Rubriche
tratto dal n.12 - 2006


Come è fatto un cristiano


Don Chino Biscontin, 
Come è fatto un cristiano, 
Edizioni biblioteca 
dell’immagine, Pordenone 2006, 168 pp. , euro 12,00

Don Chino Biscontin, Come è fatto un cristiano, Edizioni biblioteca dell’immagine, Pordenone 2006, 168 pp. , euro 12,00

Viviamo nella post-modernità, un’epoca dai contorni ancora incerti. Sappiamo ciò che è tramontato, la modernità, ma non sappiamo dove siamo, che casa abitiamo. Siamo in crisi e disorientati. Il libro di don Chino Biscontin, Come è fatto un cristiano cerca di dare la risposta ad alcune domande: chi è un cristiano? Basta dichiararsi cristiano per esserlo davvero? Che cosa comporta essere cristiano nell’esistenza concreta, nel comportamento? Il percorso della riflessione dell’autore è lineare e, oserei dire, disincantato. Parte dalla crisi dell’etica, che riguarda il credente e il non credente, in rapporto all’esperienza religiosa, a significare l’esigenza di etica avvertibile da ogni individuo. Non mancano richiami alla religiosità popolare che ha segnato e permeato la formazione cristiana di Biscontin (p. 32) nel piccolo paese d’origine, in Friuli (attualmente insegna teologia a Pordenone e a Padova); e al suo incontro, personale, con Dio, «un Dio ben reale e con il quale si poteva intessere una relazione continuativa» (p. 35). «Il vissuto del rapporto con Dio, inoltre, offre una pienezza di senso inaudita, che colma l’anima di una gioia così grande che è giusto chiamarla felicità» (p. 52).
Il passaggio dall’esperienza al comportamento viene presentato attraverso una interessante rilettura, in chiave moderna, attuale, delle beatitudini del Vangelo, con puntuali e pertinenti riferimenti a documenti del magistero sociale della Chiesa che chiamano in causa l’atteggiamento dei cristiani nel sociale: cito, per tutti, la Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica firmata dall’allora cardinale Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, o il documento del 1991, della Commissione Giustizia e pace, Educare alla legalità.




Quattro giorni, quarant’anni


Davide Rondoni, 
Quattro giorni quarant’anni con padre Bepi in Sierra Leone, Bur, Milano  2006,  
168 pp., euro 8,60

Davide Rondoni, Quattro giorni quarant’anni con padre Bepi in Sierra Leone, Bur, Milano 2006, 168 pp., euro 8,60

È la storia dell’avventura umana di padre Giuseppe – “Bepi” – Berton, un missionario saveriano veneto, in servizio in Sierra Leone dal 1964. O forse è la storia di Sahr, un bambino-soldato addestrato all’uso delle armi da quando, a dieci anni, i ribelli della Sierra Leone l’hanno strappato alla famiglia, che poi incontra padre Bepi e comincia una nuova vita. O forse è la storia di tante storie che si intrecciano e finiscono per incontrarsi, venendo a formare, in fine, un piacevole colloquio-racconto che Davide Rondoni ci offre nel libro Quattro giorni quarant’anni con padre Bepi in Sierra Leone.
Nella missione di padre Bepi si trovano faccia a faccia il guerrigliero, il rapito e la sorella che per trovarlo ha percorso centinaia di chilometri. Trovano spazio molti personaggi, e non solo africani, che compongono il mondo del missionario, completandone il quadro. Da tutto emerge la forza della carità cristiana che da quarant’anni muove il cuore, malandato, le gambe e le braccia di padre Bepi.




I cristiani che fecero l’Europa


Gerlando Lentini, Alle radici cristiane dell’Unione europea, Città Nuova, Roma 2004, 
96 pp., euro 6,00

Gerlando Lentini, Alle radici cristiane dell’Unione europea, Città Nuova, Roma 2004, 96 pp., euro 6,00

I padri dell’Europa sono i tre grandi del XX secolo: Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi. Tre figure profondamente cristiane per le quali l’Europa fu un anelito, un progetto politico, una tappa della storia verso la fraternità universale. Se oggi l’Europa ha un’anima e uno scopo, nonostante le difficoltà del momento, è perchè questo respiro spirituale è passato originariamente da queste grandi figure fino ai giorni nostri. Il saggio di Gerlando Lentini, un agile volumetto di novanta pagine, Alle radici cristiane dell’Unione europea, vuole rendere testimonianza della verità. E lo fa in termini molto semplici, in cinque capitoletti dove, accanto alle figure dei tre statisti europei, Lentini affronta, in un breve excursus storico, gli avvenimenti della prima metà del secolo scorso che hanno portato alla nascita dell’Unione europea.
La ricerca è stata pubblicata in lingua italiana, francese e slovena.




