Home > Supplementi > IL TESORO CHE FIORISCE > QUIETI DENTRO LE TEMPESTE
Tratto da IL TESORO CHE FIORISCE

QUIETI DENTRO LE TEMPESTE



di Gianni Valente


Era tornato il sole, quel giorno, a Niupidi. La coda del tifone che il giorno prima si era abbattuto più a nord aveva sguinzagliato fin lì le sue nuvole livide solcate di fulmini. Ma adesso, sul villaggio cadeva una pioggia diversa. Una pioggia di suoni, di colori, di voci allegre, di mortaretti crepitanti.
La banda dei piccoli musicanti che avanzava tra i viottoli già tornati pieni di polvere sembrava scappata da una favola. Invece erano usciti da povere casupole sgangherate, ognuno col vestito sgargiante giallo e rosso. Tamburini, pifferai, majorette, suonatori di piatti. Quelli che non suonavano strumenti avevano le mani piene di fiori di carta. Facevano festa in memoria di un vecchio amico dei loro nonni, che loro non avevano conosciuto. Non sapevano nemmeno che la loro inconsapevole allegria fioriva sull’albero fertile che quell’uomo piantò in quella povera terra quasi ottanta anni fa.
Niupidi, fin da allora, porta anche un nome cristiano. Tutti lo conoscono come «il villaggio di San Giuseppe». Alla fine dell’Ottocento i primi missionari giunti qui nel distretto dell’Haifeng, nella provincia sudorientale del Guangdong, avevano comprato per duecento dollari qualche campo, una collinetta, e alcune casupole diroccate. Nel 1923 arrivò dalla lontana Brescia Lorenzo Bianchi, un giovane missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere, e ne fece il quartier generale del suo girovagare per villaggi e campagne, in visita alle famiglie dei catecumeni. In pochi anni il villaggio diventò una cittadella cristiana. Un’oasi a cui affluivano da tutt’intorno i nuovi battezzati. Oggi c’è ancora il laghetto artificiale che l’ingegnoso Lorenzo aveva fatto confluire in una depressione tra le colline, per irrigare i campi, affinché il villaggio non rimanesse più senza riso. Ma non ci sono più le alte mura che in quegli anni erano state alzate tutt’intorno al villaggio, con tanto di torrette. Padre Bianchi si era fatto arrivare anche sedici vecchi fucili con le spingarde, e robuste sentinelle vigilavano di giorno e di notte contro le incursioni di briganti e di soldati che vagavano per le campagne senza disciplina né paga, dopo il crollo dell’ordine imperiale.
Per lui, gli anni di lavoro sereno erano durati poco. Proprio in questa terra di risaie e tifoni la piccola storia del villaggio di San Giuseppe incrociò le prime avvisaglie della grande bufera che per decenni avrebbe sconvolto tutta la Cina. Da queste parti, già alla fine degli anni Venti, l’idealista sanguinario Peng Pai aveva fondato il primo soviet contadino e guidato il primo terrore rosso con l’eliminazione fisica dei nemici della rivoluzione. C’erano state anche le rappresaglie dell’esercito nazionalista, con la caccia al comunista villaggio per villaggio. Poi la guerra coi giapponesi, la guerra civile e la liberazione di Mao. Anche padre Lorenzo, arrestato come spia degli imperialisti, nell’ottobre ’52 era stato espulso ad Hong Kong, dove sarebbe diventato vescovo. Poi, alla fine degli anni Sessanta, le fragili mura della cittadella cristiana erano state schiantate dal delirio della Rivoluzione Culturale. Le Guardie rosse avevano raso al suolo anche la chiesa. Avevano risparmiato dal­la profanazione solo la collina con il cimitero dei vecchi missionari, per paura degli spiriti.
Eppure, passata la tempesta, diradato il fumo che si alzava dalle macerie, loro erano ancora lì. Dispersi nei nascondigli. Confusi. Acciaccati. Impauriti. Con parecchi martiri da piangere. Ma vivi. Il buon Dio aveva custodito il suo tesoro.
