Tratto da «Il Figlio da se...

«Il Figlio da se stesso non può fare nulla» (Gv 5, 19)


Meditazione sulla santa Pasqua di don Giacomo Tantardini

Bergamo, 15 marzo 2010


di don Giacomo Tantardini


Diciamo insieme un’Ave Maria, così siamo tutti aiutati.
Ave Maria.
Ringrazio di essere stato invitato a tenere questa meditazione. E sono contento di parlare, di tentare di parlare questa sera qui in questa chiesa, nel luogo dove si dice sia avvenuto il martirio di sant’Alessandro, un santo cui sono particolarmente devoto anche perché la parrocchia del mio paese natale è dedicata a lui. Quindi è uno dei santi martiri il cui nome conosco fin da quando ero bambino piccolo.
E sono contento di essere qui per questa meditazione anche perché ricordo un’altra meditazione che tenni sempre a Bergamo dieci anni fa, per il Natale del 2000, pubblicata poi in un piccolo libro dal titolo: Il cristianesimo: una storia semplice, la cui lettura – così mi è stato detto – ha confortato tante persone.
In quella meditazione tentavo di dire che il cristianesimo è semplice perché è una storia di grazia. Se nascesse da noi, se non fosse un avvenimento e quindi una storia di grazia, sarebbe complicato. Essendo invece un dono totalmente gratuito, una grazia totalmente gratuita che raggiunge il cuore dell’uomo, il cristianesimo è semplice. Non dobbiamo prendere da noi nessuna iniziativa.

Dire che è semplice – accennavo in quella meditazione – vuol dire anche che è facile. Che è facile! «Omnia fiunt facilia caritati» dice sant’Agostino1. «Tutto diventa facile alla carità». La carità è l’amore che Dio versa nel cuore. Quando il cuore è commosso da questo amore, tutto diventa facile. Tutto diventa facile alla carità, tutto diventa facile al dono di Dio, al riversarsi nel cuore dell’amore di Dio.

 

E ho concluso quella meditazione con una frase di Giussani, tratta da un articolo sul santo Rosario – ricordo ancora quando l’ho letto su Avvenire, domenica 30 aprile dell’anno santo 2000. Giussani dice che la nostra risposta a questa grazia, la nostra risposta all’iniziativa di Dio, è una preghiera. Non è una capacità particolare, è solo l’impeto della preghiera.
E poi Giussani, in quell’articolo, dà un giudizio che è come il suggerimento di uno sguardo alla storia degli ultimi secoli.
Dice: «Il popolo cristiano, da secoli, è stato benedetto e confermato nell’essere proteso alla salvezza, io credo, specialmente da una cosa: il santo Rosario». «Il popolo cristiano, da secoli, è stato benedetto…»: come è bello che anche qui l’inizio è essere benedetti… L’inizio è un Altro che benedice, che dice bene, che vuole bene. Continua Giussani: «… e confermato nell’essere proteso alla salvezza…»: confermato nel desiderare di essere salvo. Anche qui come è bello!... Proteso alla salvezza: è come quando il bambino guarda domandando. Da che cosa il popolo cristiano è stato benedetto e confermato nel desiderare la salvezza? Conclude Giussani: «Io credo, specialmente da una cosa: il santo Rosario».
Così ho voluto iniziare, stasera, questa meditazione sulla Pasqua, citando le parole più semplici di quell’incontro di dieci anni fa.

 

Nel volantino di invito alla meditazione di oggi è riportata una frase di Giussani: «Da quando Pietro e Giovanni sono corsi al sepolcro, da quando Lo hanno visto risorto e vivo tra di loro, tutto può cambiare». Sì, tutto può cambiare. Così questa sera vorrei tentare di dire come, in questi dieci anni, la preghiera è diventata per me più semplice di come poteva essere dieci anni fa, essendo più evidente al cuore che anche la preghiera non nasce da noi. Anche la nostra risposta, la nostra preghiera, è la confidenza che nasce dall’essere in quel momento attratti, dall’essere in quel momento amati, dall’essere in quel momento prediletti.
In questi giorni siamo invitati dalla santa Chiesa – in particolare nella settimana santa – a ciò cui sempre siamo invitati, cioè a tenere fisso lo sguardo su Gesù. È la frase che san Paolo ripete per ben due volte nella Lettera agli Ebrei: «Tenete bene fisso lo sguardo su Gesù» (Eb 3, 1). E ancora: «Fissate lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede» (Eb 12, 2). Tenere fisso lo sguardo su Gesù è un guardare domandando. Mi sembra che il guardare domandando sia come il vertice dell’umano. Penso che anche i papà e le mamme qui presenti si commuovano molto di più quando il loro bambino guarda domandando di essere voluto bene che non quando obbedisce a qualcosa che loro gli dicono. Questo guardare domandando è come l’espressione suprema di quello che il cuore dell’uomo può compiere.

