Rubriche
tratto dal n.09 - 2006


All’ombra della Mezzaluna


Giuseppe Romeo, 
All’ombra della mezzaluna, edizioni Dedalo, Bari 2005, 331 pp., euro 17,00

Giuseppe Romeo, All’ombra della mezzaluna, edizioni Dedalo, Bari 2005, 331 pp., euro 17,00

Riflessioni sull’islam e sulla sua entità nelle diverse regioni sono frequenti, la letteratura è vastissima; basta, del resto, dare uno sguardo alla bibliografia citata nel volume per rendersi conto della ricchezza di studi e analisi prodotta negli ultimi anni. Aggiungiamo ora quella di Giuseppe Romeo, All’ombra della Mezzaluna (edizioni Dedalo). Lo scenario, lo attesta nel sottotitolo, è il dopo Saddam, il dopo Arafat, il dopoguerra.
Gli argomenti si intrecciano: la strategicità del Medio Oriente (quali sono i suoi confini?) ai fini degli equilibri mondiali; l’11 settembre 2001; la guerra in Iraq; il terrorismo internazionale; i processi per la creazione dello Stato palestinese dopo la morte di Arafat. Colpisce l’abbondanza e la precisione di riferimenti nel descrivere le condizioni geografiche e politiche del Medio Oriente che dalla fine della Seconda guerra mondiale, in realtà, diventò una delle espressioni più significative di un sistema sempre più indipendente e, al contrario del resto del mondo che si polarizzava in un rapporto competitivo ed esclusivo tra Est e Ovest, rimaneva l’unica regione in cui tutto era possibile. La stessa analisi della situazione e del ruolo fatta da Romeo, prendendo il 1979 come anno di riferimento, fa luce su molti aspetti politici della situazione odierna. Idem per la Siria.
È un libro interessante questo di Romeo; documentatissimo e fondamentale per una equilibrata comprensione del caos geopolitico dei nostri giorni.
Chiusa una parte politica molto interessante, una seconda parte del libro (la suddivisione è personale) è dedicata al modello islamico, con riferimenti a interessi economici e finanziari (capp. IV e V, pp. 169-256). Secondo Romeo l’identità religiosa ha surrogato la stessa idea di nazione, ma tale forma unitaria è stata infranta dall’irruzione degli interessi occidentali, materializzatisi nella “corsa” alle risorse petrolifere, con le conseguenze del caso: la formazione di Stati “artificiali” che difficilmente riescono a convivere con Stati a forte valenza storico-culturale, come l’Iran, ad esempio.
Chiude un capitolo dedicato a Il costo politico-strategico dell’Iraq. È argomento dei nostri giorni.




Tra cultura e azione politica


Mario Pedini,
Tra cultura e azione politica. Cinque anni 
al Parlamento europeo. 
Giugno 1979-giugno1984,
Edizioni Arzaghetto, 
Montichiari (Bs) 2004, 
535 pp., s.i.p.

Mario Pedini, Tra cultura e azione politica. Cinque anni al Parlamento europeo. Giugno 1979-giugno1984, Edizioni Arzaghetto, Montichiari (Bs) 2004, 535 pp., s.i.p.

