Rubriche
tratto dal n.01/02 - 2005


Sfumature di porpora


Giuseppe De Carli, 
Eminenza, mi permette?, Piemme, Casale 
Monferrato (Al) 2004, 
261 pp., euro 14,90

Giuseppe De Carli, Eminenza, mi permette?, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2004, 261 pp., euro 14,90

Giuseppe De Carli è un bravo giornalista Rai, conosciuto nel mondo per le dirette televisive sulle celebrazioni del Papa. Ora, con il libro Eminenza, mi permette?, “confessa” alcuni cardinali sui temi più attuali: la secolarizzazione e la scomparsa del sentire religioso; il futuro del cristianesimo; il rapporto con l'islam; il divario crescente tra Nord e Sud del mondo; le possibili riforme della Chiesa; il tema dell’inculturazione; il rapporto con le altre Chiese; i termini della laicità di uno Stato (la situazione francese, dove la laicità è stata normata con legge, viene considerata da due cardinali francesi, Jean-Marie Lustiger, di Parigi, e Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione).
Sono ventitré colloqui, molto opportunamente introdotti da una breve scheda bio-bibliografica dell’intervistato. Ovviamente, si inizia col cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il custode della fede cattolica, decano – dal 2002 – del Collegio cardinalizio. Interessante il colloquio con Martino, uomo di grande esperienza internazionale, a capo del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, sintetizzato nel titolo “I cristiani amano la pace, non sono pacifisti”: una vera breve lezione sul valore della pace per i cristiani e sulla politica internazionale. La prima sezione del libro è riservata ad esponenti della Curia romana, quali Attilio Nicora, presidente dell’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, che parla della questione delle risorse necessarie all’apostolato, Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, che recentemente (11 novembre 2004) ha proposto una nuova lettura del decreto conciliare sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, a quarant’anni dalla sua promulgazione; José Saraiva Martins a capo della Congregazione per le cause dei santi, e sua beatitudine Ignace Moussa I Daoud, patriarca della Chiesa siro-cattolica, ponte fra Chiesa latina e Chiese orientali, il primo orientale di lingua araba a guidare il dicastero che ha giurisdizione sulle Chiese cattoliche del Medio Oriente. Molto belle le interviste al cardinal Martini sull’organizzazione della Chiesa e al patriarca di Venezia, Angelo Scola, condensata sotto il titolo, di per sé eloquente, “In Europa l’ideologia corrompe la religione”. Seguono quattro interessanti sezioni dedicate all’Europa, alle Americhe, all’Asia, all’Africa, dove i cardinali sono i più esposti, sono spesso sulle frontiere più avanzate della fede e dell’evangelizzazione.
Si ha l’impressione che De Carli con le sue domande qualche volta metta l’interlocutore all’angolo, costringendolo a delle risposte sincere, non di rito, che hanno il pregio di raccontare la Chiesa e il mondo. Chiude il libro l’elenco dei 121 cardinali che entreranno in conclave per eleggere il nuovo papa. Ad oggi.




Un antidoto alla Fallaci


Andrea Riccardi, La pace preventiva, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2004, 
223 pp., euro 14,50

Andrea Riccardi, La pace preventiva, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2004, 223 pp., euro 14,50

