Rubriche
tratto dal n.06 - 1999


Lo Sturzo di Castoldi


Luigi Castoldi, Luigi Sturzo, 
“quel pretonzolo intrigante”, 
pref. M. Martinazzoli, Editrice Giornalisti Riuniti, Milano-Roma, 1999

Luigi Castoldi, Luigi Sturzo, “quel pretonzolo intrigante”, pref. M. Martinazzoli, Editrice Giornalisti Riuniti, Milano-Roma, 1999

Abituato ad ammirare i gustosissimi libri a flash di Luigi Castoldi, sono rimasto sorpreso dall’annuncio che usciva una sua biografia su don Sturzo. Ed in effetti, pur muovendosi sulle tracce del lunghissimo percorso del personaggio – dalle battaglie municipali di Caltagirone al solitario tramonto nel convento romano delle Canossiane –, Castoldi non indulge minimamente alla documentaristica dei biografi. Ci troviamo piuttosto dinanzi ad uno scenario pirotecnico che, mentre distrugge luoghi comuni messi in circolo lungo tutto questo secolo dai nemici di Sturzo (anticlericali e clericali), rimprovera alla Democrazia cristiana di non aver restituito la leadership dei cattolici popolari all’esule che aveva tenuto alta la dignità degli stessi, soffocati dalla dittatura.
Una citazione sturziana aiuta a comprendere l’ispirazione: «Non possiamo trasformarci da partito popolare in ordinamento di Chiesa; né possiamo essere emanazione o dipendenza di organismi cattolici; tuttavia nella costituzione, nei criteri, nell’anima il partito è cristiano».
Castoldi mette in luce anche le altissime doti culturali di don Sturzo, accennando – sempre di sfuggita come è nel suo stile – all’omaggio resogli da Benedetto Croce in un congresso internazionale di filosofi a Londra.
Con riserva invece va accolta la condivisione che Castoldi mostra della dura critica di Sturzo contro Enrico Mattei.
È una posizione che sembra oggi di moda nel culto delle privatizzazioni, ma che comporta un giudizio impietoso e non giusto verso le “partecipazioni statali” di cui, sia pure non in blocco, non è storicamente corretto negare la positività e la funzione.
Una prefazione di Mino Martinazzoli offre una buona chiave di lettura al libro di Castoldi, per il quale mi felicito vivamente.

Giulio Andreotti




Paolo VI nel mirino delle Br?


Gabriele De Rosa, La storia che non passa. Diario politico 1968-1989, cur. 
S. Demofonti, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 1999

Gabriele De Rosa, La storia che non passa. Diario politico 1968-1989, cur. S. Demofonti, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 1999

L’ultimo saggio di Gabriele De Rosa, La storia che non passa. Diario politico 1968-1989, è stato presentato alla Sala Zuccari del Senato, con una tornata di alto livello. Ha impostato il dibattito il presidente Mancino, tracciando le non sempre facili vie di comprensione tra storici e politici, tema ripreso dall’ottimo moderatore Nello Ajello.
Due colleghi universitari, di scuole diverse – Giuseppe Giarrizzo e Rosario Villari – hanno illustrato aspetti particolari della produzione scientifica di De Rosa: la forte passione meridionalista, con specifico approfondimento della religiosità popolare; e la intelligente comprensione dei motivi centrali del cambiamento postbellico nella stessa area con la trasformazione (e dispersione) del mondo contadino e l’apporto degli intellettuali alla costruzione di un tessuto democratico.
Villari aveva citato, con una punta di critica, il passo del discorso di Moro sul caso Lockeed. Mino Martinazzoli, che all’epoca presiedeva la Commissione inquirente, ha spiegato il significato vero di quel «non ci lasceremo processare nelle piazze» e anche la reazione di Moro a chi voleva che distinguesse la posizione di Tanassi da quella di Gui. Fu il rifiuto del giustizialismo politico e l’affermazione di solidarietà di principio verso un partito minore che era stato decisivo per le sorti della democrazia italiana. Lo stesso Martinazzoli, citando un passo del diario di De Rosa, ha ravvisato un segno distintivo del Mezzogiorno nell’episodio della figlia di Croce che intima al Banco di Napoli di desistere dal restauro e dallo sgombero di un immobile fatiscente, di cui era divenuto proprietario, perché vi alloggiava una turba di gatti. Intimazione economicamente poco lodevole, ma tanto ricca di umanità.
De Rosa ha concluso ricordando le sue battaglie per fare dell’Università di Salerno qualcosa di veramente nuovo, superando gli ostacoli di una contestazione quasi globale: dell’ambiente cittadino e degli studenti. E ha parlato anche del brigatismo, non seguendo gli schemi classici delle tesi di prevalenti derivazioni geopolitiche lontane. La spietatezza di alcuni momenti e le scritte – eccitate anche dalla propaganda di Sartre venuto a Bologna – nelle aule universitarie contro i “boia” gambizzati o uccisi e contro la polizia “nemica della rivoluzione” lo raggelavano.
Gabriele De Rosa ha concluso parlando della immobile velocità della politica, con più di una punta di scarso entusiasmo per quello che contraddistingue oggi il nuovo.
Nel diario sono annotati via via anche i colloqui avuti; e l’esattezza di quanto gli interlocutori dicevano era sotto la loro responsabilità. Non voglio fare citazioni, ma certi passaggi sulle origini della Dc negli anni Quaranta (rapporti Milano-Roma) suscitano più di un dubbio. Circa un punto che ha fatto chiasso sulla stampa invece confermo la sostanza. Il percorso fissato per l’andata al Laterano di Paolo VI per la messa funebre di Aldo Moro fu cambiato all’ultimo momento.