Roma russa


Aleksej Kara-Murza 
(a cura di Valerij S. Sirovskij), 
Roma russa, 
Sandro Teti Editore, Roma 2005, 358  pp., euro 35,00

Aleksej Kara-Murza (a cura di Valerij S. Sirovskij), Roma russa, Sandro Teti Editore, Roma 2005, 358 pp., euro 35,00

La storia dei rapporti culturali romano-russi ha poco più di un millennio. È una storia segnata da relazioni intense e vivaci, tra le più vive e feconde che abbiano unito le steppe russe a un mare meridionale, ma spesso inasprite da antagonismi e incomprensioni.
La storia inizia, simbolicamente, addirittura prima della nascita della prima organizzazione statale russa, la Rus’ di Kiev, con la missione dei due apostoli degli slavi, i fratelli Cirillo e Metodio, che nell’863 furono inviati a evangelizzare le terre morave. Cirillo, il cui nome secolare era Costantino, morì a Roma in odore di santità e fu sepolto nella Basilica di San Clemente nel 869, dove le sue spoglie riposano tuttora.
Nel rapporto con Roma, la cultura russa sembra contraddistinta da una sorta di “sindrome romana”. Roma parlava e parla del passato, di un passato storico fondante per la cultura occidentale, passato che i russi non hanno vissuto, non hanno condiviso e non sono unanimi sul fatto se iscriverlo o no nel proprio albero genealogico. Roma vanta una sorta di “primogenitura” in campo culturale, giuridico, religioso, politico, che ha sempre interrogato e diviso gli intellettuali russi. Roma costringe a confrontarsi con la cultura classica, col diritto romano, con l’idea di impero, col primato della Chiesa di Roma.
Dopo la caduta di Costantinopoli sotto il giogo ottomano nel 1453, nel giovane Stato della Moscovia inizia a prendere corpo l’idea della translatio imperii ad Russos, dell’alternanza delle “Rome” alla guida politica e religiosa dell’ecumene cristiano: dalla prima Roma alla seconda, Costantinopoli, fino alla terza Roma – da intendersi o come Mosca o come Russia – che durerà fino alla fine dei tempi, poiché «non ve ne sarà una quarta», come asseriva il monaco Fiofej nell’epistola del 1523 a Michail Munechin, cancelliere di Pskov. È l’ideologia di «Mosca Terza Roma», che inizia progressivamente a diffondersi.
Una vera e propria “sindrome romana” dominerà Pietro il Grande, lo zar riformatore, artefice della “grande occidentalizzazione” della Russia. Tra i modelli che egli terrà presente nella creazione dello Stato russo moderno spicca la Roma imperiale, dei cui simboli del potere si servirà generosamente. Trasformerà il granducato di Moscovia in Impero russo, edificherà la “sua” nuova capitale come una città imperiale, in un continuo gioco di rimandi a Roma: San Pietroburgo (che vuol dire “città di San Pietro”), con la Cattedrale intitolata agli apostoli Pietro e Paolo, patroni di Roma, consacrata nel giorno della festività dei due santi, il 29 giugno, e dotata, come la Basilica di San Pietro, della cupola più alta di tutti gli edifici della città. Inoltre nell’ideare lo stemma di San Pietroburgo, lo zar “copierà” quello del Vaticano – due chiavi incrociate con le fernette in su – e vi riprodurrà due ancore incrociate con le marre rivolte verso l’alto. Si fregerà di attributi romani, facendosi effigiare in una medaglia del 1724 vestito da romano.
Dall’inizio dell’Ottocento, intere generazioni di artisti russi hanno iniziato ad andare a Roma per studiare, formarsi, imparare sull’esempio degli antichi e dei maestri del Rinascimento. In tal modo la Città eterna ha esercitato un influsso potente sull’arte russa moderna, su cui l’“effetto Roma” ha avuto un impatto fortissimo, modellizzante.
Per quanto possa sembrare strano, data l’importanza del tema, nessuno aveva ancora pensato di riunire in un volume sia la ricostruzione storico-documentaria dei soggiorni romani di illustri personalità della cultura russa sia le impressioni, le opinioni, le reazioni prodotte in loro dall’impatto con la città, fissate in diari, epistolari, saggi, opere letterarie. I testi qui raccolti da Aleksej Kara-Murza coprono all’incirca un secolo e mezzo del fertile e tormentato rapporto tra la Russia e la Città eterna: dagli anni Trenta dell’Ottocento alla fine del Novecento, il periodo di scambio più intenso e vitale.
Il rapporto tra Roma e i russi è tuttora assai vitale. Nella sua lunga storia c’è però una pietra d’inciampo: la mancata istituzione di un’Accademia russa, che permetta ad artisti, scrittori, intellettuali di perfezionare la loro formazione a Roma.
Questo sogno è stato carezzato da due giganti della letteratura russa, entrambi amanti di Roma e presenti in questo volume: Nikolaj Gogol’ e Iosif Brodskij.
L’incomparabile chiusa delle Elegie romane (1981) di Brodskij sta diventando, per via delle numerose citazioni, la sigla poetica della millenaria fascinazione che Roma ha esercitato e continua a esercitare sui russi: «Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come può soltanto sognare un frammento! Una dracma d’oro è rimasta sopra la mia rètina. Basta per tutta la lunghezza della tenebra».