Riflessioni intorno alle radici cristiane della pace, al senso evangelico del termine, non sono fuori luogo, anzi sono urgenti in questi tempi di guerre (non mi riferisco solo al conflitto in Iraq che sta pesando terribilmente sulla coscienza di tutti). Riflessioni, dunque, legate sì a un periodo, a questo periodo, ma anche a una domanda radicale che interpella in profondità il vivere cristiano e il futuro del mondo.
Il tema della pace è legato a quello della guerra e alle sue nuove forme. L’ultimo decennio del XX secolo registra 5 milioni di morti e 6 milioni di feriti in guerra, in larga parte civili. In uno scenario del genere, in presenza di una miriade di guerre civili, che vuol dire “pace”? Michel Howard in un recente libro sostiene che la pace non possa essere imposta, ma debba maturare nel consenso generalizzato, quindi in una diffusa cultura di pace e in un senso di responsabilità condiviso. Ora Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio e ordinario di Storia contemporanea all’Università degli Studi Roma Tre, ne La pace preventiva riflette sulle speranze e sulle ragioni della pace in un mondo di conflitti. Ovviamente da credente, alla luce della parola di Dio, della tradizione cristiana e del vissuto attuale dei credenti. E lo fa portando esempi di figure cristiane, di testimoni che hanno segnato il nostro tempo: padre René Voillaume o la piccola sorella Magdeleine, fondatrice delle Piccole Sorelle di Gesù, per fare un esempio. Pace preventiva, dunque. Che possono fare i cristiani? Come affermare il valore della pace, oggi? Le riflessioni di Riccardi sono a vasto raggio: spaziano dalla violenza della povertà al dramma dell’Aids, che segnano la storia dell’Africa, alle guerre dimenticate o poco considerate perché avvengono in regioni non strategiche per la geopolitica attuale. Così muoiono di fame, sete e violenze diecimila persone al mese nel Darfur, che hanno la sfortuna di essere vittime di fondamentalismi musulmani anziché della globalizzazione, e le popolazioni del sud Sudan vengono massacrate da vent’anni, quasi nell’indifferenza generale, perché hanno la tenacia di voler restare cristiane (peraltro il Sudan sarebbe assai ricco di petrolio). L’autore non rinuncia, poi, a dare risposte alla tesi dello scontro delle civiltà e del nuovo ordine mondiale propugnato dall’americano Samuel P. Huntington, o alle accuse lanciate ai cattolici da Oriana Fallaci ne La rabbia e l’orgoglio.
Un mondo senza pace è un mondo di disperazione diffusa. Con ostinazione Riccardi propone il diritto-dovere dei cristiani di essere costruttori di pace, anche fino al martirio. E in un tempo di confusione generale e di violenza, porre dei punti fermi alla comprensione del ruolo dei cristiani nella costruzione della pace non è cosa di poco conto.




Riflessioni sull’Europa


Guido Bodrato, L’Europa [im]possibile, Portalupi editore, Casale Monferrato (Al) 2004, 164 pp., euro 9,50

Guido Bodrato, L’Europa [im]possibile, Portalupi editore, Casale Monferrato (Al) 2004, 164 pp., euro 9,50

I diari, si sa, sono sempre molto personali; rappresentano momenti in cui ci si lascia andare, e spesso le riflessioni, pur cariche di obiettività, tendono a riportare posizioni e punti di vista personali. E così anche Guido Bodrato nel suoi diari che vanno dal 28 marzo 2002 al 23 aprile 2004, due anni cruciali per la costruzione dell’Europa, non sfugge a questa tentazione. Raccoglie in un interessante libro, L’Europa [im] possibile, riflessioni generali e partitiche, cioè di parte, sulla sua esperienza europea. In più occasioni fa analisi politiche molto interessanti riferite al ruolo del Ppe (cfr. “La deriva conservatrice del Ppe” e “Lettera aperta a Hans-Gert Pöttering”, leader del Ppe, pp. 113-121); e agli avvenimenti di questo periodo, dominati sì dal terrorismo, dalla paura e dall’incertezza, ma anche da una gran voglia di “fare” l’Europa. Europeismo e atlantismo; l’irrompere della guerra in Iraq nel difficile processo di costruzione dell’Europa; la strage di Madrid dell’11 marzo 2004; il difficile semestre italiano gennaio-giugno 2003; la delicata elaborazione della nuova Carta europea; il nodo, tutto attuale, dell’adesione della Turchia; il problema della Cina: sono solo alcuni dei temi affrontati. Oggi siamo alla firma della nuova Costituzione europea che ha aperto una fase nuova anche per il Parlamento di Strasburgo. Una svolta storica. L’Europa allargata a venticinque Paesi è comunque “altra” rispetto alla “vecchia Europa”, anche perché l’Unione si colloca ormai in un mondo che è radicalmente cambiato dopo la fine della guerra fredda, sia per ciò che riguarda la geopolitica sia perché il modello sociale ed economico europeo è messo in discussione dalla mondializzazione dei mercati.
Jean Monnet sul frontespizio delle sue Mémoires scriveva: «Nous ne coalisons pas des Etats, nous unissons des hommes». L’avvenire dell’Europa dipende anche da noi. Eppure in qualche momento abbiamo l’impressione che l’Unione europea sia ancora un sogno, un progetto, un’idea, un cantiere aperto. Tuttavia dobbiamo riconoscere che senza l’utopia dei federalisti come De Gasperi, Schuman, Adenauer, Monnet, Spinelli non ci sarebbero né il mercato unico né la moneta unica. E forse non avremmo vissuto settant’anni di pace come bene ha scritto lo storico Gabriele De Rosa: «Ricordare la figura di Alcide De Gasperi significa confrontarsi con alcuni nodi cruciali della storia italiana ed europea del XX secolo: dalle vicende legate alla dissoluzione dell’Impero asburgico, alla crisi dello Stato liberale e all’avvento del fascismo in Italia negli anni Venti; dalla tragedia della Seconda guerra mondiale alla difficile opera di ricostruzione e di avvio della modernizzazione economica, politica e istituzionale del nostro Paese: fino al progetto di una casa comune europea capace di assicurare pace, democrazia e benessere ai popoli che la compongono».