Quando, all’inizio degli anni Ottanta, con l’apertura voluta da Deng Xiaoping sono finiti quelli che tutti i cinesi ricordano come “gli anni difficili”, anche la storia della piccola repubblica cristiana di San Giuseppe è ricominciata. Adesso, in questa specie di reducción gesuita nel cuore profondo della Cina rurale vivono millecinquecento abitanti, quasi tutti cristiani. Con centinaia di bambini. Con il lavoro nella campagna fertile e il suono della campana che scandisce i tempi della vita. Preghiere e storie del Vangelo. La messa e il catechismo. Battesimi, matrimoni, funerali. Anche la strada che porta qui l’hanno intitolata a san Giuseppe, come la scuola elementare. Le autorità locali non volevano, ma il popolo ha insistito. La chiesa l’hanno rialzata al centro del villaggio nel ’92, con la facciata rivolta alla collina dove riposano i vecchi missionari. Fuori, incisi su lavagne nere, ci sono i nomi dei benefattori – parenti e amici di monsignor Bianchi, cristiani di Hong Kong, businessmen originari di queste parti – che hanno sostenuto l’impresa.
In quel giorno di festa dedicata allo straniero taciturno da cui tutto è iniziato, hanno portato sull’altare anche il suo baule, che qualcuno aveva conservato come una reliquia. Mentre i più anziani raccontavano di quei tempi, e di come «il prestigio di padre Bianchi, quando lui era qui, era più alto della montagna Tai». Poi, rivolti alla statuetta di una Madonna nera con gli occhi a mandorla, hanno recitato insieme una preghiera. «Ogni gioia viene da Maria», era scritto sul festone rosso, sopra l’altare.

Tornando dal campo
I germogli di vita cristiana che rifioriscono in Cina spuntano in un campo martoriato da mille intemperie. Anche questo li rende preziosi.
L’ultima tempesta cominciò più di cinquanta anni fa. Fu ai primi di settembre del 1951 che Antonio Riberi, nunzio apostolico in Cina, venne espulso ad Hong Kong. In quegli anni, il nuovo potere comunista metteva mano alla propria strategia riguardo alla questione cattolica: troncare tutti i legami gerarchici, istituzionali ed economici che legavano i cattolici cinesi al papa, alla banda di “imperialisti” che allignava in Vaticano e al resto del mondo cattolico, per creare una Chiesa “patriottica” e “indipendente”. Nel 1957 veniva fondata a Pechino l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, con il compito di guidare la comunità cattolica cinese sulla via dell’indipendenza dal papa e dalla Santa Sede. Nell’aprile del 1958 il francescano Bernardino Dong Guangqing veniva consacrato vescovo con il permesso del governo comunista, ma senza quello del Papa.
Alcuni, in nome della fedeltà al successore di Pietro, rifiutarono di aderire alla linea separatista imposta dal governo, e vennero subito colpiti. Molti altri – per paura, opportunismo, ma in gran parte anche per una sincera intenzione di continuare la propria missione in circostanze sempre più ostili – si adattarono, in attesa di tempi migliori. Invece arrivò l’uragano della Rivoluzione Culturale, che travolse tutti. Anche quelli che si erano mostrati più duttili davanti alle istanze patriottiche del governo. «I crocifissi furono tolti da tutte le chiese, i riti proibiti, tutti i testi religiosi sequestrati. Si stilarono liste nere di fedeli cattolici, le Guardie rosse andarono a cercarli casa per casa... Era finito il tempo della Chiesa patriottica. Era finito il tempo di qualsiasi Chiesa. Non era più una questione di autonomie o differenziazioni dalla Chiesa di Roma. Era la fede, qualsiasi fede ad essere considerata un’eresia metafisica nell’universo materialista della nuova Cina che sarebbe presto sorta dal fuoco della Rivoluzione Culturale» (Zorzi Adige, La Chiesa nascosta, Milano 1999). Per laici, sacerdoti e vescovi, compresi quelli nominati dall’Associazione patriottica, si aprirono le porte della prigione e dei campi di rieducazione, dove finivano tutti i cinesi che dovevano essere liberati dai cascami del mondo vecchio. Molti morirono di stenti e sevizie. Altri abiurarono. La gran parte, nei campi o fuori, non potendo far altro, fece l’unica cosa che conta. Chiesero al Signore e a sua Madre la grazia di rimanere fedeli, nell’intimo del proprio cuore.
