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Tratto da I TESORI PIÙ PREZIOSI

Qui c’è Ambrogio con i suoi amici prediletti


Sant’Ambrogio a Milano


di Giuseppe Frangi


«Poiché non merito di essere martire, vi ho procurato questi martiri». Era il 20 giugno dell’anno 386, un sabato. E Ambrogio, vescovo di Milano, dal pulpito della Basilica che familiarmente chiamavano “ambrosiana” («quam appellant ambrosianam», scrive in una lettera alla sorella Marcellina) e che ufficialmente era la Basilica Martyrum, annunciava la consacrazione di quell’altare. Sotto la mensa infatti erano state appena riposte le reliquie dei santi Gervaso e Protaso, ritrovate tre giorni prima, a poche centinaia di metri da lì.
La situazione non ha nulla di leggendario. Ambrogio, vescovo di Milano dal 374, aveva intrapreso subito la costruzione di grandi Basiliche sulle vie di accesso a Milano, per adattare la sua città adottiva al modello della sua città di origine, Roma. La Basilica Apostolorum era appunto sulla via romana, la Basilica Virginum (l’ultima della serie, oggi San Simpliciano) sulla strada per Como; la Basilica Salvatoris o di San Dionigi presso la porta orientale (oggi non esiste più). E infine, appunto, la Basilica Martyrum presso Porta Vercellina. Ognuna sorgeva su un’area cimiteriale, dove erano sepolte già generazioni di cristiani. Per esempio, a pochi passi dalla Basilica Ambrosiana, c’era il sacello che conservava i resti di san Vittore, dove lo stesso Ambrogio, nel 378, aveva riposto il corpo dell’amatissimo fratello Satiro. Quel sacello è ancora conservato, anche se oggi è un tutt’uno con la Basilica stessa.
Poco più in là, dove oggi sorge la caserma della Polizia, affacciata sulla piazza, c’era invece la chiesa che custodiva i corpi veneratissimi dei santi Nabore e Felice. Proprio scavando lì davanti, Ambrogio aveva trovato i resti di Gervaso e Protaso. L’episodio lo raccontò per filo e per segno nell’Epistola XXII alla sorella Marcellina, che in quei mesi si era allontanata da Milano. «Avevo appena fatto la dedicazione di una Basilica [la Basilica Martyrum, ndr] quando molti incominciarono a dire: “Ti comporterai come per la dedicazione della Basilica di Porta Romana?” [la Basilica Apostolorum, ndr]. E io risposi: “Sicuramente se troverò le reliquie di martiri” [...]. Il Signore mi concesse la grazia. Infatti anche se il clero dimostrava un certo timore, io feci togliere dei sassi dal terreno che si estende davanti alla cappella dei Santi Nabore e Felice. In quel luogo trovai delle tracce inequivocabili [...]. Incominciarono a emergere dal terreno i santi martiri in modo tale che, mentre eravamo ancora in silenzio, fu possibile portare in superficie l’urna e poté essere deposta sul pavimento. All’interno vi trovammo due uomini di enorme statura [...] le ossa erano intatte [...]. Li profumammo completamente di aromi».
Ambrogio è preciso nei particolari: appena un mese prima, il 9 maggio di quel 386, aveva infatti posto sotto l’altare maggiore della Basilica di Porta Romana le reliquie dei tre apostoli, Andrea, Giovanni e Tommaso. Oggi quella stessa Basilica, ancora esistente, è meglio nota come di San Nazaro, dal nome del martire che sempre Ambrogio fece seppellire qui nel 395.
«Piae latebant ostiae», scrive sempre Ambrogio nell’inno dedicato al ritrovamento di Gervaso e Protaso. Ma «latere sanguis non potest qui clamat ad Deum patrem». E l’uso di quel sostantivo “ostiae” spiega l’assimilazione tra i resti di quei corpi e il luogo – l’altare – dove si compie il sacrificio di Cristo. «Egli che è morto per tutti, sta sull’altare; questi, che sono stati riscattati dalla sua passione, staranno sotto l’altare», scrive sempre alla sorella Marcellina.