Giulio Andreotti




I presidenti di Vespa


Bruno Vespa, Il superpresidente. Che cosa cambia in Italia 
con Ciampi al Quirinale, 
Rai-Eri-Mondadori,  
Roma-Milano, 1999

Bruno Vespa, Il superpresidente. Che cosa cambia in Italia con Ciampi al Quirinale, Rai-Eri-Mondadori, Roma-Milano, 1999

La fulminea tempestività con la quale è uscito il volume di Bruno Vespa sul “superpresidente Ciampi”, potrebbe suscitare in alcuni l’immagine del sarto pontificio che prima del conclave deve predisporre la sottana bianca per il papa nascituro. È d’obbligo confezionare tre o quattro taglie diverse, salvo ad esser pronto per ritocchi a vista (come capitò per Giovanni XXIII).
Ma l’immagine sarebbe impropria. Racconta infatti Vespa che lo stesso giorno nel quale alle Botteghe Oscure si erano incontrate – con fumata nera – le delegazioni del Ppi e dei Ds, si svolgeva a Palazzo Chigi un colloquio di D’Alema con Gianni Letta, definito “ambasciatore di Berlusconi”. Era emersa una netta preferenza per Ciampi, soltanto con una punta di preoccupazione (che non aveva Veltroni) per le reazioni di Marini.
Di qui, probabilmente, la stesura preventiva del libro, salvo i particolari della votazione e delle cerimonie susseguenti.
Comunque Bruno Vespa si legge e si ascolta sempre volentieri.

Giulio Andreotti




Appunti di un parroco di provincia


Igor’ Nikolaevic Ekonomtsev, Il Pope, 
la Russia e la sconfitta 
di Breznev. Appunti di un parroco di provincia, Istituto di sociologia internazionale di Gorizia, Gorizia, 1999

Igor’ Nikolaevic Ekonomtsev, Il Pope, la Russia e la sconfitta di Breznev. Appunti di un parroco di provincia, Istituto di sociologia internazionale di Gorizia, Gorizia, 1999