Ma c’è qualcosa che viene prima di questo guardare domandando. C’è qualcosa che viene prima della domanda del cuore. C’è qualcosa che viene prima del fatto che come bambini si alza lo sguardo e guardando si domanda di essere voluti bene. C’è qualcosa che viene prima, e questo qualcosa che viene prima è un Altro che guarda. Se non ci guarda il Signore noi non domandiamo. Noi siamo piegati su noi stessi. Non guardiamo domandando. Se non si inizia a respirare la dolcezza di essere voluti bene, se non si inizia a respirare la dolcezza di essere amati, non si guarda domandando di essere amati.
Così vorrei questa sera suggerire tre brani del santo Vangelo in cui è evidente che anche la domanda del cuore, lo sguardo pieno di domanda del cuore, nasce dal fatto che un Altro, commosso, ci guarda.

 

 

«Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo.
Era verso mezzogiorno.
Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: “Dammi da bere”» (Gv 4, 6-7)

 

Il primo brano è quello della Samaritana, che nella liturgia ambrosiana si è letto nella seconda domenica di Quaresima, e nella liturgia romana, anche quest’anno, si poteva leggere nella terza domenica di Quaresima.
Inizia così:
«Giunse pertanto a una città della Samaria chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: “Dammi da bere”» (Gv 4, 5-7).
«Gesù, dunque, stanco del viaggio…». La frase di Agostino a commento di questo versetto del Vangelo, riportata dall’antico Breviario ambrosiano, è una delle frasi che ho imparato a memoria nel mio seminario e che non ho più dimenticato: «Tibi fatigatus est Iesus / Per te Gesù si è stancato»2. Per venire a cercare te, Gesù, quel mezzogiorno, stanco, era seduto al pozzo. E Agostino aggiunge: «Ti ha creato la Sua forza / Fortitudo Christi te creavit». Ti ha creato Lui vero Dio. «Infirmitas Christi te recreavit / Ma è stata la Sua debolezza che ti ha ricreato»3. È stato il fatto che Lui, vero Dio e vero uomo, ha sperimentato la debolezza umana come noi.
Per te Gesù era seduto al pozzo, stanco. E arriva una donna ad attingere acqua. E questa donna non gli dice nulla e non gli chiede nulla. È Gesù che le parla e chiede. Come è stupenda questa cosa! Questa donna viene ad attingere acqua e non domanda niente, niente! Attinge l’acqua perché ne ha bisogno. È Gesù che le chiede: «Dammi da bere». Come è evidente che l’iniziativa non parte dal cuore della donna, ma parte da Gesù: «Dammi da bere». Se non le avesse domandato Lui, se non avesse preso Lui l’iniziativa, la Samaritana non Lo avrebbe incontrato. Era andata come ogni giorno ad attingere acqua. Era una donna – diciamo così – non molto religiosa. «Hai avuto cinque mariti», le dirà Gesù, «e quello che hai ora non è tuo marito» (Gv 4, 18). E lei, come per difendersi di fronte a questo svelamento della sua vita, si metterà a fare discorsi religiosi. In fondo non le interessava affatto domandare in quale luogo bisognasse adorare, se sul monte dove adorano i samaritani o a Gerusalemme (cfr. Gv 4, 19-20).
