Rubriche
tratto dal n.11 - 1998


Una piacevole sorpresa


Giancarlo Lunati, La religione di Giovanni Paolo II, Genova, Marietti, 1998

Giancarlo Lunati, La religione di Giovanni Paolo II, Genova, Marietti, 1998

Sono incorso in una felix culpa.
Avendo visto in libreria un saggio di Giancarlo Lunati, presidente del Touring Club, su La religione di Giovanni Paolo II l’ho acquistato pensando che fosse un commento ai viaggi pastorali del Papa. Nulla di tutto questo. Il Touring non c’entra; e Lunati si dimostra invece analista attento del messaggio globale del Santo Padre ed anche sottile ricercatore di precedenti come l’introduzione delle encicliche da parte di Benedetto XIV, un Papa di norma ricordato (ingiustamente) più per il suo fine umorismo che per incisivi atti pontificali. Anche sul letto di morte, secondo le cronache, non abbandonò la leggiadria del suo linguaggio. Avendo il cardinale protodiacono accompagnato il Viatico con le parole: «Ecco Gesù che entra in Gerusalemme», l’illustre agonizzante rispose con un filo di voce: «Lo riconosco dalla cavalcatura».
Parto volutamente da questa premessa… aconfessionale, per accennare – a contrariis – alla presentazione che del libro ha fatto Ezio Mauro, nell’ambasciata italiana presso la Santa Sede. Rifacendosi alla sua presenza giornalistica nell’Unione Sovietica vecchia maniera ha fatto rivivere l’estesa ripercussione che la nomina del Papa polacco ebbe rapidamente non soltanto a Mosca ma in tutta l’Unione. Da questa personale constatazione, Mauro è passato – anche oltre il libro – a un incisivo esame del messaggio spirituale di Giovanni Paolo II, concentrandosi sia sul forte invito rivolto ai giovani perché non abbiano paura, sia sulle richieste di “scuse” che il Papa ha reiteratamente fatto in una coraggiosa serie di revisioni storiche.
Prima di Mauro, il libro era stato elogiato dal cardinale Poupard, con elegante puntigliosità, citando pagina per pagina i passi che intendeva mettere in rilievo. Non avendo sua eminenza eccepito su qualche apprezzamento un poco ardito riguardo al rapporto tra san Francesco di Sales, Giansenio e una interpretazione forse estensiva di sant’Agostino, mi guarderò dal farlo io.
La conclusione di Lunati è che «la natura della santità è complessa, se la si vuol vedere nella sua essenza, che è la testimonianza operosa e il raggiungimento dei risultati. Questa semplice filosofia è un filo conduttore per comprendere la religione del Papa polacco, col quale si può discutere e dissentire, ma del quale non si può di certo ignorare la grandezza, anche come autentico interprete del nostro tempo».

Giulio Andreotti




Cosa si trova nel frutteto


Domenico Del Rio, Il frutteto di Dio. Storia di Karol Wojtyla, Milano, Vita e Pensiero, 1998

Domenico Del Rio, Il frutteto di Dio. Storia di Karol Wojtyla, Milano, Vita e Pensiero, 1998

