Tratto da UNO SCONTO SU MOSÈ

Uno sconto su Mosé



di Giulio Andreotti


"Dio ce lo mandi buono" aveva sospirato il vecchio rettore del Seminario regionale mentre abbozzava il piano di studi per la ripresa. Da parecchi anni la teologia morale era divenuta una materia spinosa. L’influenza della scuola tedesca si mostrava sempre più invadente e c’era solo da confortarsi che non lo fosse troppo quella olandese di Nimega; perché qui all’arditezza delle tesi si accompagnava un vivace accomodamento pratico, risultando parecchi professori di quella Università del tutto immemori del celibato ecclesiastico.
Il reverendo professor Gallipoli, che tutto sommato non era poi così fuori pista (anche se qualche volta parlava di padre Vermeersch come di un reperto archeologico) era partito per il Sud America, realizzando un disegno coltivato da tempo. Nel suo breviario ostentava l’immaginetta di uno di quei preti della liberazione che imbracciavano insieme il crocifisso e la carabina. Per la verità cronistorica lo stesso don Gallipoli da giovanissimo si era entusiasmato per il libro e moschetto ma su questo amava sorvolare.
I vescovi della regione avevano deferito la scelta dei docenti (vacava anche la cattedra di liturgia) alla Congregazione. Il cardinale segretario — un polacco dal difficile cognome fatto solo di consonanti e senza vocali — aveva a sua volta delegato il numero due, che era ricco di molteplici esperienze, compresa la guida per alcuni anni di un ateneo cattolico giapponese. Con questa designazione di padre Pittau, il giovane studioso che era stato prescelto dava garanzie di essere coinvolto nelle cose nuove soltanto quanto basta, come nelle specialità farmaceutiche. Ventottenne, formato nel noviziato di Galloro e ben collaudato nella guida spirituale dei giovani milanesi del "Leone XIII", aveva già conseguito un dottorato alla Gregoriana e si avviava — con esemplare compostezza — all’ordine sacerdotale, che la Compagnia continua a far conferire dopo i trenta anni.
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Padre Valentino si presentò puntuale all’appuntamento passando una intera giornata in biblioteca per accertarsi della dotazione di tutto il corredo necessario di libri e di riviste. Fu notata la compostezza del suo abbigliamento. Giacca nera e collarino con pettina grigia, alla vecchia maniera. Desiderava dare una denominazione al suo corso? Alla domanda del rettore rispose che era meglio non irrigidire il tracciato che, disse, si sarebbe svolto, del resto, attorno al tema classico dei dieci comandamenti.
Nulla da dire per il primo trimestre. Il saggio finale, su suggerimento del Valentino, sviluppò il tema di una ritenuta irrazionalità dell’ateismo militante. A suggerirlo era stata una curiosa indagine conoscitiva promossa dalla Camera dei deputati sulla libertà religiosa, nel corso della quale era stato audito (si dice così) anche il rappresentante di una "Unione degli atei e degli agnostici razionalisti".
I giovani seminaristi reagirono senza troppi approfondimenti. I più se la cavarono con una affermazione ovvia, ma troppo possibilista. Il donum fidei è appunto un dono; e se può rimproverarsi chi non lo coltiva adeguatamente, nulla si può addebitare a quanti dal beneficio sono stati e sono estranei. Intere regioni del mondo hanno ricevuto il messaggio dopo molti secoli e sotto una tradizione consolidata vi è una certa equivalenza di fondo tra le religioni. Ardito e fuori coro solo un vivace allievo di origine albanese. A suo avviso anche il bestemmiatore, insultandolo, attesta sostanzialmente che non misconosce l’esistenza di Dio. Eccezione fatta per questa singola bizzarria, il bilancio era positivo; e né il rettore né gli allievi rimpiangevano il… liberatore, che per il momento non aveva dato dalla Bolivia alcuna notizia.
