Rubriche
tratto dal n.06/07 - 2008


Le donne della Costituente


Maria Teresa Antonia Morelli (a cura di), ILe donne della Costituente/I, Laterza, Bari 2007, 296 pp., euro 35,00

Maria Teresa Antonia Morelli (a cura di), ILe donne della Costituente/I, Laterza, Bari 2007, 296 pp., euro 35,00

Con la caduta del fascismo riprese il percorso della democrazia interrotto da venti anni di regime e si ripropose con forza la questione del suffragio femminile. La partecipazione delle donne alla guerra di liberazione fondò la legittimazione dell’accesso femminile alla politica e videro la luce nel novembre 1943, nell’Italia settentrionale occupata dai tedeschi, i Gruppi di difesa della donna, che univano all’impegno antifascista la lotta per l’emancipazione. Anche l’Unione donne italiane (Udi) e il Centro italiano femminile (Cif), formatisi nel 1944, svolsero un ruolo importante nella costruzione della politica autonoma delle donne. La nascita di un movimento per la rivendicazione del voto come diritto individuale porterà, il 25 ottobre 1944, alla costituzione del Comitato pro voto. Il 31 gennaio del 1945 il Consiglio dei ministri, presieduto da Ivanoe Bonomi, emana un decreto luogotenenziale (n. 23 del 2 febbraio 1945) che riconobbe alle donne il diritto di voto. Ma bisognerà aspettare più di un anno perché un nuovo atto legislativo (decreto n. 74 del 10 marzo 1946) riconosca alle donne non solo il diritto di voto, ma anche il diritto all’eleggibilità. Il decreto, frutto di una intesa tra Alcide de Gasperi e Palmiro Togliatti, colse tutti di sorpresa, comprese alcune militanti del Comitato pro voto, preoccupate per l’impreparazione politica e la scarsa autonomia dell’elettorato femminile. Su questo punto la storia delle donne non ha cessato di interrogarsi (*).
Il 2 giugno 1946 le donne esercitarono, per la prima volta, il diritto di voto. In più di dodici milioni furono chiamate a scegliere, con il referendum istituzionale, tra Monarchia e Repubblica e a eleggere l’Assemblea costituente per la stesura e l’approvazione della Carta costituzionale. All’Assemblea costituente vennero elette ventuno donne (nove della Democrazia cristiana, nove del Partito comunista, due del Partito socialista e una rappresentante della lista dell’Uomo qualunque). Cinque di loro – le democristiane Maria Federici e Angela Gotelli, le comuniste Teresa Noce e Nilde Jotti e la socialista Merlin – furono chiamate a far parte della “Commissione dei 75”, incaricata di redigere il testo della nuova Costituzione repubblicana. L’attività e il contributo da loro reso ai lavori preparatori della Carta costituzionale sono riproposti da Maria Teresa Antonia Morelli in un bel libro, edito dalla Fondazione della Camera dei deputati, Le donne della Costituente, Editori Laterza. L’introduzione è di Cecilia Dau Novelli. I numeri delle elette all’Assemblea costituente confermano che le donne assicurarono la fortuna elettorale dei partiti che più avevano investito su di loro, il Pci e la Dc, punendo le dirigenze politiche laiche e socialiste che avevano accolto con fastidio e reticenza la novità del voto femminile.
Il convergere delle delegate su una funzione di rappresentanza degli interessi di tutte le donne trasformò l’Assemblea in un laboratorio: il primo laboratorio della piena cittadinanza femminile. Le cinque costituenti svolsero un ruolo determinante soprattutto sui nodi dello status della famiglia e dei diritti delle donne. Dobbiamo alla loro convergenza di fondo il sostegno alla famiglia e alla maternità, ma anche l’affermazione netta del diritto al lavoro e all’accesso a tutte le carriere. Alcuni scontri, inevitabili, furono risolti con una mediazione tutta femminile. La funzione “essenziale” della madre fu, ad esempio, lasciata alla libera interpretazione delle differenti forze politiche: intesa come riaffermazione di un “destino” da parte di alcuni esponenti cattolici da un lato, e come tutela invece della lavoratrice madre dall’altro. Allo stesso modo, l’accesso alla magistratura, prima negato, fu poi rimandato ai decreti attuativi della Costituzione, grazie a un ordine del giorno di Maria Federici su cui si realizzò l’accordo di tutte le delegate.