Per tanti anni inviato al seguito del Papa negli innumerevoli viaggi all’estero di Giovanni Paolo II – corrispondenze poi raccolte, nel 1994, nel volume Wojtyla, un pontificato itinerante (Bologna, Edizioni Dehoniane) –, l’autore ripercorre la vita di prete, di vescovo, di cardinale e di papa di Karol Wojtyla, ispirandosi alla sua produzione poetica. I ventitré capitoli che compongono il volume recano nomi suggeriti dall’ambiente naturale (Frumento, Notte, Campi, Laghi, Terra promessa, Frutteto, Albero, Rosa) o da mete dei viaggi del Pontefice (Oriente, Favelas, Africa ecc.) e hanno la struttura letteraria dei Fioretti di san Francesco e di tante legendae medioevali, dove al numero o al titolo del capitolo segue l’incipit inconfondibile che ne riassume in poche parole il contenuto.
Del Papa più visualizzato della storia che, in vent’anni di pontificato, non ha sussurrato, ma gridato appassionatamente il suo messaggio, non è facile dire qualcosa di nuovo. Questo libro vi riesce e lo fa con singolare e rara abilità: particolari soltanto apparentemente marginali, attinti a scrupolosa informazione e a compiuta conoscenza dei fatti, svelano il Wojtyla più intimo e più vero, sempre identico a se stesso da quando, giovane prete, raggiunse, su di un carretto trainato da un cavallo, la prima parrocchia di campagna alla quale era stato assegnato come aiuto al vecchio parroco, fino al confidenziale errore linguistico che lo rese subito amico della folla raccolta in piazza San Pietro il giorno della sua elezione o quando, l’indomani del gravissimo attentato, nella stanza di degenza del Policlinico Agostino Gemelli, a chi gli andava a fare gli auguri, diceva: «Qui ho la gioia di vedere dalla finestra la cupola di San Pietro».
Vi è, tuttavia, un volto di Giovanni Paolo II che questo libro disegna con inconsueta intensità: è il volto di un Papa vicinissimo al dolore umano, alla sofferenza più cruda e dimenticata. I tanti episodi rievocati spiegano, con grande efficacia figurativa, perché proprio a Giovanni Paolo II si debbano: il primo e più ampio documento dedicato al significato cristiano della sofferenza umana, la lettera apostolica Salvifici doloris (11 febbraio 1984); l’istituzione del dicastero pontificio per la Pastorale degli operatori sanitari (11 febbraio 1985); l’istituzione della Giornata mondiale del malato da celebrarsi, in un importante santuario mariano, a partire dall’11 febbraio 1994; la sua ricorrente richiesta ai malati e ai sofferenti di sostenerlo nel suo magistero e ministero; le sue soste – in ogni viaggio apostolico – nei luoghi di ricovero e di cura e il suo abbraccio ai malati di Aids.
Il titolo del libro si ispira ad alcuni versi tracciati dal Papa quando, arcivescovo di Cracovia, il giovedì santo del 1966, l’anno del Millennio cristiano per la Chiesa polacca, ricordando il battesimo del primo sovrano della Polonia, Mieszko, scriveva: «Tutt’intorno il frutteto,/con gli alberi innestati./Vi passeggiava Mieszko all’ombra/contemplandolo…/ Pensava: Ma darà frutto il giardino?/E quale frutto sarà considerato buono?».
In questo libro è la risposta al grande interrogativo. Veramente Giovanni Paolo II ha saputo trasformare il frutteto con gli alberi innestati, nel «frutteto di Dio».

cardinale Fiorenzo Angelini




In attesa di novità


Luigi Accattoli, Karol Wojtyla. L’uomo di fine millennio, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1998

Luigi Accattoli, Karol Wojtyla. L’uomo di fine millennio, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1998