Sono morti per l’Italia


Paolo Piovaticci, 
Sono morto per l’Italia, 
Fruska, Stia (Ar) 2006, 
278 pp., euro 25,00

Paolo Piovaticci, Sono morto per l’Italia, Fruska, Stia (Ar) 2006, 278 pp., euro 25,00

Guido Piovaticci venne ucciso, assieme ad altri 42 ragazzi, dai partigiani a Rovetta, in provincia di Bergamo, il 28 aprile del 1945, a soli 17 anni. Una vittima del tradimento e della ferocia partigiana nella lotta fratricida italiana della Seconda guerra mondiale: gli avevano promesso salva la vita se si fossero arresi e avessero deposto le armi.
Leggendo il racconto, tornano alla mente le coraggiose pagine de Il sangue dei vinti e di Sconosciuto 1945, di Giampaolo Pansa, e, ancora, le “rivelazioni” del suo ultimo libro appena uscito, La grande bugia. Le sinistre italiane e il sangue dei vinti. Pagine di un’altra storia della Liberazione: il non detto, il nascosto, gli episodi celati della guerra civile. E, ancora, gli opportunismi ideologici che spesso hanno cancellato parte di quello che è veramente successo nei venti mesi tra i più duri della nostra storia. Quello di Rovetta (la tomba monumentale dei giovani caduti si trova nel Verano, a Roma), è un inedito fatto di sangue, uno degli episodi “controcorrente”. Forse il fratello di Guido, Paolo Piovaticci, nel raccontare il fatto in Sono morto per l’Italia si lascia guidare la mano più dal sentimento d’affetto verso il fratello che da rigorose valutazioni storiche. Ma come dargli torto? La ricerca della verità, in quelle “zone d’ombra” che rendono contraddittoria una univoca interpretazione storica, è destinata a fare i conti col sentimento (o ri-sentimento?). Forse una visione un po’ più distaccata (ma come fare?) avrebbe contribuito a evidenziare maggiormente il sacrificio di Guido e degli altri ragazzi. Guido faceva parte del battaglione Camilluccia, formatosi presso la Caserma Camilluccia della capitale, soprattutto per il volontario accorrere di giovani e giovanissimi, operai e studenti, che avevano aderito alla Rsi (Repubblica sociale italiana).
La descrizione di quel 28 aprile 1945 (cap. XII) è scandita dalla descrizione minuziosa di particolari che invadono anche i tempi successivi: la figura del parroco di Rovetta e il ruolo da lui avuto nel fatto; la corrispondenza tra don Bravi e la mamma di Guido, Jolanda, negli anni immediatamente successivi all’accadimento...