Ma la cosa che più mi ha impressionato quando quest’anno ho riletto questo Vangelo è il fatto che è Gesù che domanda. È Gesù che si fa mendicante, mendicante del cuore dell’uomo. Altrimenti il cuore dell’uomo non domanda. Non domanda neppure la felicità perché fugitivus cordis sui, perché, dopo il peccato originale, il cuore è lontano, l’uomo è fuggiasco dal proprio cuore4. Ricerca sì la felicità, ma la ricerca nei piaceri di cui ha immediata esperienza, e la volontà non si può distogliere da questi piaceri di cui ha immediata esperienza5. Ci vuole un piacere più immediato e più attraente6 per distogliere la libertà, la volontà, dai piaceri di cui l’uomo ferito dal peccato ha immediata esperienza.
Così è stato Gesù a domandare. L’iniziativa è Sua. E prima di accennare all’unica cosa che colpisce la donna – tanto è vero che la donna quando ritorna al villaggio non ricorda le parole di Gesù sull’acqua viva, cioè sulla grazia, sulla sovrabbondanza di grazia, ma ricorda solo l’accenno alla sua vita personale: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto» (Gv 4, 29) –, Gesù promette l’abbondanza di questa grazia, l’abbondanza di questa acqua che Lui dona nel cuore dell’uomo. Perché? Perché Gesù domandando di essere voluto bene – diciamo così – dal nostro cuore, prima deve donare al cuore la possibilità stessa che il nostro cuore Lo ami7. Ed è bellissimo il fatto che Gesù, dopo aver promesso di donare questa sovrabbondanza di grazia, questa sovrabbondanza di acqua che zampilla fino alla vita eterna (cfr. Gv 4, 14), parli dell’adorazione nello Spirito e nella Verità, nello Spirito Santo e nella Verità che è Lui stesso (cfr. Gv 4, 23-24). Dice cioè che si può pregare e adorare in virtù del Suo dono. Il cuore domanda quando è toccato dal dono di Dio, altrimenti il cuore non domanda neppure. Il cuore domanda quando il dono di Dio lo tocca, quando il dono di Dio lo commuove. Allora domanda di essere voluto bene, di essere amato, allora domanda la felicità. Si domanda in forza del Suo dono.
C’è una preghiera nell’antica liturgia ambrosiana, che a me piace tanto – la seconda preghiera delle Lodi delle domeniche di Quaresima –, che dice: «… vigilet in nobis gratia tua / … la Tua grazia vigili in noi». Come è bello: la Tua grazia preghi in noi. La preghiera stessa è destata dal Suo dono, dalla Sua attrattiva, dal Suo commuovere il nostro cuore. «Vigilet in nobis gratia tua». Come è bello accorgersi che la nostra stessa risposta è innanzitutto Suo dono8. Questo rende semplicissima la vita. L’immagine della vita cristiana non è quella che rappresenta il dono di Dio da una parte e la nostra risposta dall’altra. Se fosse così non sarebbe semplice. È il dono di Dio – il dono di Dio! – che desta anche la nostra risposta. È l’attrattiva Gesù che commuovendo il cuore desta il piacere di corrergli dietro. La stessa nostra risposta è innanzitutto Suo dono. Non è come un dialogo alla pari: da una parte il dono del Signore e dall’altra noi che rispondiamo. È quel dono che, attirando il cuore, dona il piacere di accoglierlo, dona il piacere di corrergli dietro, dona il piacere di corrispondere9. Ricordiamo la frase di Giussani – che lui stesso dice essere la più rischiosa che ha detto nella sua vita –: la coerenza è un miracolo10. La nostra risposta è innanzitutto Sua grazia. E se la Sua grazia non attira il cuore, se non dona al cuore il piacere di essere attirato, non si risponde. Si risponde per un piacere più immediato, più piacevole. Si corrisponde perché la Sua attrattiva corrisponde al cuore. Per la corrispondenza della Sua grazia al cuore, si corrisponde aderendo11.