Non è una novità che l’essenziale di un libro si trova nella sua prefazione e nel suo indice. Per questo ennesimo volume su papa Karol Wojtyla, preparato da uno dei più seri e brillanti giornalisti-vaticanisti, Luigi Accattoli, è sufficiente l’indice.
Un duplice indice, nella divisione del contenuto in bibliografia-cronologia: bibliografia di lui come soggetto: atti e documenti pontifici, memorie e interviste, discorsi, opere filosofiche e poetiche; e di lui come oggetto: una ottantina di studi su papa Wojtyla come cittadino polacco o romano, come uomo e come scrittore, come missionario e come uomo dell’ecumenismo convinto e irriducibile
La cronologia, particolareggiata nelle vicende personali e ministeriali, nella sua elevazione pontificia, nelle sue encicliche, nei suoi sinodi, nelle sue peregrinazioni missionarie, nei suoi rapporti internazionali, è quanto di più vistoso e aggiornato (fino al giugno 1998) si possa desiderare per raffigurarci la stragrande laboriosità d’un quasi ottantenne, che ha risposto fino all’estremo ai misteriosi tempi della Provvidenza divina.
Pensavo che difficilmente si sarebbe potuto aggiungere qualcosa di nuovo ad un personaggio che ha detto tutto (o quasi) di sé nelle notizie biografiche dettate alla pubblicità dalle sue interviste e dai suoi dialoghi interpersonali con giornalisti, e soprattutto dai suoi numerosissimi discorsi (quasi ogni giorno riportati dall’Osservatore Romano e dalle agenzie internazionali per la straordinaria ricchezza di contenuto e di attualità): che lasciasse ancora aperto qualche valico al suo prorompente magistero.
Ma l’autore, che pure ha intelligentemente definito la sua fatica «biografia narrativa», «essenziale, ma completa», da ottimo giornalista ha riservato per sé il compito del “giudizio” intuitivo e popolare sulle intraprese di un Papa che la totalità dei mezzi di comunicazione e ogni sorta di pubblicità hanno analizzato e universalmente esaltato soprattutto in questo recente suo duplice anniversario di quarantesimo d’episcopato e di ventesimo del sommo pontificato. Un giudizio positivo, il suo, com’è naturale, non di rado sbalordito e perplesso di fronte al futuro delle grandi attese ecumeniche o al possibile arresto delle antiumane ricerche pseudoscientifiche o alle micidiali minacce alla pace.
Da buon vaticanista l’autore non si lascia certo sfuggire, anche se con parsimonia, quelle indiscrezioni e quei pettegolezzi che circondano le notizie più succulente, come quelle del conclave, delle prime reazioni al suo pontificato straniero, soprattutto fra i romani, delle aperture politiche e anche delle sporadiche contestazioni.
Vorremmo portare numerose sottolineature della specificità pastorale riconosciutagli dall’Accattoli. Ci limitiamo ad alcune sequenze:
– circa il suo ruolo di protagonista nel processo di svalutazione comunista: «Di quella decennale avventura, che costituisce in gran parte l’apporto di Giovanni Paolo alla sconfitta del comunismo, qui ci interessa il risvolto soggettivo: il dramma dell’uomo Wojtyla, che dal papato riceve la forza per aiutare la patria, ma che il papato tiene forzatamente lontano dalla patria e che forse teme – in qualche momento – di coinvolgere la Chiesa in una questione polacca che non la riguarda. Quel dramma poté essere doloroso per l’uomo Wojtyla, ma costituì una felice circostanza storica che affrettò la fuoriuscita pacifica dell’Europa orientale dal dominio sovietico e restituì la figura papale al diritto dell’amor patrio, di cui l’aveva privata la lunga tradizione ascetica e neutrale dei Papi italiani» (p. 132);
– circa i suoi criticati eccessi di viaggi, di discorsi, di incontri a livello ecclesiale e sociale: «Eccolo, dunque, questo Papa pienamente consapevole della libertà che rivendica, rispetto ad ogni modello pontificale: egli l’uomo dell’eccesso e dell’azzardo, del coraggio e delle reazioni immediate, persino degli scatti d’ira… quando vede un’ingiustizia, quando avverte un bisogno, non trattiene più il suo cuore… L’eccesso dei viaggi è la spia di un grande eccesso della missione, che può aiutare a capire molti aspetti discussi del suo pontificato: discussi dai critici, ma che lui – Giovanni Paolo – considera suggeriti dalla Provvidenza» (pp. 148-149). È stato calcolato (cfr. 30Giorni n. 7, luglio 1989) che «Pio XII teneva una media annuale di 70 discorsi, corrispondenti a 478 pagine. Con Giovanni XXIII si sale a 182 discorsi, per 777 pagine. Con Paolo VI a 347 discorsi, per 1255 pagine. Con Giovanni Paolo a 746 discorsi e 3626 pagine. E negli ultimi dieci anni il ritmo della produzione magisteriale non è mutato. Possiamo dunque concludere [...] che egli ha triplicato il volume di parole rispetto a papa Montini, che l’aveva quasi raddoppiato nei confronti di Giovanni XXIII, il quale aveva dato lo stesso distacco a Pio XII» (p. 151);
– circa l’attesa struggente della pace ecumenica: «Forse ciò che più l’ha colpito e cambiato, in vent’anni, è stato lo smacco ecumenico. Si direbbe che egli tremi per i peccati delle Chiese, prima che per la sua malattia. Più che mai oggi sente nella sua carne i mali del mondo. E il mondo ora intende meglio la sua voce. Forse egli ha ancora qualcosa d’importante da dire all’umanità, magari proprio nella direzione dell’avvicinamento tra i credenti. Egli continua a sognare un incontro di tutti i cristiani a Gerusalemme, o a Betlemme, nel 2000. Quello è forse l’appuntamento degli appuntamenti. Le novità generalmente vengono al principio di un pontificato, ma con Giovanni Paolo potrebbero arrivare anche alla fine» (p. 321). Siamo d’accordo. E restiamo in attesa.