Lo stupore di Dio


Nicola Scopelliti – Francesco Taffarel, «Lo stupore di Dio». Vita di papa Luciani, Edizioni Ares, Milano 2006, 342 pp., euro 20,00

Nicola Scopelliti – Francesco Taffarel, «Lo stupore di Dio». Vita di papa Luciani, Edizioni Ares, Milano 2006, 342 pp., euro 20,00

«Io sono il piccolo di una volta, io sono colui che viene dai campi, io sono la pura e povera polvere… Se qualche cosa mai di bene salterà fuori da tutto questo, sia ben chiaro fin da adesso: è solo frutto della bontà, della grazia, della misericordia del Signore». È il 4 gennaio del 1959. Albino Luciani è stato da poco nominato vescovo di Vittorio Veneto da Giovanni XXIII. Nella cornice festosa della sua Canale d’Agordo, celebra la messa e si rivolge commosso ai suoi compaesani nella nuova veste episcopale. Ma lo stile, semplice e diretto, non è cambiato, come non cambierà nelle diverse tappe della sua vita, né a Venezia, né tanto meno nei 33 giorni del suo brevissimo pontificato. Uno stile che è parte integrante dell’umiltà di quella gente dei campi da cui proviene, e che lo rendeva, senza artifici, così vicino al suo popolo: «Miei cari paesani», aggiungeva: «chi l’avrebbe mai detto che in questa chiesa, a Canale, dove io sono nato, dove ho giocato fanciullo, dove, durante le vacanze, mi avete visto lavorare con la falce e col rastrello; in questa chiesa dove ho fatto la prima comunione, sono stato chierichetto, dove sono venuto a confessare le mie birichinate e i miei poveri peccati, chi l’avrebbe detto che oggi sarei comparso con queste insegne a pontificare e a predicare? Non so che cosa si sia pensato il Signore, che cosa abbia pensato il Papa, che cosa abbia pensato la Divina Provvidenza di me». Tutti quelli che ricordano il pontificato di Albino Luciani riconoscono in queste parole l’inconfondibile carattere della sua personalità. E avranno, da questa Vita di papa Luciani, l’opportunità di ripercorrere il suo cammino quasi in “presa diretta”: proprio perché uno dei pregi di questa nuova biografia sta nel vastissimo spazio che il testo lascia alle parole stesse del protagonista. È quasi più un’antologia dei suoi scritti, lettere, omelie, articoli che non una biografia in senso stretto. Ma è anche merito dei due autori, Scopelliti, giornalista del Gazzettino, e Taffarel, sacerdote che da Luciani fu ordinato e ne divenne segretario particolare dal 1967 al 1970, che hanno offerto di Albino Luciani un ritratto non paludato, concepito attraverso un “metodo” che Luciani stesso suggeriva per comprendere gli uomini: «Non guardare alle persone nei loro gesti e parole ufficiali, ma scopri la persona nei suoi atteggiamenti consueti, umili, nelle espressioni e nei gesti spontanei e quasi nascosti…». E così, sono specialmente gli aneddoti, le testimonianze di chi lo conobbe e alcuni momenti della sua vita quotidiana a tracciare un ritratto vivo, immediato e mai banale della personalità di Luciani, senza nulla cedere alla retorica agiografica in cui a volte rischia di cadere questo genere di libri. Ne emergono, in modo particolarmente vivo, gli anni dell’infanzia e della formazione; le eccezionali doti del Luciani “catechista”, la sua capacità di comunicare i contenuti della fede con un linguaggio semplice e toccante; il mistero stesso di una vita che Luciani, una volta, riassunse così: «Sto pensando in questi giorni che con me il Signore attua il suo vecchio sistema: prende i piccoli dal fango della strada e li mette in alto; prende la gente dai campi, dalle reti del mare e del lago e ne fa degli apostoli. È il suo vecchio sistema. Certe cose il Signore non le vuole scrivere né sul bronzo, né sul marmo, ma addirittura nella polvere, affinché se la scrittura resta, non scompaginata, non dispersa dal vento, sia ben chiaro che tutto è opera e tutto merito del Signore».

Giovanni Ricciardi


Español English Français Deutsch Português