In casa Lercaro


 Mario Lanciotti, I miei anni in casa Lercaro 1962-1968,  
Minerva edizioni, Argelato (Bo) 2004, 301pp., euro 18,00

Mario Lanciotti, I miei anni in casa Lercaro 1962-1968, Minerva edizioni, Argelato (Bo) 2004, 301pp., euro 18,00

In questi ultimi tempi sono usciti alcuni interessanti libri e saggi sul cardinale Giacomo Lercaro (1891-1976) che fanno luce e, in alcuni casi, chiarezza sulla figura dell’arcivescovo di Bologna.
Mi riferisco soprattutto al recente Araldo del Vangelo che chiarisce i retroscena, legati peraltro a una difficile partita diplomatica, della destituzione di Lercaro dalla carica di arcivescovo di Bologna “per raggiunti limiti di età”, invero per volontà di papa Paolo VI, il 12 febbraio 1968, ai tempi della guerra in Viet Nam. La rimozione provocò un putiferio, con reazioni contrastanti nel mondo civile ed ecclesiastico: nell’omelia di capodanno del 1968 il cardinale aveva condannato senza mezzi termini i bombardamenti americani in Viet Nam come contrari al Vangelo, invocandone la sospensione unilaterale, mentre l’attività diplomatica di Paolo VI era di altro tenore, pazientemente diplomatica appunto. Lercaro viene destituito, deve lasciare la diocesi e ubbidisce al Papa (il fatto viene ricostruito anche da Mario Lanciotti nel libro che qui si recensisce, cfr. “Il cardinale in pensione”, p.267).
La dimensione di Lercaro di “padre” di una grande famiglia, con più di sessanta membri, ospitata in arcivescovado a Bologna, viene ricostruita e riproposta, sotto forma di pura e semplice narrazione, da un “figlio”, Mario Lanciotti, in un libro documentario, I miei anni in casa Lercaro 1962-1968.
Lercaro fu un protagonista, sul terreno della riforma liturgica, del Concilio ecumenico Vaticano II, evento che segnò un’epoca. Erano anni rivoluzionari per la Chiesa cattolica. Le testimonianze e i ricordi hanno il pregio di ricostruire la dimensione di una grande figura della Chiesa. Tradizioni, ricorrenze, ritratti, seppur appena abbozzati, di figure importanti dell’epoca (Moro, Capovilla, la sorella Teresa, l’angelo di casa Lercaro alla quale è dedicato il libro) si susseguono nelle descrizioni del vivere quotidiano di una “famiglia” particolare, delle gite organizzate in Italia e all’estero.
Le pagine di Lanciotti hanno il pregio dell’immediatezza, della spontaneità, e per questo sono sincere. Esce la dimensione profetica, sacerdotale e regale – per usare le parole di monsignor Vecchi, vescovo ausiliare di Bologna, allora segretario del cardinal Lercaro – di una pastorale integrale, sapientemente radicata nella celebrazione liturgica, di una delle figure più rappresentative e determinanti dell’episcopato cattolico della seconda metà del Novecento.




Per riscoprire La Pira


Riccardo Bigi, ll sindaco santo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2004, 153 pp., euro 12,00

Riccardo Bigi, ll sindaco santo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2004, 153 pp., euro 12,00

