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CHIESA
tratto dal n. 06 - 2003

DOPO IL SIMPOSIO DEL CONSIGLIO PER L’UNITà DEI CRISTIANI

La necessitas Ecclesiae criterio per l’esercizio del primato


Intervista con Hermann Josef Pottmeyer, membro della Commissione teologica internazionale e professore emerito di Teologia fondamentale presso l’Università di Bochum


di Gianni Valente


Hermann Josef Pottmeyer

Hermann Josef Pottmeyer

«Se si paragona la teologia a un paesaggio, la tradizione teologica intorno al ministero petrino assomiglia a una regione di frontiera tra due Paesi da lungo tempo nemici. Si inciampa dappertutto sulle tracce dei combattimenti: antiche trincee, vecchi bunker e, tra i residuati bellici più pericolosi, alcune mine. La mina più pericolosa qui in superficie è il dogma sul primato del successore di Pietro, pronunciato al Concilio Vaticano I».
Con quest’immagine suggestiva Hermann Josef Pottmeyer ha introdotto la sua relazione al Simposio romano sul ministero petrino, dedicata ai “Recenti dibattiti sul primato in rapporto al Concilio Vaticano I”. Membro della Commissione teologica internazionale e professore emerito di Teologia fondamentale presso l’Università di Bochum, Pottmeyer da anni ha concentrato le sue ricerche intorno al ruolo del Papa e alle modalità storiche del suo esercizio. Sapeva bene che dal punto di vista ecumenico, l’argomento a lui affidato costituiva la “patata bollente” del convegno. Come sarà mai possibile ristabilire l’unità tra la Chiesa cattolica e le Chiese orientali, dopo che il Concilio Vaticano I ha dichiarato l’infallibilità del vescovo di Roma e la sua giurisdizione universale su tutta la Chiesa?
Nella sua relazione, il professore ha tentato di dimostrare che c’è una possibilità di «disinnescare la mina».

Professore, al Simposio le è toccato di trattare il punto più spinoso…
HERMANN JOSEF POTTMEYER: In effetti, non sorprende che i dialoghi ecumenici tra le Chiese abbiano finora evitato di confrontarsi con i dogmi sul primato di giurisdizione del Papa e sulla sua infallibilità, definiti dal Concilio Vaticano I.
Hans Küng proponeva di “annullare” il dogma con giustificazioni formali, perché al momento della formulazione il Concilio era condizionato dalla situazione storica e non era libero. Fu anche sospeso per la guerra. Qual è invece la sua proposta?
POTTMEYER: Secondo Küng il Vaticano I aveva definito il primato come una monarchia papale assoluta e l’infallibilità papale come un’infallibilità a priori, introducendo elementi incompatibili con la Bibbia e con la Tradizione della Chiesa. Ma il Concilio Vaticano I non merita la fama negativa che lo accompagna. Il fatto è che ha prevalso nei secoli XIX e XX un’interpretazione massimalista dei due dogmi, quella che era già sostenuta dalla maggioranza del Concilio Vaticano I, e che ne ha determinato fino ad oggi l’immagine, dentro e fuori la Chiesa cattolica.
Questo complica le cose. Come se ne esce?

POTTMEYER: Occorre verificare se è possibile una rilettura e una nuova ricezione dei dogmi del 1870, sulla base di un’altra interpretazione, diversa da quella massimalista che ha prevalso, anch’essa riconosciuta legittima, e che sia conciliabile con l’ecclesiologia di comunione indicata dal Concilio Vaticano II e anche con modalità diverse dell’esercizio del primato. Ora, questa interpretazione esiste: è quella che fu espressa già dalla minoranza del Concilio Vaticano I. È documentata dagli atti del Concilio e da alcune dichiarazioni ufficiali del magistero stesso, fatte dopo il Concilio, con l’intento di mettere il dogma al riparo da malintesi.
Entriamo nel concreto. Ci può indicare per cenni i fatti e le interpretazioni che si intrecciarono al Concilio nel 1870?