Elio Venier




Giubileo e infernalizzazione del purgatorio


Alberto Ronchey, Accadde a Roma nell’anno 2000, Milano, Garzanti, 1998

Alberto Ronchey, Accadde a Roma nell’anno 2000, Milano, Garzanti, 1998

Un libro scritto di getto, formato da tante osservazioni sparse di icastica brevità, quasi delle istantanee: un instant-book, ecco, scritto nelle intenzioni dell’autore prima che sia troppo tardi, prima che il Grande Giubileo che è alle porte, una volta apertele, non travolga Roma. In effetti, di fronte a scenari fideistici e spettacolari, sia laici che religiosi, l’autore ha buon gioco a evocare scenari apocalittici, più consoni se non altro alla paura che si vuole regnasse alla fine del primo millennio e comunque sempre più credibili del trionfalismo di regime, sia laico che religioso. L’enfasi non può che suscitare scetticismo e ironia.
Certo, scorrendo il libro ci accompagna quell’aria sempre un po’ infastidita dell’autore, che tutti conoscono bene per via dei tanti ruoli pubblici ricoperti. Scade un po’ quando ironizza sui 6800 vigili romani che non saranno mai capaci di cogliere in inglese la differenza fonetica fra Major e Mayor (cfr. p. 108) o sui tassisti che anche quando non scioperano chiedono «“Dove va?” per intendere: “Dove mai avrebbe la pretesa di andare?”» (p. 112). Sono soggetti che Sordi e Fellini hanno trattato con ben altra profondità e leggerezza (ma bisogna riconoscere che avevano davanti un’altra Roma). Insomma, la sua insofferenza per l’intruppamento rischia di arrivare fino all’insofferenza per gli intruppati di ogni razza e tipo. Eppure ci sembra di riconoscere che tanta verve polemica, tanta ironia, tanta insofferenza siano dettate anche da un amore a Roma, compresa quella di papi e giubilei passati come quello del 1900 sotto Leone XIII (cfr. p. 117). E da un’amarezza, che si coglie passim, di fronte a chi pensa di aver avuto a che fare con Roma prescindendo da una distensione spazio-temporale, da una frequentazione abituale di cose e persone, da quella pazienza mascherata da indolenza o da pigrizia da cui a Roma non si può prescindere.
Tanto è il riserbo e l’autocontrollo, però, con cui l’autore manifesta questo suo sentimento che si resta colpiti quando abbandona il genere letterario satirico (il libro si conclude nel nome di Decimo Giunio Giovenale) per portare una sua testimonianza del tutto piana. Accade in due circostanze: quando a pagina 94 ricorda «le catacombe di Priscilla gremite di ebrei accolti dai religiosi» e quando a pagina 107 rievoca lo stupore suscitato in lui da un giapponese stupito dalla liturgia cattolica. Per chi sa leggere, non sono da sottovalutare.
Il libro ha avuto l’onore di varie presentazioni su quotidiani e settimanali e di una stroncatura su Avvenire a firma di Cesare Cavalleri. Non ce ne occupiamo: de gustibus… Ci interessa però far rilevare che a Ronchey, che parla della mutata immagine del purgatorio in relazione al primo Giubileo (in realtà fa parlare ben altra autorità: Jacques Le Goff e il suo La naissance du purgatoire), non si può rispondere, come fa Cavalleri, che «del purgatorio hanno scritto e ragionato san Cipriano, e Tertulliano, e sant’Agostino». Certo, il dogma del purgatorio non è stato inventato in epoca basso medievale. Per natura sua appartiene da sempre alla fede della Chiesa. Ma questo non toglie che proprio in epoca basso medievale l’immagine del purgatorio sia cambiata in relazione alla nascita della civiltà mercantile, e che si sia determinata quella che Le Goff chiama una «infernalizzazione del purgatorio», cioè una sua approssimazione all’inferno piuttosto che al paradiso.
Un indice onomastico dà modo a chi lo volesse di ritornare per soggetti sulle pagine lette, su persone e luoghi, non tutti paradisiaci.

Lorenzo Cappelletti


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