Padre Domingo Jiang ha 65 anni. Nel ’58, quando era un giovanotto, gli mancavano solo due anni di seminario per diventare prete. E invece gliene sono serviti più di trenta. Alla fine degli anni Settanta è finito il suo ventennio di rieducazione nel campo. Ma ha dovuto aspettare molto tempo, prima che il governo gli permettesse di rientrare in seminario a riprendere gli studi. E poi ha dovuto ricominciare da capo, con la liturgia, la teologia, la storia. È diventato prete nel ’93, a quasi sessant’anni, l’età in cui gli altri cominciano a pensare alla pensione. Adesso è parroco sull’isolotto di Gulangyu, nella città di Xiamen. Quando lo abbiamo incontrato ci teneva a dire che adesso, col governo, non ci sono grossi problemi. «Ci chiedono di voler bene alla nostra patria, ma non intervengono nelle questioni di fede. Soprattutto quelle che toccano il dogma». Quel giorno, nella sala parrocchiale, un gruppo di vecchietti cantava e si divertiva al suono della fisarmonica. Nella bacheca parrocchiale le uniche cose in vendita erano i rosari, i libri di preghiere e quelli con le vite dei santi. Spiccava, tra le copertine, quella con la testolina piena di boccoli di santa Teresa di Gesù Bambino.

Soluzioni provvisorie
A Giovanni XXIII, che nel ’58 aveva definito «funesto tentativo di scisma» la scelta di quelli che accettavano di diventare vescovi senza il consenso del Papa, Lorenzo Bianchi, che a quel tempo era vescovo di Hong Kong, suggerì più cautela: «Almeno alcuni tra coloro che furono illegittimamente consacrati» disse rivolto al Pontefice «sappiamo senza dubbio che erano buoni, anzi ottimi sacerdoti. In mancanza di notizie certe, non possiamo emettere giudizi di condanna».
Chi ancora oggi insiste nel parlare di due Chiese cinesi, una fedele a Roma e l’altra al Partito, farebbe bene a gettare uno sguardo dentro la chiesetta di Shanwei, a pochi chilometri da Niupidi, intitolata a san Pietro. È una parrocchia “aperta”, cioè sottoposta al controllo degli organismi governativi: Ufficio per gli affari religiosi, Associazione patriottica e compagnia bella. Eppure, nella grande tela che hanno messo dietro l’altare, si vede Gesù che consegna al pescatore di Galilea le chiavi della Chiesa. E, sullo sfondo, l’inconfondibile cupolone della basilica romana dove abita il papa, appoggiata su una roccia salda e inespugnabile. «Non praevalebunt», ammiccava in latino, il giorno che lo abbiamo incontrato, padre Zhuo, che ha 35 anni e una moto scoppiettante con cui ogni giorno si scapicolla sulle colline fuori città. C’è da portare i sacramenti ai cristiani sparsi nei trenta villaggi qui intorno, che la domenica si trovano nelle loro cappelle a leggere il Vangelo con qualche catechista.
All’inizio degli anni Ottanta, uscendo dai campi di lavoro e dalle prigioni, i vescovi che sceglievano di tornare alle parrocchie e alle diocesi si esponevano al sospetto di voler riprendere la via dello scisma. Proprio nel febbraio 1981, il rimpianto segretario di Stato Agostino Casaroli, parlando delle ordinazioni di vescovi avvenute senza il consenso pontificio, suggeriva la possibile via d’uscita dall’impasse: «Noi» disse «diciamo che queste ordinazioni sono state fatte non conformemente alla legge canonica e quindi in forma illegittima, cioè non secondo la legge. Ma ciò che è illegittimo, a certe condizioni, può essere legittimato». Fu in quegli anni che alcuni tra i vescovi riconosciuti dal governo cominciarono ad inviare a Roma, attraverso canali riservati, delle lettere in cui dichiaravano la piena comunione con il papa e il desiderio di essere riconosciuti come vescovi legittimi.
