Rubriche
tratto dal n.05 - 1999


Ciceroniana


La traduzione in cinese del De officiis di Cicerone

La traduzione in cinese del De officiis di Cicerone

È stata presentata a Roma la traduzione in cinese – con il testo a fronte – del De officiis di Cicerone. Un evento non nuovissimo ma ricco di significato. L’interesse per la romanità non conosce tramonto; e nel caso della Cina vi è un crescendo anche nel campo giuridico, come ha documentato il professor Schipani. A sua volta il professor Casavola ha messo in luce le caratteristiche pedagogico-morali di quest’opera che l’Arpinate dedicò a suo figlio con un susseguirsi splendido di consigli di vita. Anche il traduttore, professor Wang Huangsheng si è soffermato su questo.
Nell’occasione ho ricevuto in omaggio una raccolta, curata da Anna Serventi-Longhi, di proverbi europei ritenuti originali mentre invece sono di origine ciceroniana.
Qualche esempio?
– “Chiodo schiaccia chiodo” (Tusculanae IV, 35: «Etiam novo quidam amore veterem amorem tamquam clavo clavum eiciendum putant»).
“Il vero amico si vede nel bisogno” (De amicitia XVII, 64: «Amicus certus in re incerta cernitur»).
“Est assez riche qui est content” (Paradoxa VI, 1: «Dives est cui tanta possessio est ut nihil optet amplius»).
– “Como semrarades cogereredes” (De oratore II, 65: «Ut sementem feceris ita metes»).
“The eye is the mirror of the soul” (De oratore III, 59: «Animi imago vultus indices oculi»).

* * *

Terza nota di attualità. Anche il latino ha il suo sito in internet. E tra i messaggi diffusi, uno riguarda appunto Cicerone riportando il giudizio di Catone («Habemus consulem ridiculum»). Sarebbe errata però la traduzione letterale. Ridiculus significa spiritoso.




Don Canovai


Pierluigi Natalia, Il passeggero dell’Oceania. Breve introduzione alla vita e alla figura del Servo di Dio mons. Giuseppe Canovai, Roma, Centena-Millennium Romae, 1999

Pierluigi Natalia, Il passeggero dell’Oceania. Breve introduzione alla vita e alla figura del Servo di Dio mons. Giuseppe Canovai, Roma, Centena-Millennium Romae, 1999

Il titolo di un nuovo saggio su don Giuseppe Canovai, a cinquantasette anni dalla morte, è suggestivo: Il passeggero dell’Oceania. Lo ha scritto con penna letterariamente brillante Pierluigi Natalia, lavorando sulle lettere di don Giuseppe e sugli appunti dei quali alcuni vergati con il proprio sangue dopo essersi flagellato.
Oceania è il nome del piroscafo che lo aveva condotto nel 1939 in Argentina, destinato a quella nunziatura, strappandolo da una intensa vita romana dedicata allo studio e alla cura degli universitari cattolici. Sono tra i superstiti del saluto alla stazione Termini, donde raggiunse Genova. Eravamo tutti in preda a una grande commozione.
Furono tre soli anni di vita diplomatica, a Buenos Aires e a Santiago del Cile, contrassegnati da un impegno verso i giovani e il mondo della cultura che lo aveva reso popolarissimo. Una peritonite acuta lo stroncò, edificando nel lucido congedo dal mondo chi ebbe la ventura di essergli accanto.
La Familia Christi, di cui fu promotore ed amico, ne cura il processo canonico di beatificazione.
Lo ricordo con immutata tenerezza.




Carlo Donat-Cattin


Nicola Guiso, Carlo Donat-Cattin. L’anticonformista della sinistra italiana. Intervista a Sandro Fontana, Venezia, Marsilio, 1999

Nicola Guiso, Carlo Donat-Cattin. L’anticonformista della sinistra italiana. Intervista a Sandro Fontana, Venezia, Marsilio, 1999

Un libro-intervista (domande di Nicola Guiso e risposte di Sandro Fontana) riporta all’attenzione un uomo politico che dal dopoguerra alla sua morte, avvenuta nel marzo 1991, ha avuto un ruolo di grande rilievo nei sindacati, nella Democrazia cristiana, nel Parlamento e nel governo: Carlo Donat-Cattin (L’anticonformista della sinistra italiana). Tra i presentatori, all’Istituto Sturzo, Fausto Bertinotti ha individuato le radici dell’eccezionalità del personaggio nella sua origine, in quella Torino dove è potuta nascere un’opera come il Cottolengo, impossibile altrove e specificamente – ha detto – a Roma. Ha aggiunto che, del resto, a Torino appartengono i più grandi santi dell’Ottocento, ispiratori tra l’altro di quelle scuole professionali che le strutture statali non contemplavano ritenendole superflue.
A mia volta ho documentato momenti forti di DonatCattin specie quando all’indomani del rapimento di Aldo Moro mi chiese per iscritto che si introducesse la pena di morte come minaccia ai terroristi.
Ecco la mia risposta:

«Caro Donat-Cattin,
ho meditato a dovere sulla tua lettera di venerdì, cercando di mantenere la massima oggettività, pur se è difficile ragionar con calma quando Aldo è nel vortice di una situazione in tanta parte da noi per il momento incontrollabile.
Tu ritieni che una iniziativa per introdurre la pena di morte sia la sola strada da battere per salvare la vita di Moro, in quanto unica minaccia valida “per i terroristi carcerati o che lo saranno”.
Non credo che tu abbia ragione. Intanto il solo modo per introdurre la pena di morte sta in una legge di modifica costituzionale (la Costituzione la ammette solo in tempo di guerra ed è un concetto internazionalmente preciso) che richiederebbe le due letture a distanza di parecchi mesi. E poiché – sta attento – nessuna legge penale è retroattiva, non solo nessun effetto varrebbe su coloro che sono già in carcere ma neppure su quanti avessero commesso ed esaurito il fatto prima della entrata in vigore della nuova legge.
E questo potrebbe risultare fatale per Aldo, spingendo a soluzioni drammatiche quella che secondo il messaggio di ieri è ancora una posizione aperta: c’è anzi da sperare, per l’analogia (processo politico) con i casi Sossi e Di Gennaro, in una liberazione volontaria, ove noi non riuscissimo ad ottenerla prima con le nostre forze.
Aggiungo che l’esperienza di tutto il mondo (specie in America, con la comparazione tra gli Stati dove esiste la pena di morte e gli altri) dimostra che nessun tipo di criminalità è ridotto con l’introduzione o con il permanere della pena capitale. Ho voluto sentire ieri persone di grande saggezza ed esperienza in materia e tutti sono concordi.
Né dal tono dei messaggi e dalle ricordate esperienze analoghe c’è da presumere che questi signori non conoscano i limiti che a noi pongono la Costituzione e le altre leggi. Con tanti auguri per la tua salute».
Purtroppo una via per salvare Moro non si trovò e la strada politica da lui tracciata andò dispersa. DonatCattin fu tra i più duri nella chiusura. I comunisti, per parte loro, indeboliti parlamentarmente nelle elezioni del 1979, consideravano sterile il rapporto con i democristiani con una pendolare preferenzialità verso i socialisti. Fu in qualche modo l’inizio della fine, che maturò a fuoco lento inserendosi più tardi nella crisi dell’Est, che avrebbe dovuto invece premiare la linea che nel 1977 aveva fatto solennemente riconoscere ai comunisti che il Patto atlantico e la Comunità europea erano i punti fondamentali di riferimento della politica estera italiana.
Chiedersi che cosa farebbe oggi Donat-Cattin è esercizio dialettico che è meglio lasciar stare.




Il carteggio Sturzo-De Gasperi


Luigi Sturzo-Alcide De Gasperi, Carteggio (1920-1953), a cura di Giovanni Antonazzi, Brescia, Morcelliana, 1999

Luigi Sturzo-Alcide De Gasperi, Carteggio (1920-1953), a cura di Giovanni Antonazzi, Brescia, Morcelliana, 1999

A cura della Morcelliana è uscita una raccolta di lettere scambiate tra Sturzo e De Gasperi a partire dal 1920. Con un saggio in premessa, Gabriele De Rosa aiuta a comprendere la concordia-discors tra i due.
Ne cito una, curiosissima, datata 27 aprile 1949:
«Caro Alcide, tu che sei stato giornalista e direttore di giornali in periodo libero (prefascista) e poi nel primo periodo fascista, potrai meglio che ogni altro comprendere l’enormità di un disegno di legge che è in giro per costituire l’albo dei giornalisti (oh! ricorrenze del sistema corporativo e vincolato del triste ventennio).
Possibile che ciò ha da passare sotto la tua amministrazione?
Avverti il sottosegretario Andreotti a non cadere nel laccio teso sotto specie sindacalista per proteggere la classe. I veri giornalisti si proteggono da sé; gli altri che vadano a fare i ciabattini.
Sempre tuo aff.mo Luigi Sturzo».
Molto bello è un telegramma di De Gasperi a Sturzo del 24 dicembre 1950:
«Essendo passato testé per la Porta Santa ti mando sinceri auguri e nello spirito dell’anno della penitenza comprimo anche il dispiacere per il tuo ultimo articolo».