POTTMEYER: Innanzitutto si deve dire che la formulazione e la comprensione del dogma furono segnate dalla situazione storica dell’Europa occidentale e centrale del XVIII e XIX secolo. Dove gli Stati moderni, a partire dall’epoca delle monarchie assolute, puntavano ad affermare la piena sovranità sul proprio territorio, anche in merito agli affari ecclesiastici.
Con quali conseguenze, per la vita della Chiesa?
POTTMEYER: L’esempio classico era il dominio dello Stato sulla Chiesa in Francia, dove il re, che nominava i vescovi, si era opposto perfino all’applicazione in territorio francese della riforma stabilita dal Concilio di Trento. Il gallicanesimo, come venne chiamata l’ideologia che ispirava questo sistema, era stato ripreso a modo suo anche dalla rivoluzione francese e poi dalla restaurata monarchia francese, per poi divenire un modello costante perseguito anche dalle classi dirigenti di altri Stati europei. Senza contare che il dirigismo dello Stato nell’Ottocento si mescolava agli inquietanti sviluppi spirituali europei, dove materialismo, ateismo e razionalismo mettevano in questione i fondamenti della fede cristiana.
Una situazione che aiuta a capire la reazione dentro la Chiesa, che prese la forma del cosiddetto “ultramontanismo”.

POTTMEYER: Per i cattolici ultramontanisti un rafforzamento del papato rappresentava l’unica speranza per resistere ai disegni dei governi nazionali che volevano sottomettere al proprio controllo la sfera ecclesiastica. Davanti al pericolo, per loro era necessario in quel momento affermare la sovranità del papa sulla Chiesa, ossia la piena indipendenza del suo potere giuridico all’interno, al fine di garantire l’indipendenza della Chiesa all’esterno. In questa visione, i singoli vescovi, legati a interessi nazionali ed esposti alle pressioni del potere secolare, non erano in grado di tutelare da soli l’indipendenza della Chiesa. E ogni rivendicazione di una partecipazione dell’episcopato alla direzione della Chiesa che fosse in qualche modo posta in dialettica con la guida del papa su tutta la Chiesa poteva essere vista come un tentativo di frammentare e limitare la sovranità papale. Rischiando di dividere la Chiesa cattolica in una serie di Chiese nazionali.
Come influì questa situazione sui criteri e le intenzioni del Concilio?

POTTMEYER: Al Concilio non ci fu alcuna disputa su due punti: il fatto che Cristo stesso ha stabilito Pietro come primo tra gli apostoli e capo visibile della Chiesa sulla terra, e il fatto che il pontefice romano, come successore di Pietro, ha il primato su tutta la Chiesa. Tutti erano d’accordo che ribadire questi punti fermi rispondeva all’esigenza del momento, secondo il criterio della necessitas Ecclesiae, davanti alle minacce reali che pesavano sull’unità e la libertà della Chiesa e davanti ai pericoli per la fede.
Allora, su cosa si divisero i padri conciliari?

POTTMEYER: Le spinte per rafforzare l’autorità del papa partivano come si è visto dalla base della Chiesa. Ma la volontà di opporre una reazione estrema agli attacchi esterni provocava un nuovo pericolo. Il fatto di dichiarare il papa monarca assoluto della Chiesa avrebbe significato la rottura con la costituzione divina e con la tradizione della Chiesa. E in effetti, la prima bozza sottoposta all’esame dei padri conciliari si fondava su una concezione estrema del primato inteso come sovranità monarchica.
Il Concilio voleva mettere in evidenza che le decisioni del papa sono senza appello, secondo il principio tradizionale per cui «Prima Sedes a nemine iudicatur». Ma dai dogmi da esso promulgati non si può dedurre la sovranità assoluta del papa. E nemmeno si può dedurre che l’attuale modalità fortemente centralizzata di esercizio del primato sia l’unica compatibile con i dogmi del 1870. Tale modalità va misurata secondo il criterio flessibile della necessitas Ecclesiae, lo stesso seguito dal Concilio Vaticano I…
Quali reazioni vi furono?
POTTMEYER: Nella discussione del progetto, i vescovi che formavano la minoranza del Concilio ribadirono che la Chiesa non è una monarchia assoluta. Che alla costituzione divina della Chiesa, oltre all’autorità suprema del papa, appartengono anche quella del collegio episcopale e l’autorità dei singoli vescovi, che non sono dei semplici “vicari” del papa. Le critiche della minoranza si concentrarono proprio sulla designazione della giurisdizione papale come potere «ordinario, immediato e veramente episcopale».
Cosa contestavano in tale definizione?
POTTMEYER: In essa, la giurisdizione papale appariva loro come un potere concorrente, che scalzava il potere ugualmente «ordinario, immediato e veramente episcopale» del vescovo nella propria diocesi. Secondo i vescovi della minoranza, doveva essere sottolineato il carattere sussidiario dell’intervento diretto del papa nelle Chiese locali. E doveva essere chiaro che il papa non è un “vescovo universale”, che può considerare la Chiesa tutta intera come se fosse la propria diocesi.
Quale risposta trovarono, nel corso dei lavori conciliari, le osservazioni della minoranza?
POTTMEYER: Il portavoce della commissione responsabile rispose alle obiezioni fornendo chiarimenti solitamente ignorati, ma che ancor oggi sono essenziali per l’interpretazione del dogma…
Ce li può riassumere?
POTTMEYER: Innanzitutto, disse che non c’era alcun rischio di arrivare a concepire la Chiesa come una monarchia assoluta sotto il papa. Il primato, per rimanere fedele alla costituzione divina della Chiesa, era tenuto a rispettare l’autorità del collegio episcopale e dei singoli vescovi. I pronunciamenti in preparazione avevano solo l’intento di escludere che una qualsivoglia autorità umana avesse il potere di limitare in qualche modo l’autorità papale.
E sui rapporti tra papa e collegio episcopale?