Tra cultura e azione politica è il diario del senatore Mario Pedini, dal giugno del 1979 al giugno del 1984. Il testo è stato pubblicato postumo, nel settembre del 2004, a poco più di un anno dalla scomparsa dell’autore, avvenuta l’8 luglio del 2003. Gli anni raccontati vedono il senatore Pedini al termine della sua importante parabola politica, che lo ha visto parlamentare dal 1953, sottosegretario di Moro agli Esteri dal ’69 al ’74, fino alla carica di ministro per la Ricerca scientifica prima, per la Pubblica istruzione poi, alla fine degli anni Settanta. Nel 1979 la vittoria nelle elezioni europee e il conseguente trasferimento a Strasburgo. In questo quinquennio Pedini è, quindi, principalmente impegnato nell’ambito del Parlamento europeo, all’interno del quale fu nominato presidente della Commissione per la Gioventù e la Cultura nonché della delegazione per l’America Latina. L’esperienza nel continente sudamericano è sicuramente l’aspetto più interessante tra le vicende comunitarie di Pedini, in quanto consta di ben sette missioni diplomatiche, che lo hanno portato in visita in tutti i Paesi dell’America Latina. Tra le situazioni di difficoltà presentatesi al senatore, una delle più spinose avvenne durante la prima missione, in Colombia. Pedini si ritrovò, infatti, a dover affrontare la diffidenza del Parlamento latinoamericano di fronte a un esponente della Comunità europea, a pochi mesi dal termine della guerra anglo-argentina delle Falkland. La sincerità dell’auspicio di una costruttiva collaborazione tra i due continenti, con l’accantonamento delle polemiche passate, lo portarono al rasserenamento del clima e alla stima dei colleghi sudamericani. Altra vicenda interessante si ha nella quarta missione, nel luglio del 1983. È in corso una guerra civile in Guatemala e Pedini ha la possibilità di narrare nel suo diario la vicenda da entrambi i fronti: visita, infatti, sia i campi profughi nel sud del Messico, sia le alte sfere militari giunte al potere, con a capo il dittatore Ríos Montt. I risultati pratici sono ovviamente modesti, ma l’impegno a spingere per una riconciliazione e una democratizzazione è costante. L’occupazione “europea” non distrae comunque il senatore Pedini dall’attenzione alle vicende di politica interna. Emerge, in tale ambito, il profondo senso del dovere che ha caratterizzato questo personaggio: egli, infatti, sebbene sia talora portato a trarre delle amare conclusioni, ritenendosi ingiustamente emarginato all’interno della Democrazia cristiana, accetta tuttavia ogni situazione senza diminuire minimamente il suo impegno civico, di cui i primi beneficiari sono sicuramente i suoi concittadini di Montichiari. La vita tratteggiata in questo intenso diario non è, tuttavia, quella di un uomo esclusivamente dedito ai suoi incarichi pubblici, essendo costanti, infatti, i riferimenti e i pensieri rivolti ai suoi familiari, innanzitutto alla moglie Amalia. Il 20 agosto1982, ad esempio, vede un emozionato Pedini accorrere in ospedale per assistere alla nascita della nipotina Giovanna. Un’elevata spiritualità, evidenziata dai frequenti richiami alla fede e agli uomini di Chiesa, e un profondo amore per l’arte, in primis per l’antiquariato e la musica, sono altre caratteristiche dell’autore che traspaiono dall’opera, consentendo di delineare meglio la sua figura.

Paolo Ravaglioli




Democrazia e libertà


Mario Toso, Democrazia 
e libertà. Laicità oltre 
il neoilluminismo postmoderno, Las, Roma 2006, 248 pp., euro 15,00

Mario Toso, Democrazia e libertà. Laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, Las, Roma 2006, 248 pp., euro 15,00