 

 

«Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo spirò» (Lc 23, 46)

 

Leggiamo un secondo brano del santo Vangelo. È il racconto degli ultimi istanti della passione di Gesù, secondo il Vangelo di Luca.
«Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. Ma l’altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. E aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”. Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo spirò» (Lc 23, 39-46).
C’è una frase di san Tommaso d’Aquino che da quando l’ho letta è come se avesse in qualche modo cambiato il mio sguardo al Crocifisso, il mio guardare alla passione di Gesù. La frase di san Tommaso è questa: «Inspiravit [Deus Pater] ei voluntatem patiendi / [Dio Padre] ha ispirato a Gesù la volontà di accettare la passione / […] infundendo ei caritatem / […] infondendo nel suo cuore la carità»12. La passione di Gesù non è un eroismo. Vale anche per Gesù il fatto che la Sua risposta è innanzitutto grazia. Anche per Gesù vale quello che vale per noi. La Sua risposta al Padre era innanzitutto dono del Padre. Il Padre non solo ha donato il Figlio unigenito – «Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum daret» (Gv 3, 16) – ma ha anche donato al Figlio la volontà di dire sì alla passione riempiendo il Suo cuore della carità, donando in pienezza all’umanità di Gesù quella pienezza di Spirito Santo che già aveva. Il rinnovarsi del dono è un nuovo inizio anche per Gesù. Donando la pienezza della carità ha donato a Lui in pienezza la possibilità di dire di sì, ha donato a Lui in pienezza la possibilità di corrispondere, ha donato in pienezza a Gesù, così come la dona a noi, la possibilità di ubbidire.
C’è una preghiera che i sacerdoti possono recitare prima della comunione, che dice: «Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che per volontà del Padre, / cooperante Spiritu Sancto / attraverso l’opera dello Spirito Santo, morendo hai dato la vita al mondo…». Come è bello guardare così Gesù crocifisso, riconoscendo che la passione di Gesù – la Sua ubbidienza, il Suo abbandono nelle mani del Padre – è innanzitutto effetto di questa pienezza di carità che il Padre gli ha dato.
C’è una parola di Gesù sulla croce che da questo punto di vista mi commuove, ed è proprio la parola abbandono. Gesù dice: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46; Mc 15, 34). E Gesù che dice così, si abbandona: «Padre, nelle tue mani abbandono il mio spirito» (Lc 23, 46). Ha sperimentato tutto il dolore. Ma è una cosa diversa sperimentare il dolore di essere abbandonato abbandonandosi. Ha sperimentato tutto il dolore, tutto il dolore di essere abbandonato dal Padre. Ma il Padre gli ha donato la pienezza della carità, cioè lo Spirito Santo. Il Padre gli ha donato così la possibilità, mentre era abbandonato, di abbandonarsi. È diverso soffrire abbandonandosi. È diverso per un bambino piccolo soffrire abbandonato in braccio alla mamma rispetto al soffrire non avendo nessuno cui abbandonarsi. Il Padre ha donato al Figlio quella pienezza di carità per cui, abbandonato, si abbandona.
La passione di Gesù non è un eroismo. È il bambino che, abbandonato, si abbandona per una pienezza di amore che gli è riversata nel cuore. È il bambino che vive tutta l’esperienza del dolore umano abbandonandosi nelle braccia del Padre per una pienezza di predilezione che gli è infusa nel cuore.
Come mi commuove quando in questa Quaresima, durante la Via Crucis, a ogni stazione ripeto: Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo! La passione non è un eroismo: è un mistero di amore gratuito. Lui stesso aveva detto: «Il Figlio da sé non può fare niente» (Gv 5, 19. 30). Lui stesso aveva detto: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso» (Gv 8, 28). Riconoscendo che il Figlio non può fare niente da sé, si riconosce che è l’Unigenito di Dio, Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero.
Non so se sono riuscito a esprimere la commozione nel guardare così Gesù crocifisso. Nel guardare Gesù che dice: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» e che, nello stesso tempo, si abbandona nelle braccia del Padre. Si abbandona per una pienezza di carità che il Padre gli dona. Così anche la Sua ubbidienza, che ci ha salvati, è innanzitutto grazia, è predilezione del Padre per il Figlio prediletto.

 

 

«Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui…» (Gv 20, 15-16)



Un ultimo brano, dal Vangelo di Giovanni: Maria Maddalena al sepolcro.
«Maria invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva…» (Gv 20, 11). Nei versetti precedenti, il Vangelo di Giovanni – ed è bellissimo – descrive Pietro e Giovanni che corrono al sepolcro (cfr. Gv 20, 1-10). Giovanni arriva prima… perché corre più veloce. Infatti si corre perché si è amati. Pietro voleva bene a Gesù più di quanto gliene voleva Giovanni. Alla domanda di Gesù: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di costoro?», Pietro risponde: «Sì, Signore, tu sai che ti voglio bene» (Gv 21, 15). Quindi Pietro vuole bene a Gesù più di quanto gliene vuole Giovanni. Ma Giovanni è più amato dal Signore. E si corre più veloci non perché si ama, ma perché si è amati. Quindi Giovanni arriva prima al sepolcro. «Meliorem Petrum, feliciorem Ioannem» dice sant’Agostino13. Pietro è più buono, ma Giovanni è più felice. Perché la felicità non nasce neppure dal nostro essere buoni, la felicità nasce nell’essere prediletti. Pietro è più buono di Giovanni, ma Giovanni, essendo più amato, è più felice, ed essendo più felice corre di più, e quindi essendo più felice arriva prima. E qui è bellissimo! Giovanni arriva prima al sepolcro, ma aspetta Pietro. Perché la predilezione rispetta ogni autorità. Come è bello questo! Quando ho visto Giussani inginocchiarsi davanti a papa Giovanni Paolo II – Giussani ormai ammalato, nell’ultimo incontro col Papa, in piazza San Pietro –, era evidente che la predilezione di grazia rispettava ogni autorità della Chiesa. È capitato così anche agli apostoli. Quindi capita così fino alla fine del mondo.
Quindi Giovanni arriva prima e aspetta Pietro, e poi Pietro e Giovanni entrano nel sepolcro e vedono i teli, cioè la sindone, afflosciata sul marmo dove era stato deposto il corpo, e il sudario, che era stato messo sopra il volto. E il modo in cui i teli erano rimasti colpisce Giovanni, come se il corpo improvvisamente fosse uscito dalla sindone e dal sudario senza scomporre nulla. I teli si erano afflosciati perché il corpo non c’era più. E così Giovanni da quei piccoli indizi inizia a credere. Tanto è vero che poi Gesù dirà: «Beati coloro che senza aver visto hanno creduto» (Gv 20, 29). Cioè coloro che, come l’apostolo prediletto, da piccoli indizi iniziano a credere.
Comunque Pietro e Giovanni se ne tornano a casa. Invece Maria rimane al sepolcro.