La fretta di Ambrogio
Probabilmente, in quel momento, il cantiere della chiesa non era ancora del tutto concluso. Ambrogio era un uomo spiccio, che non indugiava mai sulle cose. Era forse l’uomo che contava di più, in quello scorcio di storia, nell’intero Impero romano. Aveva avuto rapporti tumultuosi con più di un imperatore, con contenziosi quasi sempre rivolti a suo favore. Ma proprio per questo, come documenta Richard Krautheimer in quel suo straordinario libro che è Tre capitali cristiane, Ambrogio non poteva contare sulle risorse delle casseforti imperiali. Le sue Basiliche, così, dal punto di vista costruttivo appaiono spartane: le fondamenta sono in ciotoli di fiume, con letti di malta alti e rappezzi a spina di pesce. Conclude Krautheimer: «A mio modo di vedere, la tecnica di bassa qualità delle chiese ambrosiane è stata determinata da un sostegno finanziario meno generoso e da una maggiore fretta nell’edificazione. Ambrogio aveva gran premura, e i mezzi a sua disposizione, sebbene ampi, non erano illimitati».
Tutto il contrario accadeva invece nelle vicende costruttive dell’altra grande Basilica milanese, quella poi dedicata a San Lorenzo, che proprio negli stessi anni, su istigazione dell’imperatrice madre Giustina, era stata costruita vicino al palazzo imperiale, con l’idea di destinarla agli ariani. Ambrogio anche in questo caso si mise di traverso e alla fine la spuntò, avendo il popolo tutto schierato dalla sua. Giovedì 2 aprile del 386, alla notizia che le guardie imperiali avevano tolto l’assedio alla Basilica Porziana (così allora si chiamava San Lorenzo), il vescovo poteva scrivere alla sorella: «Quale fu allora l’allegrezza di tutta la gente, quale il plauso di tutto il popolo, quale la riconoscenza!». Due mesi dopo quello stesso popolo avrebbe seguito con commozione il ritrovamento dei resti di Gervaso e Protaso, come già raccontato. Per Ambrogio era la vittoria sulle pretese dell’Impero e degli ariani.

Gli amici martiri
Non resta molto della Basilica di Ambrogio, che era lunga 53 metri e larga 26 e aveva un orientamento leggermente ruotato rispetto a quello attuale. Il vescovo vi venne sepolto da Simpliciano, suo successore, nel 397 (diceva spesso che un sacerdote deve essere sepolto là dove in vita ha celebrato la messa). Pochi mesi dopo l’avrebbe seguito l’adorata sorella Marcellina, più vecchia di lui di dieci anni, per la quale Ambrogio aveva scritto i testi dedicati alla verginità. Una lapide nella cripta ricorda il luogo nel quale, a fine 1700, venne ritrovata, «ad pedem Ambrosii ad latus Satyri fratris». Oggi riposa nella terza cappella della navata di destra, dentro una fredda urna neoclassica. Nella cappella che la precede, tra due grandi tele di Tiepolo, c’è il fratello Satiro. Ambrogio invece è rimasto là dove aveva voluto essere. Per secoli il suo corpo è stato custodito in un grande sarcofago di porfido rosso, che appoggiava su due tombe vuote e che è ancora visibile nella cripta. L’8 agosto del 1871 il sarcofago venne aperto: conteneva le spoglie affiancate dei tre santi. In mezzo Ambrogio, ai lati Gervaso e Protaso. Nella stessa formazione i corpi sono custoditi oggi nell’urna di vetro proprio sotto l’altare: Gervaso e Protaso sono vestiti di una dalmatica rossa e hanno tra le mani la palma del martirio. Ambrogio invece ha un solenne abito pontificale bianco.