Alberto Gasperini, autore della prefazione, ha espressioni molto lusinghiere nei confronti di questo Il Pope, la Russia e la sconfitta di Breznev. Appunti di un parroco di provincia, che al momento della traduzione italiana era già noto in Russia grazie a uno sceneggiato in 16 puntate trasmesso in televisione.
Ancor più largo di elogi è Bruno Zecchini – che ha firmato le note biografiche dell’autore – elencandone scrupolosamente molti titoli di merito e riconoscimenti ottenuti. Si tratta dell’igumeno Ioann, al secolo Igor’ Nikolaevic Ekonomtsev, un prelato della Chiesa russa appassionato di cultura antica. È nato a Mosca nel 1939, ha lavorato al Ministero della Cultura e in quello degli Esteri, che gli ha consentito di vivere cinque anni in Grecia dove la sua via di Damasco passò per il monte Athos: qui, folgorato dalla bellezza della vita contemplativa dei monaci e dalla solennità del rito ortodosso, maturò la sua conversione al cristianesimo. Appena battezzato si dimise dalla carriera statale, passò all’Accademia delle Scienze e nel 1986 fu ordinato sacerdote dal patriarca moscovita Alessio II. Ebbe poi una carriera piuttosto accelerata. Nel 1987 era già arciprete e responsabile del comitato patriarcale per l’istruzione e nello stesso tempo si è occupato di teologia e di ricerche storiche ecclesiali. Fu anche coinvolto in posizioni di prestigio nelle celebrazioni per il Giubileo, ossia il millenario del cristianesimo in Russia che gli diede modo di presentare apprezzate relazioni in parecchie conferenze scientifiche internazionali.
L’autore, che ha preso i voti monastici, ha provveduto tra l’altro, alla redazione del progetto per l’istruzione ecclesiastica e religiosa che dal 1994 viene applicato largamente in tutta la Russia. Il passaggio dall’ateismo di Stato al rifiorire della Chiesa ortodossa russa è rapido e contrassegnato, a mio personale parere, dall’assunzione di cariche sempre più alte e dalla costituzione di comitati di ogni genere che portano alla creazione di “personaggi” autorevoli che proprio nella Russia, il Paese dei poveri, non assumono l’aria modesta del parroco di campagna dell’Europa occidentale. Questa non vuol essere una critica cattiva ma un’osservazione dovuta alla differenza tra il curato di campagna di Bernanos e il parroco di provincia di Ekonomtsev.
Quest’ultimo libro è considerato il suo capolavoro e contiene le immaginarie vicende di un parroco a contatto con l’anima russa.
Le dissonanze che mi è sembrato di cogliere mi pare che non possano togliere nulla alla validità dell’opera.
Alcuni personaggi di contadini sono abbozzati un po’ schematicamente. I dialoghi sono piuttosto elementari. Ci sono episodi, tuttavia, narrati in termini essenziali, come quello della morte di Matuska, una donna cui il Pope ha portato gli ultimi sacramenti. Sono presenti parenti ed amici e il racconto del Pope, che corre sul filo delle preghiere secondo l’austera liturgia ortodossa, è veramente suggestivo.
Poi c’è la vicenda – davvero alquanto improbabile – del Pope che confessa una donna ammalata con la quale ha avuto in passato un fuggevole cedimento; si vede vicino al letto un bimbo che è suo figlio e lo battezza. Il tutto era accaduto su un’isola in occasione di un viaggio del parroco nel visitare i monasteri del Nord. Qui un romanzo moderno non poteva non mettere un po’ di fantascienza. Natasha, la ragazza che seduce il Pope, è una splendida creatura e lavora in un’isola strana e misteriosa, sede di attività spaziali. L’isola si chiama Arieron. Durante il soggiorno tra i vari personaggi si svolge qualche discussione di carattere filosofico e religioso.
Il Pope si dichiara, con un’altra ragazza, cristiano ortodosso e vorrebbe sapere quale posto occupa Dio nella sua visione del mondo. La risposta è che quanto al cristianesimo lei non nega l’incarnazione, la crocifissione e la resurrezione dell’Uomo Dio che fu innalzato al cielo proprio su una delle navicelle che sorvolano l’isola. Dio è un’immensa energia pensante, il Pope dice che Dio non è soltanto energia e che discutere con lei non ha senso.
È interessante la pagina relativa al pope Ioann, personaggio ormai colto, che si confessa da padre Nikita, sacerdote in una piccola chiesa. Il penitente si accusa anzitutto di essere caduto nel peccato nell’isola d’Arieron, di non aver amato abbastanza Cristo e di non avere debitamente venerato la Santa Trinità Una e Indivisibile, e via di questo passo. Il semplice parroco forse non capisce tutte le sottigliezze teologiche, tuttavia recita le preghiere assolutorie e dice: «Voi siete più intelligente e colto di me. Con l’autorità datami da Dio vi assolvo dai vostri peccati. E per il resto che il Signore vi aiuti».
In sintesi il libro vuol essere un inno a Dio ed è convincente tenuto conto che l’ambiente è completamente “materializzato”, scanzonato e dissacrato; non è facile far rivivere la religione solenne degli avi e per i giorni attuali forse un po’ troppo pomposa.