POTTMEYER: Secondo le dichiarazioni del portavoce, si poteva legittimamente affermare che nella Chiesa il potere giuridico pieno e supremo esisteva sotto due forme: quella esercitata dal collegio episcopale in comunione con il romano pontefice, suo capo, e quella che apparteneva al papa in quanto capo visibile della Chiesa, indipendentemente da un’azione comune con gli altri vescovi. In effetti, il mandato di Cristo riguardava sia l’insieme degli apostoli con a capo Pietro, che Pietro da solo. Ma le due forme non potevano in alcun modo essere considerate come dei poteri separati e in concorrenza tra loro, come faceva la concezione gallicana.
E sulla definizione del papato come potere «ordinario, immediato e veramente episcopale» quali chiarimenti furono forniti?

POTTMEYER: Fu chiarito che tale definizione non equivaleva affatto a considerare normale un intervento permanente del papa nelle diocesi. Il termine “ordinario” era piuttosto impiegato in opposizione al termine “delegato”, e voleva sottolineare che il primato è fondato non su una delega da parte della Chiesa, ma sul mandato di Cristo a Pietro. Inoltre, voleva garantire il fatto che quando la necessitas Ecclesiae lo esige, il papa può intervenire in ogni parte della Chiesa, senza passare per mediazioni e autorizzazioni previe di altre istanze. Anche qui, si intendeva innanzitutto contrastare la concezione gallicana che considerava qualsiasi intervento del papa in una diocesi come una lesione ai diritti riservati e attribuiti sacramentalmente al vescovo locale.
Perché questi chiarimenti sono così decisivi?
POTTMEYER: Perché aiutano a cogliere le reali intenzioni del Concilio. Il Concilio non puntava a restringere i diritti dell’episcopato garantiti per legge divina o a definire il primato come una sovranità monarchica assoluta del papa. Voleva sicuramente insegnare che il papa ha una piena libertà d’azione, quando la necessitas Ecclesiae lo esige, e che le sue decisioni sono senza appello. Nessuna istanza umana, fossero il potere civile o anche il Concilio, poteva fissare limiti alla sua missione, quando entrava in gioco il criterio decisivo della necessitas Ecclesiae.
Queste intenzioni come furono tradotte nel testo definitivo adottato dal Concilio?
POTTMEYER: Le distinzioni e le sottolineature della minoranza trovarono accoglienza nel preambolo e nei capitoli fondamentali della costituzione Pastor aeternus, dove si ribadiva che la missione apostolica era stata affidata da Cristo a tutti gli apostoli, che l’obiettivo primario del primato era l’unità dell’episcopato e che il Concilio intendeva definire il primato e l’infallibilità del papa nel rispetto della Tradizione universale della Chiesa, con riferimento anche alla Tradizione della Chiesa ancora indivisa del primo millennio. In particolare, riveste importanza il terzo capitolo…
Quali punti tratta?