Il grido dei poveri


Alex Zanotelli, Inno alla vita. Il grido dei poveri contro il vitello d’oro, Bologna, Editrice missionaria italiana, 1998

Alex Zanotelli, Inno alla vita. Il grido dei poveri contro il vitello d’oro, Bologna, Editrice missionaria italiana, 1998

A cura della Morcelliana è uscita una raccolta di lettere scambiate tra Sturzo e De Gasperi a partire dal 1920. Con un saggio in premessa, Gabriele De Rosa aiuta a comprendere la concordia-discors tra i due.
Ne cito una, curiosissima, datata 27 aprile 1949:
«Caro Alcide, tu che sei stato giornalista e direttore di giornali in periodo libero (prefascista) e poi nel primo periodo fascista, potrai meglio che ogni altro comprendere l’enormità di un disegno di legge che è in giro per costituire l’albo dei giornalisti (oh! ricorrenze del sistema corporativo e vincolato del triste ventennio).
Possibile che ciò ha da passare sotto la tua amministrazione?
Avverti il sottosegretario Andreotti a non cadere nel laccio teso sotto specie sindacalista per proteggere la classe. I veri giornalisti si proteggono da sé; gli altri che vadano a fare i ciabattini.
Sempre tuo aff.mo Luigi Sturzo».
Molto bello è un telegramma di De Gasperi a Sturzo del 24 dicembre 1950:
«Essendo passato testé per la Porta Santa ti mando sinceri auguri e nello spirito dell’anno della penitenza comprimo anche il dispiacere per il tuo ultimo articolo».




La fede dell’alpino


Carlo Gnocchi, Cristo con gli alpini, Milano, Ancora, 1999

Carlo Gnocchi, Cristo con gli alpini, Milano, Ancora, 1999

Nella folla che si ammassava quel pomeriggio lungo le strade di Milano per rendere l’estremo saluto a don Carlo Gnocchi, svettavano molti cappelli con la penna nera. I vecchi alpini – specie i reduci della Tridentina – riservavano ogni anno, nel raduno nazionale, al loro vecchio cappellano espressioni di affetto scorgendone con preoccupazione l’aspetto sempre più cereo, compensato però da quegli incredibili occhi che esprimevano insieme tenerezza e profondità.
L’atmosfera di quel giorno di commiato è stata fatta ora rivivere con la pubblicazione di scritti dal fronte di don Carlo, racchiusi sotto il titolo: Cristo con gli alpini. Ne riporto una pagina molto bella:

«La fede dell’alpino.
A voler definire l’animo religioso dell’alpino, bisogna per forza rifarsi al termine e al concetto di pietas, così comprensivo e così caro ai latini.
La religione, per questa gente, non è mai un momento o un episodio; è uno stato, una forma, un modo di vita; sangue vivo e succo vitale. Una disposizione permanente e quasi istintiva verso l’eterno, che dà sapore e colore a tutte le manifestazioni della loro vita e imbeve il loro linguaggio concreto e incolore, levandolo a una dignità, e spesso a una maestà di sapore quasi biblico.
Nell’espressione che sfugge per la stanchezza di una marcia di alta montagna, come nel sobrio e pacato giudizio dell’episodio politico o militare, nel momento conturbante del pericolo in guerra, come nella gioia di una buona notizia inattesa, è sempre il motivo religioso che balza improvvisamente dal discorso umile e spesso stentato dell’alpino. Chicco d’oro splendente nel grigiore della conversazione, affioramento improvviso di un profondo filone di saggezza antica.
Né molto numerose e varie sono le idee religiose di questa gente. Dio, l’anima, la Provvidenza e l’aldilà, con la sua chiara e acquietante giustizia per tutti. Ce n’è abbastanza per costruirvi saldamente tutta un’esistenza, come su pochi pilastri di roccia gettati nel fiume rapido e insidioso della vita.
Per questo la devozione e la preghiera dell’alpino è forte e dritta; un vivo, incombente, sperimentale senso della Divinità, un amore concreto e virile per Cristo e la Madonna e ben poco d’altro e di più. Questa gente di montagna, usa a trovare il rifugio nella tormenta e il sentiero nascosto nel bosco, sa ben orientarsi anche nell’andare a Dio. Non si perde in devozioni marginali e secondarie, mira dritto al Signore; senza lusinghe e senza dubbiezze. I reagenti del dubbio e le speciosità della critica non hanno molta presa sulla pietra compatta e buona di queste coscienze.
Io credo che l’integrità religiosa del popolo italiano, unica nella storia religiosa dei grandi popoli, si deve attribuire in gran parte alla massa di resistenza opposta dalle popolazioni alpine, durante i secoli, agli attacchi e alle infiltrazioni dell’errore straniero e che la stessa sanità morale della stirpe di fronte alle frequenti intemperanze delle nazioni di confine, sebbene in parte frustrata da altre più facili vie d’accesso del costume, sia merito anche della compattezza e dell’impermeabilità di questo vallo italico che la natura e Dio hanno posto a difesa spirituale e materiale dell’Italia».


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