«Maria invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”. Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù…»: anche qui, come è evidente che l’iniziativa è di Gesù… Non solo l’iniziativa di venire, di farsi vedere, ma anche l’iniziativa di domandare. «Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui…»: come è bello anche questo sguardo che nasce perché si è chiamati, nasce perché il cuore viene sorpreso da un gesto di affetto così. «Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: Maestro! Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 11-18).
Solo una cosa volevo suggerire riguardo al pianto di Maria Maddalena. Cesare Pavese dice che per essere disperati bisogna essere stati tanto contenti. Penso che nessuno – possiamo dire forse nessuno – come Maria Maddalena in quel pianto ha sperimentato una disperazione così, proprio perché era stata così tanto contenta, così tanto amata (cfr. Lc 7, 36-50). Quello sguardo l’aveva perdonata senza condannare. Questo perdono che non condanna cambia la vita. Eppure quella cosa così bella che aveva incontrato, quel perdono così bello che le aveva cambiato la vita, era finito. È stata reale la morte di Gesù! Quella morte aveva posto fine a tutto. Non si poteva che piangere in maniera disperata. Quando c’è stata una felicità così reale, anche la disperazione è proporzionata a una felicità così, ormai finita. E anche qui l’iniziativa è di Gesù. Non basta un incontro passato. Non basta neppure l’incontro col Figlio di Dio – Maria Maddalena aveva incontrato Gesù, il Figlio di Dio –, non basta l’incontro passato se nel presente Lui non viene incontro. E non basta neppure, diciamo così, che sia risorto e vivo – Gesù era risorto e vivo – se non prende iniziativa Lui, nel tempo presente, di venire incontro, di farsi presente, di chiamare, di attirare a Sé. Non basta sapere che c’è, se non prende l’iniziativa. Come è evidente nelle apparizioni del Signore risorto che è Lui che prende l’iniziativa quando vuole e come vuole. È Lui che si fa vicino, è Lui che si fa riconoscere, è Lui che si fa vedere e toccare: «Vedete e toccate, un fantasma non ha carne e ossa come vedete che ho io» (Lc 24, 39). Non basta sapere che c’è, non basta sapere che è risorto, se nel presente non prende l’iniziativa di chiamare, come ha chiamato Maria, di venire vicino, di farsi incontro. La fede è grazia, momento per momento. La fede è iniziativa Sua, momento per momento. La fede, momento per momento, è dono Suo. Quando san Tommaso d’Aquino dice: «Gratia facit fidem / È la grazia che crea la fede»14, aggiunge un’espressione bellissima: in questo momento (se ci fosse qui uno che non crede), per far passare alla fede uno che non crede e per mantenere nella fede un povero fedele, ci vuole la stessa potenza di grazia. Per mantenere me in questo momento nella grazia della fede e per far passare uno (se ci fosse qui uno che non crede) dal non credere alla fede ci vuole la stessa potenza di grazia. In questo momento! La fede è, istante per istante, grazia.

 

 