(*) Cfr. La lunga marcia della cittadinanza femminile, mostra iconografica e documentaria promossa dall’Archivio di Stato di Roma, testi di Manola Ida Venzo.




Lo stupore di una vita che si rinnova


Luigi Negri, ILo stupore di una vita che si rinnova. Spunti 
di riflessione sull’esperienza cristiana/I, Cantagalli, Siena 2008, 168 pp., euro 14,50

Luigi Negri, ILo stupore di una vita che si rinnova. Spunti di riflessione sull’esperienza cristiana/I, Cantagalli, Siena 2008, 168 pp., euro 14,50

Sono stati opportunamente raccolti in volume i testi di alcune lezioni tenute da monsignor Luigi Negri, vescovo della diocesi di San Marino-Montefeltro, alla Scuola di cultura cattolica di Bassano del Grappa. Quattro magistrali lezioni sul rapporto tra fede e ragione, Cristo e la Chiesa; sulla dottrina sociale della Chiesa e il magistero di Giovanni Paolo II. Il linguaggio, molto lineare e semplice, va direttamente al cuore del problema, senza tanti preamboli, come quando – a proposito della dottrina sociale della Chiesa – Negri scrive (p. 77): «Non esiste esperienza cristiana senza dottrina sociale. La dottrina sociale è la fede vissuta, la fede ecclesiale, la fede della compagnia ecclesiale che non è qualcosa di diverso dalla fede del singolo, perché è il singolo che vive la fede dentro l’esperienza del popolo, che vive la fede in Cristo nella fede del popolo». C’è sempre un percorso consequenziale logico nella presentazione teologica e storica degli argomenti da parte di monsignor Negri. La fede dunque non è un’appendice inutile, estranea alla vita; al contrario, il cristianesimo è qualcosa che contribuisce a rinnovare e a cambiare in meglio la vita. «Per secoli» scrive Negri in un capitolo dedicato alla Chiesa di fronte alla modernità (p. 81) «alla domanda “che cos’è l’uomo?” si è risposto, non solo teoreticamente ma anche praticamente con la vita di tutti i giorni, “è colui che cerca la verità”; “è colui che cerca il senso profondo della sua vita”; “è colui che impiega la ragione, questa grande risorsa propria dell’uomo, per la ricerca della verità”. Secondo tale prospettiva la ragione è aperta all’infinito, non esclude nessuna possibilità, e quindi, come ha insegnato don Giussani, è aperta alla possibilità della liberazione, della rivelazione».
Nei quattro saggi raccolti, ne Lo stupore di una vita che si rinnova frequenti sono i richiami all’insegnamento di don Giussani, ai padri della Chiesa e a classici della letteratura e della filosofia.




Tornare al nucleare?


Chicco Testa, ITornare al nucleare? L’Italia, l’energia, l’ambiente/I, Einaudi, Torino 2008, 113 pp., euro 13,50

Chicco Testa, ITornare al nucleare? L’Italia, l’energia, l’ambiente/I, Einaudi, Torino 2008, 113 pp., euro 13,50