Con aria indifferente e direi quasi amministrativa, alla ripresa di gennaio padre Valentino assegnò ai suoi discepoli una tesina, che avrebbe dovuto essere redatta anonimamente e — per i non provvisti di computer o di dattilomacchina — scritta a stampatello. Ecco di che si trattava. Se dall’Alto si fosse chiesto di cancellare dalla lista di Mosè uno dei dieci comandamenti, quale sarebbe stata l’opzione di ciascuno? Confermato il più rigoroso riserbo sugli autori degli elaborati, una relazione finale sarebbe stata redatta e fatta conoscere ai superiori.
La novità era accattivante. E a renderla più suggestiva il padre disse che fin dalle origini soltanto qualche santo e qualche eremita avevano rispettato integralmente il decalogo. Esimersi da una delle norme, risultando fedeli alle altre nove, poteva anche dirsi un esercizio virtuoso. E respinse con fermezza l’obiezione — mossa dal capoclasse — sulla non equipollenza interna di tutta questa normativa. Comunque erano invitati a riflettere lasciando loro tre mesi per mettere per iscritto il risultato della meditazione.
Sulla singolare esercitazione si riuscì a mantenere il massimo riserbo. Forse i nominati superiori avrebbero altrimenti bloccato questa manipolazione mosaica.
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A metà di maggio, lette ed elaborate tutte le risposte, padre Valentino, molto soddisfatto, dette conto del risultato, iniziando con lodare il giovane Caldera che aveva premesso alle sue risposte la considerazione delle occasioni; con la citazione puntuale del: "Qui potuit facere mala et non fecit". Con una punta di ironia si era chiesto quali meriti, ad esempio, avesse lui che aveva sempre vissuto in città e poi in seminario per non aver mai commesso trasgressioni di abigeato.
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Un campione di trenta soggetti, e per di più raccolto con riservatezza ma senza segreto confessionale, non era indicativo a livello scientifico, ma come tendenza non si poteva contestare.
Cominciamo da quelle norme di cui significativamente neppure uno dei consultati chiedeva di vedere la soppressione.
Innanzi tutto sul precetto-base ("Amerai il Signore con tutto il cuore, tutta l’anima, tutte le forze") indiscutibile era stato il giudizio di intangibilità; soltanto con qualche timido rilievo sull’amore totalizzante; se cioè questo avesse voluto significare il non possibile amore in direzioni umane, come quello delle madri verso i figli o reciprocamente dei coniugi fedeli. Era un sofisma subito superato.
Sul secondo precetto di non nominare invano il nome di Dio, ferma la non rinunciabilità, osservazioni interessanti erano state fatte nella comparazione tra il primo e secondo comandamento, cioè tra l’amore e il rispetto.
Uno dei giovani, come esempio dell’evocazione illecita del nome del Signore, aveva citato una delle tante pagine dissacranti di uno scrittore parafrasato da Sergio Quinzio: "Un Dio che si struttura intrinsecamente secondo pura antimemoria sarà in particolare un Dio non origine e anti-origine, un originante e anti-originante, cioè un Dio che entra nella realtà sempre dalla parte opposta all’originarsi di questa: infatti origine è il luogo più posseduto dalla memoratività".
Cosa significasse esattamente, il giovane dichiarava di non capire. Volando più basso si era invece chiesto se fosse condannabile anche l’espressione Santo Dio! usata per manifestare meraviglia e impazienza.
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L’unanimità si era parzialmente incrinata nella terza tappa ("Ricordati di santificare le feste").
Sul concetto di santificazione varie perplessità. Erano convinti che dove esiste il pluralismo religioso la partecipazione festiva al culto è più richiesta e frequente. Da noi è solo un abito personale di osservanza ed anche il rispetto di una tradizione. Dubbi sullo stimolo agevolante delle messe prefestive e dell’alleggerimento (a parte l’andata in pensione del latino) del rito sempre più conciso e quasi a cronometro. Un significativo cenno al maggior fascino delle chiese orientali era presente in uno dei saggi.