Ora leggo tre preghiere.
La prima – la so a memoria – è una preghiera di sant’Ambrogio. È una delle preghiere più belle. Ambrogio commenta l’ultimo versetto del Salmo 118, il Salmo che nella liturgia ambrosiana si recitava tutti i giorni, da prima a nona. L’ultimo versetto dice: «Come pecora smarrita vado errando; cerca il tuo servo, perché non ho dimenticato i tuoi comandamenti». Ambrogio domanda al Signore di venire a cercare questa pecorella che si smarrisce. Perché, dice il santo vescovo, «se Tu ritardi, io mi smarrisco». Questo vale per ciascuno di noi. Non vale solo prima dell’incontro col cristianesimo, vale anche dopo l’incontro, ogni giorno, momento per momento. Se Tu ritardi a venire, io mi smarrisco, io sono la pecorella smarrita. Se Tu ritardi, io ora mi smarrisco. E allora Ambrogio prega: «Veni, Domine Iesu, / Vieni, Signore Gesù, / ad me veni, / vieni a me, / quaere me, / cercami, / inveni me, / trovami, / suscipe me, / prendimi in braccio, / porta me / portami»15.
Dopo la comunione, tante volte ripeto il canto che ho imparato da bambino piccolo: «Gesù caro, vieni a me e il mio cuore unisci a Te». Non basta – anche qui – che venga, occorre che sia Lui a unire il mio cuore a Sé. Se Lui non attira il mio cuore e non lo unisce a Sé, anche se viene, non gli voglio bene. Non basta neppure che venga: tutte le volte che faccio la comunione viene, ma occorre che non solo venga… «Gesù caro, vieni a me e il mio cuore» – il mio cuore – «unisci a Te». Anche il mio povero volergli bene non può che essere frutto dell’attrattiva Sua, non può che essere frutto del fatto che Lui prende il mio povero cuore e lo porta – e il cuore si lascia portare per il piacere di essere portato –, lo porta a Sé.

Seconda preghiera. Sono le ultime parole che scrive santa Teresina di Gesù Bambino. Le scrive alla madre priora del Carmelo – che era una delle sue sorelle – alcuni mesi prima della morte. Leggo alcune frasi: «Alle anime semplici non servono mezzi complicati: poiché io sono tra queste, un mattino durante il ringraziamento, Gesù mi ha dato un mezzo semplice per compiere la mia missione. Mi ha fatto capire questa parola del Cantico: “Attirami, noi correremo all’effluvio dei tuoi profumi” (Ct 1,4).  O Gesù, dunque non è nemmeno necessario dire: Attirando me, attira le anime che amo. Questa semplice parola: “Attirami”, basta».
Come è evidente questo, nel mondo in cui viviamo. Basta che nel mondo ci sia uno che corre dietro a Gesù così, che se ne accorge tutto il mondo. La bellezza del momento che viviamo è questa, perché il mondo è diventato piccolo. Basta che ci sia qualcuno che corre dietro a Gesù così, qualcuno che corre perché è attirato. Non perché decide di correre. È una cosa diversa il decidere da sé di correre dall’essere attirati. Attiràti, si corre senza neppure accorgersi di correre. Altrimenti diventa una fatica anche il correre dietro. Quando è evidente che uno corre perché un Altro lo attira, se ne accorge tutto il mondo. Se invece viene da te il correre, di per sé non testimoni che Lui sia risorto e che sia vivo. Deve essere evidente che sei attirato da Lui. Altrimenti può essere un’iniziativa tua, se decidi da te di correre dietro a Gesù. E non si vince la paura della morte con quello che facciamo noi (cfr. Eb 2, 15). La paura della morte è sconfitta quando è evidente che è una presenza ad attirare, quando è evidente che tu non fai nient’altro che correre dietro lasciandoti attirare come un bambino piccolo che corre per afferrare una cosa bella.
Scrive ancora santa Teresina: «Madre mia, credo che sia necessario darle ancora qualche spiegazione sul brano del Cantico dei Cantici: “Attirami, noi correremo”, perché quello che ho voluto dirne mi sembra poco comprensibile [così vale per quello che ho tentato di dire questa sera]. “Nessuno può venire a me”, ha detto Gesù, “se non lo attira il Padre mio che mi ha mandato” [«Nemo venit nisi tractus / nessuno viene se non è attirato»16]. Poi, con parabole sublimi, e spesso senza nemmeno usare questo mezzo così familiare al popolo, ci insegna che basta bussare perché ci venga aperto, basta cercare per trovare e tendere umilmente la mano per ricevere quello che chiediamo... Dice inoltre che tutto quello che chiederemo al Padre suo nel suo nome Egli lo concederà. Certo è per questo che lo Spirito Santo, prima della nascita di Gesù, dettò questa preghiera profetica: Attirami, noi correremo. Cos’è dunque chiedere di essere attirati, se non unirsi in modo intimo all’oggetto che avvince il cuore? […] Madre amata, ecco la mia preghiera: chiedo a Gesù di attirarmi nelle fiamme del suo amore, di unirmi così strettamente a Lui, che Egli viva e agisca in me. […] Quanto più dirò: Attirami, tanto più le anime che si avvicineranno a me […] correranno rapidamente all’effluvio dei profumi del loro Amato […]; certo, come santa Maddalena resta ai piedi di Gesù, ascolta la sua parola dolce e infuocata. Sembrando non dar niente, dà molto di più di Marta che si agita per molte cose e vorrebbe che la sorella l’imitasse. Non sono i lavori di Marta che Gesù biasima: a questi lavori la sua Madre divina si è umilmente sottomessa per tutta la sua vita poiché doveva preparare i pasti per la Santa Famiglia. È solo l’inquietudine della sua ardente ospite che vorrebbe correggere».