L’ultimo volume di Mario Toso, rettore dell’Università Pontificia Salesiana, ripercorre i punti problematici dell’attuale dibattito socio-politico sulla crisi della democrazia, per poterne individuare le aporie e suggerire una via d’uscita alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Se la crisi odierna fa dire a Ralf Dahrendorf e a Colin Crouch che viviamo in un’epoca postdemocratica, l’approccio personalista suggerito da Mario Toso come contributo al superamento di tale crisi si collega alla riproposta che Étienne Gilson fa del pensiero tomista, ma anche a quella di Jacques Maritain. Come è indicato dal titolo, il punto di partenza è l’analisi del sempre più problematico rapporto tra libertà e democrazia. La visione neoliberista trionfante si traduce in un darwinismo sociale che erode impercettibilmente fette consistenti di democrazia “sostanziale” anche nel cuore dei sistemi politici avanzati dell’Occidente. L’autore registra il diffondersi di una «mentalità montante di tipo ottocentesco che tende a mettere in discussione l’esistenza stessa dei diritti sociali, abbassandoli di rango rispetto agli altri, considerandoli addirittura reversibili perché distributivi». Davanti a questa traiettoria, la dottrina sociale della Chiesa mantiene fermo che «i diritti sociali sono diritti dell’uomo, appartengono alla sostanza intera della persona e, quindi, sono inseparabili da tutti gli altri diritti». Essi «non sono una variabile dipendente dall’andamento della Borsa». Anche per questo la dottrina sociale «non suggerisce l’alternativa tra intervento pubblico e automatismo del libero mercato». Se da una parte lo Stato paternalista e assistenzialista «è dannoso per la società civile e il mercato, ciò non autorizza ad abbracciare le prospettive secondo cui esso deve diventare “minimo”, rinunciando al suo ruolo di coordinatore e di regolatore efficace degli eventi socioeconomici». Toso ricorda che «la dottrina sociale della Chiesa sollecita a non dimenticare l’insostituibilità della politica. In un contesto di globalizzazione e di prevalenza dei poteri forti, riafferma la necessità che la politica torni a svolgere il ruolo che le compete a favore del bene comune» (p. 99). Proprio riguardo alla categoria di bene comune, l’autore ripropone la definizione propria della dottrina sociale cattolica, esposta anche dal Concilio Vaticano II, secondo cui «il bene comune è da considerarsi un bene esterno, ossia concernente le relazioni sociali, la loro organizzazione e ordinazione in vista della crescita umana di tutti gli individui e della vita buona. Rendere virtuosi i cittadini esula dalla competenza della comunità politica, la quale non ha il compito di regolare il rapporto dei singoli con la verità, il bene, il bello, e con Dio» (pp.105-106). Toso non pone in contrapposizione dialettica tale definizione parzialmente strumentale e la nozione sostanziale di bene comune propria dei classici, a partire da Aristotele. Secondo essi, come anche per Tommaso d’Aquino e Jacques Maritain, il bene comune è «vita retta della moltitudine», è «il vivere bene delle persone nella città», «elemento essenziale del fine della vita che è proprio di un essere corporeo-spirituale» ossia quella «beatitudine imperfetta» che rappresenta il bene proprio a cui è configurato l’ordine temporale (cfr. p.107). In questa prospettiva il bene comune che propone la dottrina sociale della Chiesa non si chiude in un ambito meramente tecnico-strumentale, arrivando a concepire le condizioni sociali in termini eticamente indifferenti. Se l’organizzazione di tali condizioni deve mirare alla crescita umana, tale finalità richiede anche un esercizio “virtuoso” del potere da parte dei governanti.
Altrettanto attuali sono le riflessioni dell’autore intorno alla cosiddetta “esportazione della democrazia” che negli ultimi anni è diventata l’argomento ideologico più usato dalle potenze egemoni per giustificare le proprie strategie geopolitiche. Toso fa notare che «la dottrina sociale della Chiesa non si interessa tanto della “esportabilità” di un modello di civiltà e di democrazia di tipo occidentale». Il realismo che ispira tale dottrina predispone a riconoscere che «l’anima etica e culturale della democrazia, occidentale o no, non è fisicamente esportabile. Potranno essere divulgate e comunicate più facilmente la nozione, le regole procedurali, gli aspetti tecnici, ma le sue radici antropologiche, ontologiche ed etiche, culturali e sociologiche, non si possono trapiantare. In termini di libertà e di responsabilità, esse non sussistono che in loco, ovvero nelle persone, nelle famiglie, nei gruppi, nei popoli, i quali ne sono soggetti originari e originanti». Una prospettiva che trova un autorevole “alleato” nel filosofo liberale Jurgen Habermas, ampiamente citato da Toso, secondo il quale «quando gli sciiti dimostrano a Nassiriya contro Saddam e contro l’occupazione americana, esprimono anche il fatto che le culture non occidentali debbono acquisire il contenuto universalistico dei diritti umani in base alle proprie risorse e in una lettura che produca un collegamento convincente con esperienze e interessi locali».

Gianni Valente





Testimoni della Chiesa Italiana


Elio Guerriero (a cura di), 
Testimoni della Chiesa italiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2006, 
651 pp., euro 28,00

Elio Guerriero (a cura di), Testimoni della Chiesa italiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2006, 651 pp., euro 28,00

Oltre ai martiri, testimoni sono anche i credenti che rendono ragione della loro fede con una condotta di vita bella e buona (il Convegno che la Chiesa italiana terrà a Verona in ottobre ha come tema “Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo”).
Il Novecento non è stato un secolo facile per i cristiani. Elio Guerriero in Testimoni della Chiesa italiana propone un interessante itinerario attraverso testimonianze di fede cristiana, collocate nelle diverse regioni ecclesiastiche d’Italia. Ne esce un quadro, un mosaico, di figure emblematiche, forse incompleto e arbitrario – come dice lo stesso autore – ma significativo e provocatorio.
Premessa al libro una rapida ma incisiva incursione su alcuni appuntamenti della Chiesa italiana negli ultimi cinquant’anni e più, dal Concilio Vaticano II, ai convegni di Roma (1976), Loreto, Palermo. Ecco, nella storia della Chiesa i testimoni di cui si parla nel volume a volte sono stati dei precursori e hanno indicato la via, altre volte hanno accompagnato il cammino dei fedeli. Interessante la suddivisione in modelli, proposta dall’autore, sulla base del percorso della storia: testimoni della sollecitudine sociale della Chiesa, come il torinese Pier Giorgio Frassati e il medico napoletano san Giuseppe Moscati; testimoni del movimento cattolico; testimoni del Concilio, come don Lorenzo Milani, Giorgio La Pira, David Maria Turoldo; testimoni del volontariato cattolico: cito solo due medici che si sono profusi nella loro professione fino al dono della vita: Vittorio Trancanelli e Carlo Urbani; testimoni dei movimenti ecclesiali, quali i Focolarini e Comunione e liberazione, come don Luigi Giussani, don Francesco Ricci, Igino Giordani; o san Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. E ancora figure gigantesche, veri monumenti della fede: don Luigi Monza, fondatore della Nostra Famiglia, il cardinale Ildefonso Schuster, don Zeno Saltini, il vescovo Antonio Bello, “don Tonino”, san Pio da Pietrelcina, don Pino Puglisi, il parroco della borgata palermitana di Brancaccio ucciso dalla mafia. A ciascuno di loro vengono dedicate alcune pagine tratte da volumi e studi già pubblicati (molti di questi sono stati puntualmente ricordati sulle pagine di questa rivista) che bene fissano la dimensione anche storica del personaggio.