Durante questi ultimi vent’anni, la “soluzione provvisoria” imboccata dai vescovi nominati dall’Associazione patriottica e legittimati in via riservata dalla Santa Sede ha fatto strada, diventando una sorta di non dichiarata prassi ordinaria. Su questo tavolo di gioco riservato, la Santa Sede e il governo di Pechino fanno le prove della possibile pacificazione di domani. Il lavoro paziente e silenzioso dei vescovi riconosciuti dal governo come cittadini leali potrebbe, nel tempo, togliere ogni pretesto alle ingerenze del governo nella vita ecclesiale. Attestando che il vincolo di comunione dei vescovi col papa non è una minaccia alla sicurezza nazionale. E che i vescovi cinesi non sono gli attivisti di una forza antagonista né gli “agenti agli ordini di una potenza straniera”, come recitavano i vecchi slogan maoisti.
Se questo modus vivendi ha attecchito, non è stato per la paura di essere fulminati dalla scomunica. Il sensus fidei del piccolo gregge cinese ha sempre custodito come una parte irrinunciabile della fede ricevuta la comunione con il vescovo di Roma. I travagli di questi decenni hanno solo reso più forte e struggente l’affetto verso il papa. Quando non potevano far altro, facevano la cosa più importante. Pregavano per il pastore lontano. Ora, anche in molte comunità aperte, quelle su cui vigila l’Associazione patriottica, è il popolo di Dio che spinge i vescovi a richiedere in via riservata la legittimazione da Roma, prima ancora di ricevere la nomina ufficiale e la consacrazione. Ne fanno la condizione della propria obbedienza al vescovo.
Ne sa qualcosa il povero don Matteo. Lui era un semplice parroco di Hangzhou, la bella città sul Lago dell’Ovest che un proverbio cinese descrive come un paradiso terrestre. Tutto filava tranquillo. La comunità era unita, e frequentava le chiese fatte riaprire dal governo. Non c’erano, nella regione, sacerdoti o vescovi che operavano in clandestinità. Non c’erano, dunque, le difficoltà tra comunità “aperta” e comunità “non riconosciute dal governo” che travagliano molte diocesi cinesi.
Poi, alla fine di giugno del 2000, successe il fattaccio.
Il governo locale, con decisione improvvisa quanto indecifrabile, decise di dare una dimostrazione di forza. Un segnale che arrivasse lontano, fino a Roma. Decisero che era venuto il tempo di rieleggere il vescovo, visto che la sede episcopale era vacante da più di un anno. Convocarono i rappresentanti delle parrocchie, selezionandoli tra i più ingenui e sprovveduti – catecumeni, cristiani appena battezzati, contadini dei villaggi più sperduti –, dissero che il candidato unico era padre Matteo. Alla votazione, tutti alzarono la mano. Molti, in cuor loro, pensavano che il candidato avesse già ottenuto da Roma la legittimazione.
Invece, a Roma non era arrivata nessuna richiesta. Anche i tre vescovi precettati per la consacrazione furono scelti tra quelli che non avevano mai ricevuto la legittimazione dal papa. La Santa Sede rispose all’ordinazione illegittima con un comunicato del direttore della sala stampa, in cui si ricordava che «un’ordinazione episcopale conferita senza il mandato apostolico rappresenta una dolorosa ferita alla comunione ecclesiale» e che «il diritto canonico stabilisce delle apposite dure sanzioni, sia per il vescovo che consacra sia per chi riceve l’ordinazione». Ma quello che dopo è successo ad Hangzhou è più importante delle scomuniche ventilate dai palazzi della Curia romana. Quando si è sparsa la voce che l’elezione non era riconosciuta da Roma, il vescovo si è improvvisamente trovato isolato. Il popolo dei fedeli gli ha fatto il vuoto intorno. Le sue messe in cattedrale vengono disertate. Padre Matteo, da allora, porta impresso nel suo sorriso triste e gentile il peso di una storia più grande di lui.

Febbre capitalista
Tutta la Cina, adesso, è un grande cantiere a cielo aperto. Un immenso dragone che sta mutando in fretta la pelle. Nelle città i vecchi hutong di casupole vengono rasi al suolo, e al loro posto spuntano grattacieli ciclopici di vetro e cemento. E nei prossimi vent’anni l’obiettivo titanico dei gerarchi di Pechino è quello di trasmettere la modernizzazione, già avviata nelle zone costiere di economia mista, alle province rurali dell’interno, dove vivono almeno due terzi della popolazione.