Non sono sicuro che il pentimento, come sentimento umano, possa annoverarsi fra le categorie o forme etiche, secondo la distinzione duale dello spirito coniato da Benedetto Croce. È comunque certo che quello descritto da Chicco Testa nel suo Tornare al nucleare? non appartiene alla sfera religiosa o filosofica, ma è semplicemente un cambiamento di opinione, secondo il principio di Giancarlo Pajetta: «Un comunista può cambiare opinione, ma non pentirsi».
La descrizione della riapertura dell’opzione nucleare si sviluppa nella riproposizione di argomenti collaudati e noti da diversi lustri, anche se Testa ne giustifica il cambiamento con il fatto che «il mondo degli anni Ottanta era molto più piccolo di quello di oggi» e che «continuano a esserci un paio di miliardi di individui che sono privi, al momento, di energia elettrica». Se proprio di novità non si può parlare (basterebbe ricordare Il secondo pianeta del professor Umberto Colombo, allora presidente del Cnen, nel quale nel 1982 descriveva puntualmente il quadro dei successivi cinquant’anni) è evidente che sullo scenario individuato non si possa che convenire, però con qualche riflessione retrospettiva e prospettica, che non si configura proprio assolutoria delle mutate opinioni e che riconsidera gli enormi danni arrecati alla comunità nazionale e all’economia del nostro Paese.
Quando si avviò un serio discorso su una programmazione energetica fondata sul nucleare (la legge 393/1975 riguardava già gli insediamenti delle centrali nucleari) si mirava a consolidare in Italia una fase sperimentale che con le prime centrali (Trino, Garigliano, Latina) aveva – grazie alle intuizioni del Cnen, allora guidato dal professor Felice Ippolito – collocato l’Italia fra i Paesi fortemente proiettati verso una conversione del proprio sistema elettrico.
Non è inutile rammentare che il primo piano energetico degli anni Settanta prevedeva istallazioni nucleari (20 centrali) per 20mila Mw elettrici. La costruzione, non priva di difficoltà, e l’entrata in funzione della centrale di Caorso (1978) avevano confermato che in Italia era possibile imboccare la strada che per altri Paesi, in testa la Francia, era ormai un’autostrada a più corsie. Purtroppo le buone intenzioni non sempre trovano adeguate risposte, specie se si coinvolgono le istituzioni locali normalmente esitanti a decidere di costruire insediamenti di un qualche impatto sui propri territori. E non sono pochi i casi di amministrazioni che, dichiarandosi favorevoli a ospitare una centrale, hanno poi modificato le proprie decisioni sulla spinta di pronunciamenti popolari. Montalto di Castro, poi, rappresenta emblematicamente questa contraddittoria e paradossale situazione: la località scelta all’inizio degli anni Ottanta per la costruzione della centrale elettrica più importante d’Italia subì, a lavori in stato di avanzamento, la trasformazione conseguente all’esito referendario dell’8-9 novembre 1987 che, subdolamente presentato come opzionale per il nucleare (i quesiti riguardavano le competenze del Cipi e l’erogazione di contributi a favore dei comuni e delle regioni), sanzionò la sospensione di ogni attività elettrica nel nucleare.
Le argomentazioni addotte da Testa si pongono nell’ottica dell’efficienza energetica e della riduzione di CO2, in considerazione del fatto che il ricorso alle fonti rinnovabili nella migliore delle ipotesi coprirebbe il 35 per cento del fabbisogno elettrico della copertura. Afferma poi che «la contrapposizione non è tra le fonti rinnovabili e il nucleare. Se lo scopo dello sviluppo delle rinnovabili fosse quello di cancellare il nucleare, l’unico risultato sarebbe quello di lasciare ancora più spazio alle fonti fossili». Dopo aver detto che il modo migliore per stoccare energia potrebbe essere la produzione di idrogeno, afferma che è impensabile disporne di notevoli quantità in tempi relativamente brevi (qualche decennio) senza ricorso al nucleare è impensabile. E con la stessa ingenuità, quasi che cominciassimo in questi tempi a discutere di questo tema, scrive che «il nucleare oltre ad allevare una classe di ingegneri particolarmente competenti e di cui l’Italia oggi è priva (nota bene: il dissennato referendum ha soppresso un’intera generazione di tecnici e ingegneri, tanti da provocare la soppressione della facoltà presso i politecnici!) ha prodotto e produce applicazioni importanti in molti campi!».
Fortunatamente, ma anche con due decenni di ritardo, anche da noi succedono queste folgorazioni e ci si accinge a ridiscutere (a mio avviso con qualche enfasi) di una questione sostanziale per il nostro futuro energetico. È auspicabile che si focalizzino alcuni problemi di cui si è avvertita l’urgenza. Per esempio quelli che riguardano lo smaltimento delle scorie radioattive, soprattutto alla luce degli studi su un impianto per l’inceneritore (o riciclaggio) delle scorie che, basandosi sul sistema Ads (Accelerator Driver System), è stato proposto per la prima volta all’inizio degli anni Novanta fra gli altri dal professor Rubbia. Tale procedimento potrebbe essere utilizzato sia per smaltire scorie già esistenti provenienti da centrali nucleari – o anche da testate in via di smantellamento – sia in nuove generazioni di reattori nucleari (terza, a sicurezza intrinseca, e quarta, in fase di progettazione) per la produzione di energia più sicura e meno inquinante.
Affrontare e definire la questione Sogin diventa fondamentale, non solo per questioni finanziarie (se ne è occupata anche l’ultima legge finanziaria) ma per risolvere competenze che spesso confliggono con l’Enel e che frequentemente costituiscono atteggiamenti contradditori con la programmazione nucleare. Se, come è stato dichiarato in questi giorni, l’Enel «è pronta dal punto di vista tecnico», «convinta che si deve ricostruire una filiera», è altrettanto paradossale che gestendo impianti in Slovacchia e in Romania la madrepatria abbia infinite remore ad adottare una decisione che parte della popolazione, e non certo minoritaria, ritiene improcrastinabile.
La conclusione che mi sento di trarre è sintetizzata dall’ultimo capitolo, che Testa ha intitolato: Il problema non è il nucleare, il problema è l’Italia.