Le celebrazioni svoltesi in molte parti d’Italia per il centenario della nascita di Giorgio La Pira (1904) sono state l’occasione per riscoprire questo strano e straordinario uomo politico, ri­conoscere il valore del sindaco di Firenze, il “sindaco santo”, come qualcuno lo volle definire. Ritrovare oggi ­La Pira, le sue intuizioni, alcune con valenza profetica, in una stagione in cui la politica spesso appare una rappresentazione scenica diversa da quell’arte nobile di servire il popolo, che privilegia i poveri, distante da quella tensione civile che impegna l’uomo nella costruzione della città, non può che sollevare lo spirito.
Leggendo l’ultimo contributo di Riccardo Bigi, Il sindaco santo sulla vita, le opere, i segreti di Giorgio La Pira, in uno sguardo d’insieme – come dice l’autore stesso – che permette anche a chi non l’ha mai conosciuto di avvicinarsi a questo straordinario personaggio, viene da chiedersi: cosa direbbe e cosa farebbe oggi La Pira osservando la politica nostrana verso i poveri, scelta privilegiata del suo agire politico inteso, pur nella sua dimensione laica e secondo i talenti di ciascuno, come un prolungamento dell’amore di Dio nell’amore del prossimo? Credo che nel riservare attenzione ai poveri, alle attese della povera gente (è anche il titolo di un suo libro) La Pira abbia avuto grandi soddisfazioni. Formatosi essenzialmente su studi giuridici, divenuto cattedratico di Diritto romano all’Università di Firenze nel 1927, La Pira sarà per tante generazioni di universitari, ben oltre il prestigioso insegnante, un maestro di vita, specie attraverso quella “messa del povero” che da Firenze esportò anche a Roma, andando spesso lui personalmente, alla domenica, nella Chiesa di San Girolamo della carità per prestare attenzione affettuosa a qualche centinaio di vittime della miseria, alle quali diceva che erano gli studenti che dovevano essere grati perché insegnavano la filosofia vera della vita.
È una domanda che mi sono posto durante la lettura del libro nel quale l’autore accompagna il lettore lungo le varie tappe della vicenda lapiriana.
Un’altra riflessione viene spontanea sul tema della pace. È straordinaria l’identità di La Pira uomo di pace, di pensatore della politica intesa, appunto, come costruzione di dialogo, di ponti, di equilibri interni ai singoli Stati e tra le nazioni (cfr. al riguardo anche il libro di Angelo Scivoletto, Giorgio La Pira. La politica come arte della pace, ed. Studium, Roma 2003). Nell’esercizio della missione politica, in Parlamento, al governo e specialmente alla guida della città di Firenze, città che diventa un “osservatorio sul mondo”, un “laboratorio di idee” per la solidarietà tra i popoli, vi furono momenti di polemica con le autorità. La Pira rimase fermissimo nei concetti, saldissimo nelle proprie convinzioni cristiane.
È noto che alcune iniziative internazionali di La Pira trovarono sul momento, e dopo, anche commenti critici, ma l’idea dei colloqui tra cristiani, ebrei ed islamici, ad esempio, fu straordinariamente positiva, oltreché profetica: era la semina di una pianta che purtroppo non è ancora adeguatamente cresciuta, e in tutto il mondo arabo quelle iniziative fiorentine hanno lasciato un segno incancellabile. La Pira considerò Firenze, città della quale si innamorò in maniera indissolubile per tutta la vita, come sede chiamata dalla provvidenza a costruire e a vivere messaggi di pace. E per lui la pace era, logicamente, cristiana, esplicitamente inquadrata nella visione cristiana della storia.
E se oggi La Pira ha molti più amici ed estimatori di quanti ne aveva nella sua vita terrena, questo sta a significare che la sua testimonianza di cristiano in politica ha portato frutti.




La resistenza nella Città eterna


La battaglia di Roma, 
Editrice Il Parnaso, Roma 2004,  euro 12,00

La battaglia di Roma, Editrice Il Parnaso, Roma 2004, euro 12,00

Il ritrovamento delle fotografie, in mostra al Museo di Roma in Trastevere, riguardanti l’occupazione tedesca di Roma nei giorni seguenti all’armistizio, ci suggerisce alcune riflessioni.
Il 9 settembre 1943 si può considerare il primo giorno della Resistenza con i combattimenti a Porta San Paolo. Coloro che morirono nella difesa di Roma sono i primi caduti per la libertà. Primo su tutti il professor Persichetti, medaglia d’oro, che cercò di animare gli uomini che si apprestavano ad una impari lotta. Numericamente le nostre truppe erano ben superiori alle germaniche, ma mal organizzate e ancor peggio comandate per cui furono preda dei tedeschi. Nei combattimenti perirono più di ottocento persone.
Nelle altre parti di Roma l’occupazione dei punti nevralgici si svolse in maniera incruenta. In molti casi nostri commilitoni scelsero subito di collaborare con gli ex alleati. Lo si nota particolarmente nelle foto riguardanti l’occupazione dell’Eiar (oggi Rai) e del Ministero degli Interni in via Depretis.
Non cruenta ma comunque drammatica è l’operazione di disarmo e cattura degli uomini della Divisione Piave accampata nel quartiere Trieste. I militi, disarmati già dai tedeschi, sono rassegnati a subire una sorte che per i più significherà una lunga detenzione nei campi di prigionia della Germania.
Vari aspetti, quindi, di una città abbandonata dal re e da Badoglio a sé stessa. Senza direttive e senza alcuno sprone, le nostre forze armate si liquefecero. I più ostinati cercarono di proseguire la lotta contro i tedeschi dandosi alla montagna, altri, non accettando il voltafaccia verso i camerati di tre anni, si affiancarono ai germanici proseguendo la lotta contro gli angloamericani.
I romani, anche essi frastornati da notizie contraddittorie che accreditavano un presunto accordo su Roma città aperta e da altre che davano per certa la resa delle nostre truppe ai nazisti, vissero nell’incertezza e nella rassegnazione a dover trascorrere un lungo periodo sotto la dominazione germanica sperando in un “veloce” arrivo degli americani.
Questa la chiave di lettura delle fotografie, che da un lato consegnano alla storia alcune immagini dei momenti più tragici vissuti da Roma nello scorso secolo, dall’altro esprimono più che con parole la rassegnazione e la tristezza dell’inizio di nove mesi di occupazione nazista.