POTTMEYER: In esso si sottolinea che il primato non è una minaccia per il potere ordinario e immediato dei vescovi, che era la questione su cui più insisteva la minoranza. Nello stesso capitolo si circoscrive anche quale era l’obiettivo specifico che in quel momento rendeva necessaria la definizione del dogma del primato. Si trattava di difendere il mandato affidato da Cristo al successore di Pietro dalle teorie gallicane, secondo cui le decisioni del papa potevano essere sottomesse all’appello del Concilio ecumenico e il potere civile poteva legittimamente impedire la libera comunicazione tra papa e vescovi e dichiarare senza effetto i decreti pontifici sul proprio territorio. I dogmi si riferivano a questi punti precisi, e non specificavano in forme stabilite e definitive la modalità di rapporti tra primato e episcopato.
Rimane il fatto che nelle formule canoniche di definizione finale del dogma non si trovano cenni alla collegialità dei vescovi…
POTTMEYER: Ma gli atti del Concilio dimostrano che la dottrina del potere ugualmente pieno e supremo del collegio episcopale era considerata come un dato della Tradizione. Il taglio unilaterale e, per così dire, mirato delle formule canoniche va misurato in relazione all’obbiettivo specifico che si proponeva il Concilio. Il gallicanesimo metteva in discussione il potere anch’esso pieno e supremo del papa, che lo autorizzava ad agire anche indipendentemente da ogni partecipazione dell’episcopato. Le formule canoniche avevano la funzione circoscritta di ribadire l’universalità e l’estensione del primato, al quale nessuna istanza umana poteva porre limiti. Questa loro funzione circoscritta non implicava la necessità di fare riferimenti alle modalità più appropriate di esercizio del primato, rispetto anche alle competenze dei vescovi. Perciò nei canoni non fu incluso alcun riferimento alla collaborazione dell’episcopato alla guida della Chiesa, anche per evitare che tale riferimento fosse strumentalizzato dalle posizioni gallicane. E poi, il silenzio dei canoni su questo argomento aveva anche altre ragioni…
A cosa si riferisce?

POTTMEYER: La commissione competente respinse la richiesta della minoranza di esporre nella Pastor aeternus la dottrina della corresponsabilità dell’episcopato, anche perché sapeva che essa sarebbe stata trattata in seguito. Infatti la dottrina del ministero episcopale e del collegio episcopale avrebbe dovuto essere trattata dentro la seconda costituzione, quella sulla Chiesa. L’esame di questa costituzione non ebbe mai luogo, perché il Concilio fu interrotto prima del tempo a causa della guerra franco-tedesca. Ma noi ne conosciamo la bozza. E in essa il potere pieno e supremo del collegio episcopale vi era definito come «fidei dogma certissimum».
Catacombe di Priscilla, la cappella greca

Catacombe di Priscilla, la cappella greca

Nella sua relazione, lei documenta che fu proprio il carattere unilaterale e limitato dei canoni a far sì che l’interpretazione massimalista del primato come sovranità assoluta potesse in qualche modo richiamarsi al dogma del 1870.

POTTMEYER: Tale interpretazione ha giustificato di fatto l’esercizio sempre più centralista del primato. E a sua volta, il centralismo crescente nell’esercizio del primato, che ad esempio si è espresso nella promulgazione del Codice di diritto canonico con le disposizioni legali obbligatorie per tutta la Chiesa, ha rafforzato l’impressione generale che il dogma avesse effettivamente definito il primato come una sovranità assoluta. Nonostante fin da subito alcuni importanti interventi del magistero avessero di fatto smentito questa interpretazione…
A quali interventi si riferisce?