Il suo ritratto
Lo vediamo vestito di bianco anche nello straordinario mosaico, di poco successivo alla sua morte, nel sacello di San Vittore. Anche lì è rappresentato tra i due martiri “amici”, mentre sull’altro lato lo fronteggiano altre presenze familiari: Nabore, Felice e Materno. È un ritratto molto verosimile e realista quello realizzato dall’anonimo mosaicista: Ambrogio ha la barba corta che gli incornicia un volto magro, una stempiatura appena accennata, due notevoli orecchie, e soprattutto uno sguardo pensoso e insieme sgranato sulla realtà. I piedi larghi e la tunica bianca, quasi da antico senatore romano, ce lo restituiscono come un uomo concreto, piantato saldamente per terra.
Ambrogio in abiti civili lo ritroviamo nei rilievi del ciborio che si innalza nel cuore del presbiterio, e quindi proprio in verticale sopra l’urna delle reliquie custodite nella cripta. Questa è opera di fine millennio e sul lato rivolto verso l’abside rappresenta il santo, ancora piantato saldamente a piedi larghi. A dispetto della posa ieratica la scena è un concentrato di eventi: si vedono ai lati Gervaso e Protaso che portano al cospetto di Ambrogio, con gesto protettivo, due personaggi, vestiti con scapolare e cocolla. Quello di sinistra è l’abate Gaudenzio che offre al santo il modellino del ciborio. Il monaco sulla destra invece atteggia le mani tra il senso dell’attesa e l’applauso. In alto, dove il frontone si stringe, curiosamente compare un bambino con aureola: è il Figlio in fattezze umane. Ma secondo un’interpretazione si potrebbe trattare del fanciullo che in mezzo alla folla, in quel 374, aveva lanciato il grido, poi raccolto da tutti i fedeli: «Ambrogio vescovo».

Il tesoro più prezioso
Sotto il ciborio c’è il gioiello più splendente della Basilica, e forse uno dei gioielli più straordinari di tutta la storia cristiana. È l’altare d’oro commissionato dall’arcivescovo Angilberto II in epoca carolingia a un maestro che doveva essere certamente celebre, visto lo spazio che ricava per sé stesso nei rilievi: Vuolvinio. Sul retro l’altare ha uno sportello che rivela la funzione per cui era stato pensato: doveva infatti contenere l’urna con i corpi dei tre santi, venendo così totalmente incontro al desiderio di Ambrogio. Una scritta che fa da cornice ai rilievi dichiara chiaramente l’intento di Angilberto II: «Thesauro tamen haec cuncto potiore metallo ossibus interius pollet donata sacratis»; «Ma all’interno ha un tesoro più prezioso di tutti i metalli, poiché ha avuto in dono le sacre ossa». In realtà i corpi restarono custoditi sino al secolo scorso nella grande urna di porfido rosso ancora conservata nella cripta e non si sa per quale motivo l’altare rimase invece vuoto.
I rilievi sono in lamina a sbalzo: sul fronte le formelle rappresentano la vita di Cristo, ai lati ci sono le glorie della Chiesa milanese, sul retro invece, in lamine d’argento con dorature al mercurio, è raccontata minuziosamente la vita di Ambrogio. È un racconto concitato, dove non mancano i colpi di scena, come nel bellissimo episodio in cui Ambrogio, in fuga da Milano per evitare l’investitura a vescovo, viene praticamente “arpionato” dalla mano di Dio e quasi rischia di cadere dal cavallo imbizzarrito. Una scena che potrebbe avere come didascalia la stupenda sintesi della propria storia che Ambrogio scrisse tra 387 e 390 nel De Paenitentia: «Si dirà: ecco uno che non è stato nutrito nel seno della Chiesa […] preso dai tribunali e tolto dalle vanità di questo secolo, dalla voce del pretore è passato al canto del salmista, non per virtù sua ma per grazia di Cristo sta ora nel sacerdozio […]. Conserva, Signore, il tuo dono, custodiscilo tu che l’hai dato a chi lo fuggiva. Ché io sapevo di essere indegno di essere chiamato vescovo. Per grazia di Dio, però, sono quel che sono, sono l’infimo tra i vescovi, infimo in dignità. Ma poiché anch’io ho sostenuto qualche fatica per la tua Chiesa, tu prenditi cura del frutto; se perduto mi hai chiamato all’episcopato, vescovo non permettere che io mi perda».


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