Il denaro e gli affari battono il tempo del grande cambiamento. Le commesse dei negozi e dei megastore, che sgobbano fino alle undici di sera senza batter ciglio, sono l’immagine facile della febbre capitalista che sta scuotendo la Cina. Si innescano processi sociali incontrollabili. Si polverizzano i legami tradizionali che per secoli hanno retto la società cinese, come il vincolo della pietà filiale verso i genitori. Evaporano gli ammortizzatori sociali dei tempi del collettivismo, soprattutto nelle campagne. Ma c’è anche un’euforia diffusa, da epopea della nuova frontiera.
Su questo terreno pieno di incognite, nelle stanze del potere si gioca anche la partita politica tra i custodi dell’ortodossia e i pragmatici modernizzatori. Dopo il prossimo congresso del Partito comunista si assisterà alla progressiva ascesa al potere della quarta generazione di leader comunisti dopo quelle di Mao, Deng e Jiang Zemin. Quali che siano le future politiche religiose delle autorità cinesi, i destini del piccolo resto dei cattolici cinesi avranno fatalmente a che fare con la febbrile corsa al futuro che sta mutando il Paese.
All’Università di Hangzhou stanno lavorando alla prima ricerca sociologica di taglio scientifico sul cattolicesimo nella Cina di oggi. Il professor Chen Confu e i suoi giovani ricercatori del Centro per gli studi cristiani contano di pubblicarla entro la fine del 2002. I ventimila questionari raccolti tra i cattolici della provincia dello Zhejiang, tra le più modernizzate della Cina, sondano anche l’opinione dei fedeli sulle prospettive di crescita del cattolicesimo cinese. Da alcuni dati finora elaborati emerge che solo il 37% del campione prevede per il cattolicesimo in Cina una possibilità di sensibile sviluppo. Il professore azzarda uno scenario occidentale: la comunità cattolica che ha attraversato gli anni terribili della persecuzione potrebbe essere travolta dalla modernizzazione in atto, e dai processi di secolarizzazione che essa innesca. E la sua analisi attribuisce la responsabilità di questo possibile esito anche al ritardo «culturale» del cattolicesimo cinese: «La Chiesa cinese è arretrata. Non è aperta alle novità teologiche e liturgiche di fuori. Deve riformarsi e mettersi al passo coi tempi, se vuole adattarsi al nuovo momento, quando la realtà del mercato globale cambierà la vita di noi tutti».
Curioso destino. Un tempo, il potere comunista strizzava i cattolici cinesi per il loro legame con la Chiesa universale. Adesso, nella lettura degli intellettuali culturalmente interessati al cristianesimo, il peccato originale della Chiesa cinese sarebbe quello di non essere in linea col registro di pensiero egemone nel mondo cattolico.

La guerra è finita?
Intanto, gli anni che passano si portano via i vecchi patriarchi, quelli che furono i protagonisti della grande battaglia. Ignazio Gong Pinmei, il fiero arcivescovo di Shanghai che negli anni Cinquanta era divenuto il campione della Chiesa resistente e che Giovanni Paolo II aveva creato cardinale in pectore già nel 1979, è morto esule negli Stati Uniti il 12 marzo 2000. Mentre già nell’aprile ’92 la polizia aveva restituito ai suoi cari in un sacco di plastica il corpo esanime di Pietro Fan Xueyan, che dalla provincia dell’Hebei, all’inizio degli anni Ottanta, aveva cominciato ad ordinare preti e a nominare vescovi fuori dal controllo dell’Associazione patriottica, inviandoli in tutta la Cina a guidare le comunità clandestine. La sua tomba, secondo voci ricorrenti, sarebbe stata smantellata di recente per scoraggiare i pellegrinaggi dei fedeli. A gennaio del 2001 se n’è andato anche il novantaduenne Mattia Duan Yinmin, l’ultimo vescovo cinese nominato da Pio XII, che aveva sempre confessato pubblicamente la sua comunione col vescovo di Roma, pur accettando di collaborare con gli organismi patriottici legati al governo. Se ne vanno a poco a poco anche gli altri. I preti e i vescovi che nel lungo tempo della prova si erano perduti.