Difficile a risolversi il problema del blocco totale, alla domenica, delle attività mercantili. Specie nei grandi centri sembra una necessità funzionale. Forse con adeguata preparazione sarebbe possibile mutuare dagli islamici qualche minuto di sosta con raccoglimento e preghiera individuale sul posto in cui ciascuno si trova. Incoraggiato andrebbe anche l’apostolato di categoria, magari soltanto con un appuntamento religioso annuo per celebrare insieme la Pasqua. Dubbi poi sulla distinzione del lavoro manuale dagli altri. Perché il notaio che viene alla domenica in paese — si chiedeva uno dei ragazzi — non offende il precetto e il fornaio deve invece restare a riposo?
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Attorno al quarto comandamento vi era una certa confusione. Sulla vecchia dizione ("Onora il padre e la madre") grande e affettuoso consenso, con espressioni toccanti sulla famiglia; ed anche con la citazione del saggio articolo della Costituzione italiana che sancisce un significativo legame tra famiglia e matrimonio. Il Nuovo Catechismo però estende la norma a tutta la gerarchia sociale, compreso il rispetto delle leggi, ivi incluse le obbligazioni fiscali. Qui il consenso era parziale; anzi quasi tutti ritenevano troppo condiscendente, e comunque superata, la norma del Nuovo Testamento che impone di obbedire a chi ci governa, anche se è un discolo.
Padre Valentino raccomandò — indagine a parte — di studiarsi bene il relativo capitolo del Catechismo della Chiesa cattolica, dovuto al cardinal Tettamanzi. Contiene: "La dilatazione del quarto comandamento all’intera morale sociale e (o) politica".
Forse ci avrebbe dedicato un trimestre nell’anno successivo.
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Che non si debba uccidere e nemmeno ferire è incontestabile. Anzi il precetto va rafforzato seguendo il Papa nella dottrina per la tutela giuridica delle creature a cominciare dal concepimento. La transazione fatta nelle leggi dello Stato che hanno legalizzato l’aborto è giudicata assurda, con la delimitazione di un certo numero di settimane entro le quali si può impunemente uccidere.
Che il Parlamento l’abbia sancito e il relativo referendum confermato, non vuol dire che sia giusto.
Per connessione di materia in una delle lezioni successive padre Valentino illustrò la netta distinzione di campi tra l’ordinamento di fedeli e le regole per i cittadini. Nessuno può chiedere alla legislazione statuale di attestarsi sul bonum prolis e di condannare la dispersio seminis. Di qui la liceità civile delle propagande anticoncezionali non abortiste e la commercializzazione dei prodotti relativi. Questa distinzione è tanto più necessaria mentre si fa molta confusione anche in sede di Parlamento europeo su pretese interferenze che la Chiesa praticherebbe attraverso il Movimento per la vita e altrimenti.
A due sottotemi (uno di particolare attualità) avevano portato l’attenzione quasi tutti i consultati.
Pecca di omicidio non solo chi toglie o incrina la vita fisica, ma anche il calunniatore, il diffamatore, il torturatore psicologico, il seminatore di zizzania. Con efficacia, anche se alla lettera non molto preciso, uno aveva parlato di assassinio spirituale e di corrosione delle immagini.
Êel suo commento il Padre ricordò gli stermini di massa, abbinando all’Olocausto degli ebrei il massacro degli armeni, purtroppo dimenticato. Pose anche dialetticamente il problema della pena di morte.
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Che si potessero metter via dalle tavole mosaiche il sesto e il nono nessuno aveva ovviamente ritenuto di suggerire.
Due annotazioni ricorrevano in molti elaborati. Numerosi erano gli accenni critici — e direi anche sorpresi — alle dilaganti teorie sulla inseminazione artificiale nelle sue varie sottospecie ricorrenti. Un seminarista, romano (direi romanesco), aveva scritto che nel vocabolario sguaiato dei ragazzacci dell’Urbe dire "figlio di una cooperativa" era un’insinuazione offensiva molto precisa. D’ora innanzi non più, dato che il seme è commercializzato all’ingrosso e può comprarsi nei grandi magazzini.