Gianfranco Aliverti




L’avventura del popolo Solima


Gerardo Caglioni, IFalaba. La porta dell’islam/I, 
Edizioni Plus, Pisa 2007, 
112 pp., euro11,00

Gerardo Caglioni, IFalaba. La porta dell’islam/I, Edizioni Plus, Pisa 2007, 112 pp., euro11,00

Questo libro racconta una storia vera, sconosciuta al grande pubblico: l’avventura del popolo Solima e del loro regno africano a forte connotazione mercantile, situato in un territorio al confine tra la Guinea e la Sierra Leone. Durato quasi un secolo, il regno è terminato nel 1884 con l’arrivo della Jihad della spada di Samory Touré, paladino dell’islam. La resistenza alla conquista violenta del guerriero mandingo è raccontata con un’originale vena narrativa, tuttavia fondata su documenti storici e ricerche in loco, suffragati da un’attenta ricostruzione bibliografica. Finestra aperta sull’Africa dell’Ottocento e sulle sue trasformazioni a partire dal XVI secolo, il racconto è in grado di fornire spiragli anche per la comprensione dell’attualità, in un continente in continua trasformazione, poco conosciuto in Italia.

Giovanni Cubeddu




L’identità europea


Benedetto Coccia (a cura di), IL’Europa contemporanea 
tra la perdita delle radici 
e la paura del futuro/I, 
Istituto di Studi politici 
“San Pio V”, Roma 2007, 
516 pp. , euro  45,00

Benedetto Coccia (a cura di), IL’Europa contemporanea tra la perdita delle radici e la paura del futuro/I, Istituto di Studi politici “San Pio V”, Roma 2007, 516 pp. , euro 45,00

Un nutrito gruppo di giovani ricercatori si è inserito nel dibattito sulle radici culturali dell’Europa e l’Istituto di Studi politici “San Pio V” ha raccolto questi contributi in una pubblicazione curata da Benedetto Coccia: L’Europa contemporanea tra la perdita delle radici e la paura del futuro; un percorso nella coscienza più profonda e remota d’Europa.
Va detto subito che si tratta di saggi di non facile lettura, ma essenziali per costruire «una genealogia della paura che diventi paradigma esplicativo del duplice atteggiamento di angoscia verso il futuro e rifiuto del passato, contribuendo, così, a liberare orizzonti di senso che guardino oltre il nichilismo europeo» (p. 12). È Luca Sinibaldi che si incarica, nel saggio “L’identità europea tra paura e speranza” (p. 223), di delineare le tappe fondamentali della nascita e della evoluzione della coscienza europea, parallelamente ai grandi cambiamenti storico-politici che contraddistinsero lo spazio pubblico europeo dalle origini ai nostri giorni. A livello internazionale la paura ha acquisito nuove caratteristiche in connessione con il fenomeno della “globalizzazione”, consistente nella sempre maggiore interconnessione economica e politica fra vari Paesi del mondo (basti pensare ai rischi globali, come quelli legati alle possibili catastrofi ambientali, nucleari, epidemiche o terroristiche). Interessanti le pagine sulla malinconia del Continente. La nuova Europa sembra guardare impotente e con rassegnata tristezza al suo passato: alla sua cultura, alla sua produzione artistica e al suo ordinamento politico. Nel contributo conclusivo, Carlo Finocchietti indaga “Le paure collettive degli europei”, antichi e moderni.


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