POTTMEYER: Ad esempio, alla dichiarazione congiunta dell’episcopato tedesco. Nel 1872 il cancelliere Bismarck, con una lettera circolare, aveva messo in guardia i governi europei rispetto al fatto che con quel dogma i vescovi dei loro Paesi erano divenuti dei meri strumenti del papa. Tre anni dopo, i vescovi tedeschi nel loro intervento risposero che è quindi un «errore capitale credere che, per le decisioni del Concilio Vaticano, “la giurisdizione episcopale sia assorbita dalla giurisdizione papale”, che il papa sia “in teoria subentrato al posto di ciascuno dei vescovi”, che “i vescovi non siano più se non strumenti del papa e officiali senza responsabilità personale”». Erano le stesse interpretazioni illegittime che il Concilio stesso, rispondendo alle apprensioni della minoranza, aveva rifiutato. Lo stesso Pio IX citò due volte questa dichiarazione dell’episcopato tedesco, confermandola col suo magistero, nella lettera apostolica Mirabilis illa constantia del 1875 e in un’allocuzione al concistoro.
In ultima analisi, dove vuole portare la sua rilettura del Vaticano I?
POTTMEYER: Il Concilio voleva mettere in evidenza che le decisioni del papa sono senza appello, secondo il principio tradizionale per cui «Prima Sedes a nemine iudicatur». Ma dai dogmi da esso promulgati non si può dedurre la sovranità assoluta del papa. E nemmeno si può dedurre che l’attuale modalità fortemente centralizzata di esercizio del primato sia l’unica compatibile con i dogmi del 1870. Tale modalità va misurata secondo il criterio flessibile della necessitas Ecclesiae, lo stesso seguito dal Concilio Vaticano I…
E questo cosa comporta?
POTTMEYER: Nell’Ottocento, per la situazione storica concreta che si era creata, la Chiesa sentì l’urgenza di ribadire che quando la necessitas Ecclesiae lo esige, il papa può intervenire in tutta la Chiesa, la sua libertà d’azione non è sottoposta all’autorizzazione di alcuna istanza umana e le sue decisioni sono senza appello. Ma quando lo stesso criterio della necessitas Ecclesiae lo esige, la formulazione dell’esercizio del primato può e deve essere modificata, senza che ciò significhi mettere in questione la verità del dogma. E la restaurazione dell’unità per ritornare all’esperienza della Chiesa indivisa del primo millennio fa parte della necessitas Ecclesiae.
Dal punto di vista del dialogo con gli ortodossi, come può aiutare una rilettura del Concilio Vaticano I?

POTTMEYER: È una rilettura che dobbiamo ancora fare insieme. Partendo dalla distinzione tra la realtà del Concilio e la sua interpretazione massimalista. E mostrando loro che il dogma, grazie soprattutto all’intervento della minoranza, è rimasto aperto a un’ecclesiologia di comunione, e quindi a un esercizio del primato inteso non come sovranità monarchica, ma come ministero di comunione e di unità.
Ma concretamente, come si può pensare che quanto stabilito dal Vaticano I possa diventare vincolante per le Chiese d’Oriente?
POTTMEYER: È una discussione tutta da fare. Ci possono essere tante strade da verificare… Ad esempio, Joseph Ratzinger trent’anni fa proponeva la distinzione tra l’ufficio petrino del papa e quello che lui esercita come patriarca d’Occidente…
Ma le critiche al centralismo papale non sono anch’esse espressione di condizionamenti storici? Adesso la parola d’ordine dei poteri del mondo è spesso la democrazia…
POTTMEYER: Il ministero petrino ha a che fare con la natura della Chiesa, col suo essere mistero e sacramento di comunione. L’argomento più forte contro un papato accentratore, fino al punto quasi di “assorbire” in sé tutto il corpo ecclesiale, non fa appello alla democrazia, ai diritti umani e alle esigenze liberali, ma alla natura stessa della Chiesa, così come Gesù stesso l’ha voluta.
Lei, nel suo intervento, ha molto valorizzato le Considerazioni sul primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa pubblicate dalla Congregazione per la dottrina della fede nel 1998.
POTTMEYER: È un documento interessante, che andrebbe conosciuto di più. Riconosce che la modalità dell’esercizio del primato è storicamente condizionata e modificabile, mentre di solito la prospettiva della Curia romana aveva sempre insistito sul fatto che l’attuale estensione della giurisdizione romana era voluta da Dio.
Il documento contiene anche espressioni suggestive sulla “fragilità” di Pietro…
POTTMEYER: Sono le ultime frasi. C’è scritto: «Pietro, uomo debole, fu eletto come roccia, proprio perché fosse palese che la vittoria è soltanto di Cristo e non risultato delle forze umane. Il Signore volle portare in vasi fragili il suo tesoro attraverso i tempi: così la fragilità umana è diventata segno della verità delle promesse divine».


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