Con qualche non lieve approssimazione un altro allievo citava due testi biblici arrivando alla conclusione che a queste aberrazioni innaturali seguirà certamente almeno una ripetizione del diluvio universale.
Due note particolari, tra le righe, anche senza troppa enfasi — anzi quasi di sfuggita — riguardavano il celibato ecclesiastico e l’ammissione ai sacramenti dei divorziati. Padre Valentino ne fece appena cenno.
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Nel commento al settimo precetto i giovani si limitarono al restrittivo concetto catechistico tradizionale, senza troppo allargarsi — come fa il Nuovo — ai problemi della Giustizia e ai doveri di solidarietà internazionale, distinguendo tra l’economia statica della società rurale-artigiana e quella dinamica e di sviluppo nel secolo XIX, dopo la rivoluzione industriale.
Sul non rubare nessuno chiedeva l’esenzione come tale. Ma quasi tutti indugiavano in riserve. Le profonde diversificazioni sociali esistenti lasciavano spazio ad avviso di parecchi interpellati per aggiustamenti correttivi. È vero: spetta allo Stato la riduzione degli squilibri, con una ovvia gradualità e diversificazione di modi. Ma lo Stato stesso, forte con i deboli e debole con i forti, è il primo dei ladroni: espressione usata da quattro ragazzi. Un altro indugiava sulla iniquità delle imposizioni fiscali rigide, con uso troppo parziale della progressività ed iniquità aggiuntiva anche di certe imposte indirette. Censure anche per la mancata ottica familiare nelle imposizioni.
Comunque, ad evitare equivoci, nessuno richiedeva l’abolizione pura e semplice del non rubare; mentre uno soltanto riteneva riproducibile la messa in comune di tutti i beni, caratteristica delle prime comunità cristiane.
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Sulla falsa testimonianza i dubbi interpretativi erano stati molti. Mentire ai giudici, anche se per aiutare un incolpato, è illecito: d’accordo. Ma depistare — senza danni di terzi — su eventi che potrebbero arrecare offesa e dolore potrebbe anche essere addirittura moralmente obbligante. Vi sono, poi, degli esibizionisti e dei fantasiosi. Per la cancellazione totale del precetto nessuna voce, ma per una interpretazione larghissima del divieto, quasi unanimità; con gioia per la repressione dei bugiardi alla maniera di Pinocchio, punita solo con il naso un po’ più lungo.
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Solo qualche cenno di sfuggita al nono e al decimo. Per loro le donne sono tutte di altri, mentre anche per il clero secolare che non ha il voto di povertà è salutare il non attaccamento ai beni di questa terra. Alla Borsa di Dio — aveva scritto uno spiritoso — le buone azioni non rischiano mai deprezzamenti e crolli.
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Il rettore, che aveva accettato con curiosità, ma anche con una certa preoccupazione, di assistere alla proclamazione del sondaggio, espresse alla fine la sua soddisfazione. Il nuovo professore innovava molto sui metodi dialettici, ma il risultato era senza dubbio positivo. Sopravanzava di parecchie piste il libertario don Gallipoli, anche se con l’uso di qualche battuta forse ardita: come l’accenno alla morte di Mosè nella veneranda età di centoventi anni: "Dodici per ogni comandamento". Se, come sperava, fosse rimasto da loro, sarebbero venute fuori dispense più interessanti dei capitoli del Nuovo Catechismo che, a suo avviso, risentiva troppo — nonostante le intelligenti correzioni di tiro di monsignor Rino Fisichella e salvo gli scritti del cardinal Tettamanzi — del curialesco burocratese.
Suggerì lui stesso di scegliere come argomento per l’anno successivo l’analisi "radiologica" delle opere di misericordia. E — chiese perdono al Signore — si divertiva già al pensiero del come i seminaristi se la sarebbero cavata con il "seppellire i morti".








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