L’ultima preghiera. È come se il Signore in questi anni avesse reso più confidente la preghiera. E avesse reso possibile intuire che la preghiera si compie nel dire «grazie». E così uno domanda di dire «grazie». La preghiera si compie quando la gratitudine, il «grazie», diventa come il respiro, il respiro di ogni istante. «Ringraziate continuamente» (Ef 5, 20). Tante volte l’apostolo Paolo esorta a ringraziare sempre. Così vi leggo questa preghiera di santa Bernadette. Quando la dolcezza di essere amati è così sovrabbondante, allora si ringrazia, allora è facile ringraziare per ogni cosa. Il «grazie» nasce anche qui dalla dolcezza del dono. Il «grazie» non nasce di per sé per il dono, ma nasce quando il dono rende felice il cuore. Una settimana fa, il mio nipotino più piccolo ha compiuto gli anni, e sono stato invitato a casa sua dai genitori. Gli hanno fatto tantissimi regali, ma mi ha colpito il fatto che lui è stato contento della carta che impacchettava uno di questi doni, perché ne ha fatto tanti coriandoli ed è stato dieci minuti a lanciarli in aria. Questo esempio è solo per dire che uno non ringrazia per il dono, ringrazia quando il dono rende contento il cuore. Voi potete regalare a un bambino anche una cosa bellissima, ma se il suo cuore non è contento di quello che gli avete regalato, non vi ringrazia. E così è anche la vita cristiana. Si ringrazia quando il dono trabocca in dolcezza nel cuore. Quando il dono trabocca in felicità nel cuore, allora si ringrazia.
Così scrive Bernadette: «Per la miseria di mamma e papà, per la rovina del mulino […], per la bocca di troppo che ero da sfamare, per i bambini accuditi, per le pecore che ho pascolato. Grazie. Grazie, o mio Dio. Per il procuratore, per il commissario, per i gendarmi, per le parole, all’inizio rudi, del mio parroco. Per i giorni in cui sei venuta, o Vergine Maria, per quelli in cui non sei venuta…»: come è bella questa distinzione! Non è vero che sia tutto uguale. Il Signore c’è sempre. Ma non è vero che il momento in cui viene sia uguale al momento in cui non viene. È sempre presente. Ma anche per Bernadette era diverso quando la Madonna si faceva vedere da quando non si faceva vedere… Il cristianesimo non è una certezza metafisica. È un rapporto tra persone, è un rapporto libero di persone. «Per i giorni in cui sei venuta, o Vergine Maria, per quelli in cui non sei venuta, non potrò mai ringraziarti abbastanza che in Cielo. Per lo schiaffo ricevuto, per gli scherzi, per gli oltraggi, per chi mi ha presa per bugiarda, per chi mi ha presa per una interessata, grazie, o Signore […]. Grazie, grazie, perché se ci fosse stata sulla terra una giovane più insignificante, non avreste scelto me»: come è bella anche la parola insignificante! Papa Benedetto XVI, quando ha parlato di san Francesco, per tre volte ha detto che era piccolo e insignificante17. Eppure la Chiesa in quel momento è stata sorretta da questo religioso piccolo e insignificante. Papa Innocenzo III aveva visto in sogno una persona piccola e insignificante che sorreggeva l’architrave della Cattedrale di San Giovanni in Laterano. 
Continua Bernadette: «Per mia madre morta lontano da me, per la pena che ho provato quando mio padre [il padre andò da Lourdes a Nevers per incontrare la figlia che era in convento], invece di tendere le sue braccia alla sua piccola Bernadette, mi chiamò “Suor Bernarda”, grazie Gesù. Grazie per aver colmato di amarezze il cuore troppo tenero che mi avete dato [e quando c’è amarezza, si soffre, ed è la dolcezza della predilezione che fa dire grazie anche per quella amarezza]. […] Grazie per essere stata l’oggetto privilegiato dei rimproveri per cui le sorelle dicevano: “Che fortuna non essere Bernadette!”. Grazie per essere stata Bernadette. E per questa anima che mi avete dato, per il deserto dell’aridità interiore, per la Vostra oscurità e per le Vostre rivelazioni [anche qui l’oscurità è oscurità e la rivelazione è rivelazione], per i Vostri silenzi e per i Vostri lampi, per tutto, per Voi, assente o presente [ed è una cosa diversa quando è assente – e uno rimane in ginocchio e basta – da quando invece è presente – e uno piange di felicità. Ed è sempre presente. Ma è una cosa diversa quando è presente-assente da quando è presente e abbraccia il cuore], grazie, grazie Gesù».

