Kaige – come Addio mia concubina, vincitore del festival di Cannes nel 1993 – che ci fecero comprendere come i cineasti della quinta generazione cinese, usciti dall’incubo della Rivoluzione culturale, riuscivano finalmente a mostrare l’attuale e frenetica trasformazione di quel Paese attraverso grandi racconti metaforici, di respiro epico, in cui la solennità dello stile si univa alla forza del messaggio.
Sempre in quegli anni, grazie anche ad alcune importanti retrospettive (su tutte quelle del Festival di Pesaro nel 1988 e del 1998), si scoprì anche l’esistenza del cinema di Taiwan, capace di raccontare la propria tormentata storia, passata dalla dominazione giapponese agli attriti con la Cina continentale, attraverso vicende private, di sofferenza, tramandate di generazione in generazione, con uno stile minimalista, estremamente rigoroso che, per certi versi, nella sua osservazione distaccata ma oggettiva del reale, rimandava al nostro neorealismo del secondo dopoguerra.
Nomi come Hou Hsiao-hsien – vincitore a Venezia nel 1989 con Città dolente e di altri numerosi premi al Festival di Cannes negli anni successivi – ed Edward Yang diventavano familiari per un gruppo piuttosto ampio di addetti ai lavori. La sesta generazione dei cineasti cinesi, tra cui occorre annoverare almeno Wang Xiao Shuai e Zhang Yuan, riusciva, finalmente, a raccontare la Cina tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo millennio non più attraverso metafore, ma con realistiche ambientazioni contemporanee che spesso cozzavano con i dettami dell’inflessibile censura interna, ma che quando varcavano i confini nazionali ottenevano significativi successi.
Il 1997 è stato, invece, l’anno della consacrazione, nel nostro Paese come in tutta Europa, per Takeshi Kitano, regista giapponese, conosciuto in patria più per le sue performances come commentatore di partite di calcio e come intrattenitore televisivo che per le sue doti di cineasta. Eppure, la sua elegia malinconica, il suo umanesimo dolente, il gusto per una comicità dissacrante che trova le sue origini in Buster Keaton e Charlie Chaplin, hanno conquistato tutti a partire da Hana-bi, Leone d’oro al Festival di Venezia 1997. Da allora si sono aggiunti molti premi, con L’estate di Kikujro, Zatoichi, fino all’ultimo Takeshi’s. Era da molti anni che non si parlava più di cinema giapponese, a parte qualche perla preziosa di raffinata bellezza come Morte di un maestro del the di Ken Kumai o Sogni di Akira Kurosawa. Kitano è entrato invece nel cuore degli spettatori, non necessariamente cinefili, proprio per la sua poliedricità, per la capacità, quasi unica, di passare dalla commedia alla tragedia all’interno di un’unica storia, di un unico film.
qui accanto, il regista Tsui Hark

qui accanto, il regista Tsui Hark

Un successo così evidente, anche a livello di incassi, in questi anni, tra i registi orientali, lo ha raggiunto solo Wong Kar-way, il maestro del cinema di Hong Kong che, con le sue forme barocche, il suo sentimentalismo manierato, ha prima folgorato Cannes nel 2000 con In the mood for love (storia di un amore mai consumato, fatto di sguardi e di appuntamenti mancati, di messaggi mai letti e di struggenti abbandoni) sconcertandola e affascinandola poi con il seguito di In the mood for love, 2046, prodotto anche con capitali italiani.
Gli ultimissimi anni sono quelli dell’arrivo in Europa, sull’onda dello straordinario successo commerciale in patria, dei film coreani, con Kim Ki-duk e Park Chan-wook su tutti, con titoli come Ferro 3, L’arco, Old boy e Lady vendetta.
La particolarità del cinema coreano rimane quella di essere originale anche quando affronta i temi più tradizionali come una storia d’amore, di amicizia e tradimento o storie di solitudini metropolitane attraverso il filtro di una forte autorialità, che rende ogni opera unica e a sé stante.
Del successo del cinema asiatico si sono accorti tutti, direttori di festival, distributori e produttori, cinefili e semplici spettatori. In pochi anni il Festival di Pusan, in Corea del Sud, è diventato uno degli appuntamenti imperdibili della stagione cinematografica; a Cannes, Venezia e Berlino i film asiatici in concorso arrivano a coprire quasi un terzo del numero totale.

Anche in Italia le rassegne più tradizionali, il Festival di Pesaro e quello di Torino hanno dedicato ampie sezioni del loro programma, tra cui importanti retrospettive, a cineasti, attori, sceneggiatori e compositori provenienti dal Sud-est asiatico. A partire dal 2000, poi, sono nati eventi ancora più specifici, come Asiatica Film Mediale e l’Asian Film Festival, entrambi con sede a Roma. Quest’ultimo, nato come Taiwan Film Festival, ha, poi, allargato i propri orizzonti a tutta l’area geografica del Sud-Est asiatico, invitando, negli anni, per le retrospettive complete, registi come il cinese Wang Xiao Shuai e i taiwanesi Tsai Ming-liang e Hou Hsiao-hsien.
La terza edizione, svoltasi alla Sala Troisi di Roma dal 31 ottobre al 6 novembre, ha visto la presenza di film di grande interesse, da Izo di Takashi Miike a A bittersweet life, film coreano di imminente uscita sugli schermi italiani, da The world del cinese Jia Zhnagke a The president’s last bang di Im Sang-soo.
Ad aggiudicarsi il premio come miglior film, assegnato dalla giuria composta da Marco Ceresa e Giulia Sbarigia, è stato il giapponese Nobody knows di Hirokazu Koreeda, regista dallo stile minimalista e struggente allo stesso tempo, tra i più talentuosi del cinema mondiale contemporaneo.


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