Il passaggio d’epoca coincide con un salto generazionale. Nelle diocesi, nelle parrocchie e nei seminari, a fianco dei preti anziani, spesso ultraottantenni, reduci dai campi e dalle prigioni, si affaccia la schiera dei giovani sacerdoti, tra i trenta e i quarant’anni, usciti di fresco dai seminari riconosciuti dal governo. C’è chi dice che sono fragili. Qualcuno si domanda se avranno la fortuna di godere del tesoro che ha reso lieto il cuore dei loro padri, dentro mille tribolazioni.
Paolo è uno di loro. Viene da una famiglia di deportati in Mongolia, «cattolici da tre generazioni», ama sottolineare con un cenno di vanto quando si presenta. Ha studiato cinque anni in Pennsylvania, grazie a un programma di sostegno formativo realizzato dai padri della società missionaria americana di Maryknoll che negli ultimi tempi ha permesso a decine di seminaristi cinesi di frequentare i corsi delle università cattoliche nordamericane. Da quando è tornato insegna Sacra Scrittura ai venticinque studenti del seminario diocesano. Dalle storie che ci raccontava il giorno che lo abbiamo incontrato, si capiva che il tempo ha stemperato tanti furori. «I miei nonni, al solo sentir parlare di Associazione patriottica, rabbrividivano. A me, quelli che ci lavorano oggi non sembrano tutti così terribili. Molti sono cattolici sinceri. Che si guadagnano lo stipendio facendo i mediatori tra il governo e la Chiesa». Anche per quelli che scelgono di rimanere in clandestinità Paolo quel giorno aveva parole ragionevoli: «In America» raccontava «spesso ci trovavamo insieme, noi e i seminaristi provenienti dalle comunità clandestine. E lì parlavamo la stessa lingua...». Neanche la presunta arretratezza teologica del cattolicesimo cinese sembrava preoccuparlo. Ha tirato fuori il tomo dei documenti del Concilio, in inglese, e il Catechismo della Chiesa cattolica, «quello di Ratzinger», stampato a Taiwan: «Questi» ci ha detto «sono la base del nostro insegnamento. Qui c’è tutto ciò che è utile imparare dal magistero degli ultimi trent’anni. Per il resto, vanno bene le cose di sempre. Quando ero in America, la gente mi diceva: “Siamo in pena per voi della Chiesa di Cina. Siete pochi, poveri, divisi, arretrati, il governo vi controlla”. Io guardavo le loro chiese illuminate e riscaldate, piene di vescovi, preti, giornali, dove tutto era a posto. Poi pensavo alle preghiere che mia nonna analfabeta conosceva tutte a memoria. E a quando, prima di morire, mi disse: “Io me ne vado, e tu non dimenticare di dire qualche messa per me”. Allora, cercavo di rassicurare i miei amici: “Non vi preoccupate per noi, noi stiamo bene”. Non avere problemi, a volte, può essere un grosso problema».
Era piovuto per ore, quel giorno, a Pechino. Fuori dal piccolo seminario, il malandato campo di basket era così lucido che sembrava uno specchio. I rigagnoli d’acqua avevano raccolto i cumuli di fango e immondizia agli angoli dei marciapiedi. Ma anche lì era già cominciata la corsa verso le Olimpiadi del 2008. Anche in quel suo lembo estre­­mo, Pechino era in procinto di rinascere dalle sue macerie.
Proprio lì, entro qualche anno, passerà una superstrada a sei corsie. Le casupole verranno abbattute e la gente trasferita chissà dove. Ma la chiesetta di Cristo Re, annessa al seminario, la risparmieranno. «La terra della Chiesa non si può più espropriare», ci spiegava quel giorno Paolo con un sorriso furbo. Lì dentro, quattro vecchiette stavano dicendo il rosario. C’era, dietro l’altare, un arazzo con la riproduzione dell’Ultima cena di Leonardo. E, sotto, la scritta in ideogrammi gialli sul bandone rosso: «È l’eucaristia che salva il mondo».


Español English Français Deutsch Português