Riflettori su Pio XII


Luigi Bizzarri, Il Principe di Dio. La vera storia di Pio XII,
Ancora, Milano 2004, 134 pp., euro 11,00

Luigi Bizzarri, Il Principe di Dio. La vera storia di Pio XII, Ancora, Milano 2004, 134 pp., euro 11,00

Una sintetica biografia di Pio XII. Agile quanto efficace. Come un racconto in diretta. È questo il profilo e la ricostruzione di un travagliato pontificato uscito dalla penna cristallina e avvincente di un autore che ha voluto calarsi nelle fitte pieghe di una storia e ripercorrere le tappe salienti della complessa vicenda umana di papa Pacelli e degli avvenimenti storici che a quella vicenda s’intrecciano. Non un saggio storico in senso stretto, dunque, ma il tratteggio di un osservatore attento alle sfumature e ai chiaroscuri, consapevole di quanto «la ricerca storica non può dire a posteriori o con il senno di poi che cosa si sarebbe potuto o dovuto fare, ma cercare di ricostruire motivi, ragionamenti, mentalità, condizionamenti oggettivi e soggettivi che hanno determinato scelte e comportamenti».
Il pregio del volume di Bizzarri sta proprio qui, nel rifuggire abilmente dalla tentazione di costruire un racconto “a tesi”, nel tentativo di far parlare, quanto più possibile, i fatti. La vera storia di Pio XII è in realtà quasi una cronaca della sua vita, redatta in uno stile immediato, vivido, stringente. Uno stile innervato da una scrittura scandita quasi come una sceneggiatura che usa le parole come immagini e che rimanda all’occasione da cui questo testo è nato: la realizzazione del film-documento su Pio XII per il programma televisivo La Grande Storia di Raitre, di cui Bizzarri è anche curatore.
Fin dalle prime battute, la ricostruzione della vicenda Pacelli affonda nel contesto storico e culturale in cui il giovane Eugenio si forma: l’ambiente della nobiltà romana da cui proviene, gli anni del non expedit e della “prigionia” del vicario di Cristo in Vaticano. L’autore descrive la straordinaria vivacità intellettuale del novello sacerdote; la fiducia che gli accordano presto i più autorevoli esponenti della Curia; i primi passi della carriera diplomatica; l’esperienza diretta del sorgere dei nuovi totalitarismi; lo spettro del comunismo; l’avvicinamento tra Chiesa e Stato italiano con il Concordato del 1929; fino agli anni in cui Pacelli è segretario di Stato e si va profilando la sua successione a papa Ratti. La figura di Pio XII è così tratteggiata senza un preconcetto intento agiografico, ma anche senza l’acredine del polemista. Gli avvenimenti della guerra scandiscono un crescendo di tensione e di scelte difficili per il Pontefice, chiamato da un lato a tentare soluzioni per evitare la carneficina della guerra e a non esporre i cattolici tedeschi a ritorsioni, dall’altro a sollevare il velo sullo sterminio in atto a danno degli ebrei e a mantenere nello stesso tempo una difficile neutralità, che Pio XII si sforzerà fino alla fine di salvare. Non fu certo il Papa di Hitler; non sarà, a guerra finita, il “cappellano dell’Occidente”. Un impegno arduo, che avrebbe messo alla prova anche il più raffinato dei diplomatici, come certamente Pacelli fu.
Degli ultimi anni, l’autore sottolinea l’impegno del papa nel promuovere la rinascita di una civitas christiana che inevitabilmente si avviava al declino. La solitudine e il progressivo distacco dal mondo segnano il periodo conclusivo del pontificato e pongono il sigillo a un’esistenza lunga, complessa, sempre vissuta al centro di eventi storici epocali, difficili da interpretare: un peso che l’ultimo “principe di Dio” dovette spesso portare, a conferma di quell’ accipio pronunciato il giorno della sua elezione al quale egli volle aggiungere in crucem. Come una croce. Anche dopo la morte.


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