Rubriche
tratto dal n.12 - 1999


Il giudice e la carità


F. Tomassi, 
Il comandamento dell’amore, Roma, Dehoniane 1999

F. Tomassi, Il comandamento dell’amore, Roma, Dehoniane 1999

«“Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?”
“Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?”
Error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis, …” cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
“Si piglia gioco di me?” interruppe il giovine. “Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”
“Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa”».
A chi non torna in mente questa pagina dei Promessi sposi quando si pensa al diritto come schermo ostacolante e dilatorio?
L’agile libretto, quasi un promemoria, di Federico Tomassi Il comandamento dell’amore (Dehoniane, Roma 1999) si mette dalla parte del «povero Renzo» e, semplificando al massimo, tenta la reductio ad unum – un po’ di latinorum è inevitabile, occupandosi di diritto – della normativa canonica. Il testo di Tomassi si configura, infatti, come un commento alla Parte generale del diritto canonico, che «non consiste nella parafrasi delle norme generali del Codice» (p. 87), avverte l’autore, ma nel farne emergere la ragione e il fine. Tentativo meno frequente di quel che si creda nella panoramica attuale. «Ogni parola di ogni canone deve essere interpretata nel sistema del diritto canonico, ricercando la ratio generalis dell’ordinamento. […] Come ricercare la ratio dell’ordinamento? La risposta è semplice: secondo il primo comandamento del diritto divino rivelato, che tutti gli altri riassume. Quello dell’amore» (p. 13). Per Tomassi, che si è avvicinato al diritto canonico dopo una lunga esperienza come magistrato di Cassazione, risulta paradossale dunque che proprio gli operatori del diritto canonico a volte possano considerarsi “esenti”, esentati cioè dall’interpretare la norma canonica secondo quello che la motiva.
Singolare percorso quello di Federico Tomassi. In magistratura dal 1955, nel 1963 entra alla Cassazione dove all’Ufficio del massimario, che si occupa di raccogliere e ordinare le massime giurisprudenziali, si esercita a operare in termini sintetici. Pubblica numerosi studi, tutti di carattere civilistico, l’ultimo dei quali (prima del suo esordio canonistico) per i tipi della Cedam di Padova, L’uso e l’abuso della parola e dell’immagine, è una raccolta della effettiva giurisprudenza in materia di media. Si avvicina allo studio del diritto canonico per la sollecitazione di monsignor Giuseppe Mani (attuale vicario castrense per l’Italia) di cui fra gli anni Ottanta e Novanta è stato collaboratore a Roma nella cura della pastorale familiare.
Proprio questa esperienza lo abilita a insistere sulla funzione pastorale dell’operatore del diritto, e in particolare del diritto canonico. Da buon giurista, peraltro, non chiacchiera di pastorale: «purtroppo accanto alla vera pastorale ce n’è una fittizia, o pseudo-pastorale» (p. 41), ma la riconduce al concreto esercizio della carità. Nel caso specifico all’urgenza di maggiore celerità e della gratuità del processo canonico. Le sei pagine (pp. 72-77) dedicate al gratuito patrocinio così si concludono: «Tutto il sistema processuale canonico è fondato su due principi: la celerità e la gratuità. Si ricava dal sistema. Ed è facile intuire quanto sia importante per la Chiesa la difesa dei poveri».
Il testo si raccomanda anche per l’afflato ecumenico che lo sorregge: «Tutti sentiamo la necessità di tornare alle origini della Chiesa e di far progredire, verso l’unità autentica, il movimento ecumenico» (p. 41). Nella prefazione al testo di Tomassi, scritta da padre Bernhard Häring poco tempo prima della sua morte, il redentorista tedesco rievoca una lettera scrittagli dal patriarca Athenagoras: «Il Signore vuole la piena riconciliazione tra le Chiese ortodosse e la Chiesa di Roma. Il più grande ostacolo è un certo legalismo. Le chiedo di fare del tutto per comunicare alla sua Chiesa il senso profondo della oikonomia, tanto opposta al legalismo, soprattutto nel diritto matrimoniale» (p. 9).

Lorenzo Cappelletti




L’isola di Adriano


A. Ossicini, Un’isola sul Tevere. 
Il fascismo al di là del ponte, Roma, 
Editori Riuniti 1999

A. Ossicini, Un’isola sul Tevere. Il fascismo al di là del ponte, Roma, Editori Riuniti 1999

Adriano Ossicini ha già in precedenza scritto sulla sua lunga esperienza politica, ma ogni volta aggiunge particolari importanti su movimenti e su persone. L’ultimo saggio si impernia sull’ospedale romano dei Fate Bene Fratelli, epicentro di molte avventure (Un’isola sul Tevere, Editori Riuniti, Roma 1999).
Ho apprezzato in particolare la ricostruzione di due colloqui con De Gasperi (il primo e l’ultimo) e la delicatezza con cui tratta Egilberto Martire, uno dei cattolici che fu a lungo collaborazionista.
Adriano ha voluto ricordare qualche mio gesto di amicizia mentre era nel carcere di Regina Coeli. Gli facevano arrivare qualche pacco, con la obbligata monotonia di uova sode e di pochi dolci preparati da mia madre, in clima di tessere annonarie.
Ma non erano tanto i viveri che servivano ai giovani imprigionati quanto la comprensione della Chiesa, al di fuori della impossibile approvazione dei loro programmi. Con un quasi temerario intervento diretto su Pio XII (un biglietto trasmessogli da madre Pascalina) parai la possibilità che il Papa accennasse all’errore dei conciliatori con il comunismo, dovendo parlare proprio a una grande udienza di operai organizzata da monsignor Baldelli. Non lo fece e all’indomani, vedendomi in una udienza di universitari, mi chiese se era stato bravo. La Segreteria di Stato si mosse nelle vie diplomatiche per ottenere il rilascio dei giovani catturati, ma Adriano, con la sua decisione di non aderire a qualunque iniziativa di clemenza, rese difficile ogni accomodamento. Per di più aveva già un precedente fermo di polizia nel 1937. Comunque Mussolini, del resto, aveva bisogno lui di clemenza. Due giorni prima del fatale 25 luglio 1943, Adriano e Marisa Rodano furono rimessi in libertà. Gli altri fruirono subito dopo del crollo del regime.
Sono trascorsi molti anni; i protagonisti sono in gran parte morti; nei giovani non vi è una spontanea tendenza a conoscere il passato e occorre ricostruirlo senza retorica, sovrabbondanza, partigianeria. Adriano ci riesce. E io auguro che il suo libro abbia molto successo.

Giulio Andreotti


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