Liliana Piccinini




Campanili e ciminiere


AA.VV., Giuseppe Rapelli. Un’idea cristiana del sindacato, Edizioni Studium, Roma, 1999

AA.VV., Giuseppe Rapelli. Un’idea cristiana del sindacato, Edizioni Studium, Roma, 1999

Giuseppe Rapelli, sindacalista e deputato, fu un campione eccezionale di anticonformismo. Non era, come alcuni suoi colleghi, “vicino ai lavoratori” ma era un autentico uomo di gavetta che nella non facile Torino aveva preso le distanze sia dall’operaismo comunista che dai nuclei in varia misura conciliativi.
Fu un convinto assertore della politica dei redditi, e spiegava in termini popolari suggestivi che il valore della moneta e il tasso di inflazione non si misuravano con curve e dati statistici, ma dal contenuto della borsa della spesa delle massaie.
Di solidarietà ben pochi osavano allora parlare (molti anni dopo il termine acquistò diritto di cittadinanza, tradotto dal polacco). Rapelli respingeva il classismo ma, come politico, aveva una sua idea che ne faceva un democristiano per così dire indipendente. Nel primo congresso nazionale del partito – aprile 1946 – propose che ci si organizzasse in modo federativo, con un movimento di operai, uno di contadini, uno di datori di lavoro, un quarto di liberi professionisti e così via.
Non trovò aderenti, ma entrò nel Consiglio nazionale essendo portatore di idee semplici e forse per questo non recepite. Fu atipico anche nel campo sindacale. Quando la Confederazione unitaria si sciolse, giudicò prive di mordente le Acli e censurò l’adesione della Confederazione libera non all’internazionale cristiana, ma a quella socialdemocratica. Un suo articolo, del 1950, fece scalpore anche come titolo: Campanili e ciminiere.
Due anni fa proprio le Acli organizzarono insieme al Centro studi Gobetti di Torino un seminario su Rapelli. Le quattro relazioni sono state ora pubblicate in un volume della Studium, che raccoglie anche gli scritti più significativi di questa forte e poco compresa personalità che negli ultimi anni di vita (morì nel giugno 1977) soffrì un penoso isolamento, reso amarissimo per la cecità causata da un forte diabete.
Ho di lui un ricordo affettuoso e grato, che il tempo non attutisce. Anzi, la crisi attuale rende forse ancora più validi alcuni suoi insegnamenti, la disattenzione per i quali si iscrive, ora per allora, tra le occasioni collettivamente perdute.

Giulio Andreotti




D’Annunzio e la religione


Pietro Nicolai, L’itinerario intellettuale di Gabriele D’Annunzio dalla Laus vitae al Libro segreto, Città Nuova Editrice, Roma, 1998

Pietro Nicolai, L’itinerario intellettuale di Gabriele D’Annunzio dalla Laus vitae al Libro segreto, Città Nuova Editrice, Roma, 1998

Al termine di una interessante presentazione dell’opera di fratel Antonio Nicolai su D’Annunzio di fronte al problema religioso, mi sono posto il quesito sull’atteggiamento della cultura cattolica nei confronti del Vate, che nella sua ultima lettera a Mussolini (il carteggio fu curato da De Felice) scrisse: «Io sono molto infelice».
Ho dinanzi l’indice degli articoli della Civiltà Cattolica a partire dal 1898 fino al 1993: una attenzione ampia e approfondita, in chiave linearmente critica, quando non censoria. Sarà interessante leggere quale sarà il giudizio dell’autorevole rivista sulle aperture del brillante religioso che fu a lungo preside del prestigioso istituto romano Pio IX.
Personalmente di D’Annunzio mi interessa di più la vita politica a far tempo dalla sua unica legislatura parlamentare a cavallo del secolo e via via – dopo l’avventura di Fiume – al complesso rapporto con il fascismo. Rimarrà sempre senza risposta il quesito se la vita italiana avrebbe avuto un corso differente qualora il poeta non fosse malamente caduto dalla finestra il 14 agosto 1922, alla vigilia di un incontro segreto con Nitti e Mussolini per un governo dalle ampie convergenze.
D’Annunzio fu un precursore nei rapporti con la Russia rivoluzionaria. Tre mesi prima della caduta ora ricordata aveva avuto un approccio con Cicerin vedendo un filone di spiritualità nel rivolgimento intervenuto. L’interlocutore però lo gelò dicendo che nei loro atti di governo non aveva mai trovato le parole spirito e anima.
Lo studio di fratel Antonio non concerne solo D’Annunzio, ma spazia in una analisi non priva di originalità del passaggio dal deismo all’ateismo.

Giulio Andreotti


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