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Tratto da I Sacri monti del Piemonte

Fatti per toccare il cuore dei semplici fedeli


Introduzione


Giuseppe Frangi


Varallo nell’anno 1493 non era niente più che un piccolo paese sulle sponde del fiume Sesia, all’imbocco della valle che saliva sino alle pendici del monte Rosa. Un paese che non aveva nessun valore strategico, da cui non passavano strade nevralgiche. Perché, proprio in quell’anno, un frate francescano milanese, Bernardino Caimi, già custode dei Luoghi Santi in Palestina e poi a capo della provincia milanese, si fosse deciso a impiantare lì uno dei più complessi e impegnativi cantieri che si fossero mai visti, resta un mistero. O almeno, si possono fare supposizioni. La prima è che neppure lui avesse idea di quel che si sarebbe generato da quella sua iniziativa. La seconda, che proponendo ai cristiani una possibilità alternativa all’ormai impraticabile pellegrinaggio in Terra Santa, volesse comunque portarli a fare un cammino in un luogo fuori mano.
Fatto sta che il 14 aprile 1493, come scrive uno storico, Pietro Galloni, «gli uomini di Varallo consegnarono al Reverendo Padre frate Bernardino da Caimi, vicario dell’ordine dei Frati Minori della provincia di Milano [...], il monastero con la chiesa, campana e campanile, edifici, officine e altre pertinenze, situati nel territorio presso Varallo che solevasi dire Sotto Selletta». La chiesa è la stupenda Collegiata che conserva un grande affresco di Gaudenzio Ferrari; “le pertinenze” invece non sono altro che quelle del futuro Sacro monte.
Conta la descrizione del luogo: perché a vedere quella rupe che si alza a perpendicolo sopra l’abitato di Varallo, davvero è difficile pensarla come terreno per alcunché. Caimi invece osò. Fece costruire un rudimentale percorso e, in cima, fece erigere qualche cappella cercando, quasi per mimesi, di riprodurre alcuni luoghi della Terra Santa. Il Sepolcro venne costruito sulle misure esatte di quello di Gerusalemme; il punto più alto venne destinato al Golgota, e la croce innalzata era stata nel foro della vera croce per quaranta ore; sul monticello dell’A­scensione aveva portato il calco dell’orma del piede di Cristo; sulla via della Passione erano gelosamente custodite le preziose schegge di marmo della colonna della Flagellazione. Questa era la sua idea: «Ut hic Hierusalem videat qui peragrare nequit» («Perché veda Gerusalemme chi non può andarci in pellegrinaggio»). Lo sorreggevano, in questo suo progetto, le indicazioni di un trattato molto diffuso in quella seconda metà del Quattrocento, e scritto probabilmente da Niccolò da Osimo: «Ancora ti sarà utile fermarti nella mente li luoghi e le terre e le stantie dove lui conversava, e le persone che singularmente erano in sua compagnia».
Vista oggi, quella di Bernardino Caimi sembra una geniale crociata alla rovescia. Invece di portare i cristiani a massacrare e a farsi massacrare, li rendeva partecipi di benefici simili e sostitutivi, in attesa che il Signore destinasse agli uomini tempi migliori. L’idea ebbe un successo immediato e travolgente, tanto che quel piccolo scenario di poche cappelle in cima alla rupe risultò presto inadeguato. Ma prima del cambio di secolo, Caimi morì e sembrò che nessuno fosse in grado di riprendere l’iniziativa in un cantiere così fuori mano. Ci voleva un uomo di lì. E l’uomo di lì arrivò: si chiamava Gaudenzio Ferrari («Gaudentius noster», lo chiamano i documenti coevi), era nato a pochi chilometri da Varallo e aveva tutti i requisiti che quell’impresa richiedeva. Era infatti pittore, scultore, architetto. La sua idea fu quella di passare dalle cappelle con le semplici memorie di Gerusalemme, a cappelle con delle rappresentazioni, il più possibile verosimili, dei fatti della vita di Gesù.
Si trattò di un’intuizione travolgente. Gaudenzio, uomo colto ma distante anni luce dalle artificiosità rinascimentali, scolpiva figure in legno o terracotta a grandezza naturale, cui faceva indossare vestiti veri e che completava con capelli ben curati, ricavati dai crini di cavallo; dipingeva sui muri facce di testimoni che potevano benissimo essere il popolo della Varallo del suo tempo; soprattutto concepì dei luoghi in cui chi arrivava non assisteva soltanto, non si limitava a guardare, ma era chiamato a fare parte della scena. Nelle cappelle della Natività, basse e anguste come doveva essere la grotta di Betlemme, il pellegrino si trovava (e si trova tuttora) a essere in mezzo tra la mangiatoia e il corteo dei Magi che arriva alle sue spalle. In quella della Crocifissione (oggi purtroppo chiusa da vetrate per ragioni di conservazione) si entrava e ci si trovava, insieme a tutte le statue dei protagonisti storici, ai piedi della Croce. Testimoni e partecipi di un fatto reale.
Gaudenzio, insomma, aveva inventato il meccanismo dei Sacri monti. Erano i primi decenni del Cinquecento: ci volle un po’ di decantazione prima che quell’idea dilagasse in decine di altri luoghi delle Prealpi lombarde e piemontesi, soprattutto grazie allo slancio impresso da san Carlo Borromeo e poi da suo cugino Federico. Quasi sempre i giganteschi cantieri prendevano avvio dall’iniziativa di qualche frate francescano. Variavano i contenuti dei progetti: a Orta le cappelle raccontano la storia di san Francesco; a Oropa, in appoggio alla veneratissima Madonna nera portata lì dal vescovo Eusebio, si racconta la storia di Maria.
Oggi i Sacri monti continuano la loro vita, un po’ più dimenticati, quasi appartati rispetto ai dettati della burocrazia ecclesiastica. Vivono lottando battaglie improbe per la conservazione, tanto complesse sono le loro strutture. Hanno riconoscimenti stentati da parte degli intellettuali, cattolici e non (anche se l’Unesco ha inserito Varallo nella lista dei grandi monumenti mondiali da proteggere). Eppure questa loro endemica povertà è il motivo primo della loro ricchezza. Perché la loro povertà è ciò che commuove i pellegrini o i curiosi che alla spicciolata continuano incessantemente a salirvi.
I Sacri monti (e quello di Varallo in particolare: una volta nella vita un viaggio lo merita. La commozione che comunica è difficilmente documentabile, non ha riscontro nelle parole) sono come dei monumenti “nudi”. Non hanno nessuna retorica che li ammanti e li protegga. Non hanno nessuna barriera fisica che li custodisca. Sono esposti alle intemperie, proprio come la vita reale. Subiscono il freddo quando il freddo scende; l’umidità quando la pioggia non lascia tregua. Sono miseri com’è, nella sua realtà, povera la vita di ogni uomo. Per questo i Sacri monti toccano il cuore dei fedeli semplici. Perché sono fatti per loro.


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