 

 

E finisco con tre frasi del santo Curato d’Ars.

La prima:
«Che cosa facevano la santa Vergine e san Giuseppe? Essi guardavano, contemplavano, ammiravano il bambino Gesù. Ecco tutta la loro occupazione».
Tutta la loro occupazione era guardare quel bambino. Come mi ha colpito la parola occupazione! Agostino dice che «totum atque summum negotium / l’attività – negotium –, l’occupazione totalizzante e somma» della Chiesa è porre la speranza nella preghiera18, è porre la speranza nel guardare domandando.

Una seconda frase:
«Uscendo dalla santa messa siamo altrettanto felici quanto lo sarebbero stati i Magi se avessero potuto portare via il bambino Gesù».
Come è bella questa immagine! Perché dice che è solo il presente che rende contenti. Uscendo dalla santa messa siamo felici come lo sarebbero stati i Magi se, usciti dalla casa, avessero portato con sé il bambino Gesù. Perché non basta averlo visto una volta e non basta averlo trovato una volta, se non lo si porta nel presente, o, meglio, se non si è portati nel presente.

Poi un’ultima frase, sempre del santo Curato d’Ars, quella che mi piace di più:
«Io sono sempre stato semplicemente il bambino viziato [così il santo Curato d’Ars] dalla Provvidenza. Non mi sono mai occupato di nulla e non ho mai mancato di nulla. Come è bello abbandonarsi unicamente». In fondo, anche la mia vita si può riassumere in questa espressione: io sono stato un bambino viziato dall’amore di Gesù Cristo.

Se vi è possibile uscite in silenzio. Come è caro al cuore il silenzio delle nostre chiese! Come dice la preghiera a san Riccardo Pampuri:  «… hai pregato nel silenzio delle nostre chiese…».

 

 

Note

1 Agostino, De natura et gratia 69, 83.
2 Agostino, In Evangelium Ioannis XV, 6.
3 Ibid.
4 Agostino, Enarrationes in psalmos 57, 1.
5 Cfr. Agostino, Confessiones X, 22, 32.
6 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II-II q. 23 a. 2.
7 Cfr. Messale romano, III domenica di Quaresima, prefazio.
8 Cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2008.
9 Cfr.  Giovanni Paolo I, Catechesi nell’udienza generale di mercoledì 27 settembre1978: «L’amore a Dio è anche viaggio misterioso: io non parto cioè, se Dio non prende prima l’iniziativa. “Nessuno”,  ha detto Gesù, “può venire a me, se non lo attira il Padre “ (Gv 6, 44).  Si chiedeva sant’Agostino: ma, allora, la libertà umana? Dio, però, che ha voluto e costruito questa libertà, sa Lui come rispettarla, pur portando i cuori al punto da Lui inteso: “Parum est voluntate, etiam voluptate traheris”; Dio non soltanto ti attira in modo che tu stesso voglia, ma perfino in modo che tu gusti di essere attirato (Agostino, In Evangelium Ioannis XXVI, 4)», in Insegnamenti di Giovanni Paolo I, Lev, Città del Vaticano 1979, p. 96.
10 L. Giussani, «Tu» (o dell’amicizia), Bur, Milano 20003, p. 171.
11 Cfr. Concilio di Trento, decreto De iustificatione, can. 4 (Denzinger 1554).
12 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III q. 47 a. 3.
13 Agostino, In Evangelium Ioannis CXXIV, 4.
14 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II-II q. 4 a. 4 ad 3.  
15 Ambrogio, Expositio in psalmum 118, Tau, 28.29.
16 Agostino, In Evangelium Ioannis XXVI, 2.
17 Benedetto XVI, Catechesi nell’udienza generale di mercoledì 27 gennaio 2010; cfr. Benedetto XVI, «Francesco, piccolo e insignificante», in 30Giorni, n. 1, 2010, pp. 47-54.
18 Agostino, De civitate Dei XV, 21.



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