A che cosa serve il sindacato?


Pietro Ichino, 
A che cosa serve il sindacato?, 
Mondadori, Milano 2005, 
287 pp., euro 17,50

Pietro Ichino, A che cosa serve il sindacato?, Mondadori, Milano 2005, 287 pp., euro 17,50

Conserva una grande attualità questo libro di Pietro Ichino, A che cosa serve il Sindacato?
La stagione autunnale, si sa, non è delle migliori, sindacalmente parlando – personalmente è quella che preferisco in assoluto –, impegnati come si è tutti a far quadrare i conti, il governo e il Parlamento alle prese con la Finanziaria del Paese. Quest’anno poi Pietro Ichino, già dirigente sindacale della Cgil, ora professore di diritto del lavoro all’Università statale di Milano nonché editorialista del Corriere della Sera, ha voluto riscaldare il clima sollevando apertamente la questione, a tutti nota, dei molti dipendenti pubblici fannulloni (l’espressione è sua) o comunque poco impegnati a lavorare, e del sindacato che li vuole difendere a tutti i costi e non licenziare. Ichino ritiene che comunque le idee maturano, anche se lentamente, e che la cultura del lavoro italiana è costretta ormai a cambiare, confrontandosi sempre più con quella degli altri Paesi europei più avanzati del nostro su questo terreno. Il suo contributo riguarda l’assetto dei rapporti collettivi; il tema della contrattazione e della rappresentanza sindacale nelle aziende, lo sciopero, la possibilità di scelta dei lavoratori tra modelli più conflittuali e modelli più cooperativi di rapporto con gli imprenditori, i fattori istituzionali che nel nostro Paese limitano indebitamente le possibilità di scelta.
Ichino ci abitua a un discorrere franco e sincero, andando subito al nocciolo della questione, col buon senso, senza timore alcuno di denunciare anche l’incapacità del sindacato italiano a gestire i conflitti sindacali. Partendo dalla analisi di due esperienze europee concrete, la vicenda dell’Alfa Romeo di Arese e quella inglese della Nissan di Sunderland, e la vicenda statunitense della Saturn di Spring Hill, si propone di fornire alcuni dati di natura giuridica che possono aiutare a spiegare perché in Italia il modello cooperativo e ancor più quello partecipativo abbiano vita più difficile che altrove, perché e come la nostra cultura privilegi il modello conflittuale.
Nei capitoli conclusivi l’autore propone alcune idee sulla disciplina del conflitto sindacale nel nostro ordinamento attuale che va modificato nella direzione di consentire il confronto fra modelli di relazioni industriali diversi. Onestamente nessuno può dire in astratto quale dei modelli di relazioni sindacali o di rapporto individuale di lavoro porti i benefici maggiori per i lavoratori interessati, la distribuzione più equa della ricchezza prodotta, o i risultati economici complessivi più vantaggiosi per la collettività. Una cosa, però, è certa: che il conflitto riduce la ricchezza prodotta, mentre la capacità di accordarsi per investire insieme sul futuro – il lavoro da una parte, il capitale dall’altra – costituisce una risorsa competitiva formidabile. Oggi, proprio il difetto di questa capacità costituisce una delle cause della minore competitività delle nostre aziende nei mercati internazionali dei capitali. Le conclusioni dell’analisi di Ichino – due pagine, 224 e 225 – possono rappresentare la sintesi del programma di un governo, non importa di che colore politico. «Un minimo vitale di fiducia reciproca, indipendente dall’essere più ricchi o più poveri, al governo o all’opposizione, imprenditori o dipendenti, è proprio ciò che oggi manca drammaticamente in Italia. Il difetto è di sistema... Altrimenti, stabilire di chi è la prima colpa del fallimento, o la più grave, ci sarà di scarsissima consolazione».


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