Rubriche
tratto dal n.08/09 - 2003


Tutto quello che fa Europa


Antonio Foresi, Mario Sensini, L’Abc dell’Europa, Città Nuova Rai-Eri, Roma 2002, 316 pp., euro 16,50

Antonio Foresi, Mario Sensini, L’Abc dell’Europa, Città Nuova Rai-Eri, Roma 2002, 316 pp., euro 16,50

Con la prefazione del presidente del Senato Marcello Pera, Antonio Foresi e Mario Sensini hanno pubblicato L’Abc dell’Europa. Un dizionario, anzi qualcosa di più: una cronologia ragionata di tutto ciò che ha fatto e fa Europa, uomini compresi. Foresi e Sensini sono due bravi giornalisti che hanno impegnato molto della loro vita professionale, giornalistica e in Rai, per l’Europa, per i problemi della sua costruzione. Hanno partecipato ai vertici più importanti dell’Unione europea, hanno seguito tutte le vicende dell’Uem, compresa la fase di adesione dell’Italia all’euro; dunque, hanno vissuto la storia europea da vicino, direi che l’Europa fa parte della loro vita, dunque hanno le carte in regola per spiegarla; e lo fanno molto bene, fuori dagli schemi classici, arricchendo il testo di un po’ di sentimento, il che non guasta.
Dal loro libro si ricava un quadro di insieme dell’evoluzione europea, lungo i sessant’anni in cui l’idea di comunità è stata pensata, è nata, ha preso forma, si è sviluppata, arricchita, ripagando ogni partner col benessere e la pace, rispettandone sempre la specificità: da sei gli Stati membri sono aumentati a quindici e il tempo presente della “Convenzione” che si è aperta il 28 febbraio scorso, costituisce indubbiamente un’ulteriore definitiva tappa.
Nell’introduzione Antonio Foresi, con efficaci pennellate, traccia in sintesi la storia della costruzione dell’Europa, dalle intuizioni e dal lavoro di quel fecondo laboratorio iniziale, aperto a tantissimi intellettuali insigni, a figure della società civile – che sarebbe impossibile elencare completamente – a lungimiranti uomini politici, rappresentanti di ogni parte politica. Oggi l’Europa è ad un punto importante: la generazione dei suoi fondatori è al tramonto; cambiano gli uomini, le generazioni, la classe politica... Cambia il mondo, la cultura, il personale politico; cambiano i Paesi, assume umori diversi l’opinione politica. I due autori in questo contesto fanno uno sforzo notevole, con risultati meravigliosi, per presentare l’Europa voce per voce, dalla A di “a cerchi concentrici” alla Z di “zucchero”.
È un libro da tenere sulla scrivania per una preziosa consultazione, e non solo per gli addetti ai lavori: per sapere cos’è “Erasmus” o “Med Campus”, i programmi a favore dei giovani o delle Pmi; o chi fu “Gaetano Martino”; i compiti della “Corte europea di giustizia” o la situazione in “Polonia”; o, ancora, per conoscere il contributo dato da “Giulio Andreotti” o “Altiero Spinelli”; cosa sanciscono l’accordo di “Shenghen” o di “Roma 1957”, o di “Hannover 1988”. Chiude il volume un’interessante cronologia dell’Europa comunitaria, dal 1941 al 2001 (pp. 285-316).
Si parla molto del distacco dei cittadini dalle istituzioni. La Convenzione per l’avvenire dell’Europa che si è aperta il 28 febbraio ha destato l’attenzione della gente, ha fatto capire che l’Europa non consiste solamente nelle tecnostrutture di Bruxelles: è anche politica nobile alla quale i cittadini guardano con attenzione partecipe. Il libro sull’abc dell’Europa è un contributo a vivere questa straordinaria stagione politica.
Walter Montini




Confessioni di un ex comunista


Massimo De Angelis, Post. Confessioni di un ex comunista, Guerini e associati, Milano 2003, 207 pp., euro17,50

Massimo De Angelis, Post. Confessioni di un ex comunista, Guerini e associati, Milano 2003, 207 pp., euro17,50

Una tenera lettera al figlio Giacomo, di quattro anni, autentico atto d’amore di un padre verso un figlio, apre il libro-confessione di Massimo De Angelis. Gli racconta la politica, l’impatto con questo mondo, i primi passi compiuti nelle file del Partito comunista italiano, nella Fgci, all’età di 16 anni, in IV ginnasio, le prime scelte politiche che «... in parte si fanno, in parte sono frutto delle circostanze» (p.16). Un racconto documentato e ragionato nel mezzo degli anni della storia più recente che hanno visto lo sgretolarsi dei partiti tradizionali nei quali intere generazioni si erano formate e nei quali molti giovani avevano creduto e sperato. Un’analisi disincantata dei principali avvenimenti politici che hanno visto la fine del Pci, partendo dalla svolta con cui nel 1989 Achille Occhetto sciolse il Pci dando vita al Partito democratico della sinistra, il Pds: evento drammatico, non ancora completamente chiuso, che provocò lacerazioni interne nel partito non ancora sanate, un salto generazionale che sul piano politico ha significato tante cose, non solo il cambio del nome. Nell’analisi impietosa e coraggiosa dei fatti e delle speranze che sottostavano al progetto, De Angelis – che dal 1987 al 1994 fu il principale collaboratore e il capo ufficio stampa del segretario del Pci-poi Pds, (attualmente è editorialista del quotidiano Avvenire e cura le attività culturali della Fondazione Liberal) – riserva uno spazio anche al fenomeno di “mani pulite”, fenomeno che per una certa fase ha agevolato il Pds sul piano politico, dell’immagine ed elettorale e che l’autore definisce ad un certo punto «un’opera di modernizzazione politica»: non concordiamo sulla definizione anche se condividiamo l’analisi successiva dell’autore che nel corso del testo si fa più organica, arrivando l’autore ad affermare che ormai «è una pagina da voltare nella coscienza civile e politica del Paese» (p. 27). Gli avvenimenti vengono analizzati anche attraverso gli atteggiamenti, politici e non, di alcuni personaggi che hanno avuto un ruolo in quella svolta del 1989: Aldo Tortorella, Claudio Petruccioli, lo stesso D’Alema, Bassolino, Livia Turco, Walter Veltroni; ecco il racconto del rapporto del partito, in quegli anni, con Gorbaciov, le attenzioni verso il magistero sociale di papa Wojtyla, fino all’esperienza, presente, dell’Ulivo. L’autore non tralascia niente, pone attenzione quasi ossessiva anche ai particolari, ai fatti minuti di cronaca che pur hanno importanza in una rilettura della storia più recente, una rilettura ragionata, meditata, con incursioni nelle filosofie e ideologie di volta in volta studiate o vissute: interessante l’analisi de «il nostro comunismo» (p. 119) e «il nostro antifascismo» (p. 159). Risultato: una generazione, la nostra, ancora in cerca d’autore. De Angelis ha visto crollare un mondo intero. Attraverso la riscoperta del valore del dubbio, della critica; attraverso una sorta di rielaborazione, vigorosa, del lutto, l’autore indulge anche a malinconie (politiche) che a volte conservano il sapore della nostalgia ma costituiscono anche impulso ad un nuovo agire, in una nuova stagione. «Non so se noi ce la faremo», confessa De Angelis, «se la nostra generazione ce la farà a essere ponte tra le generazioni del Novecento e quelle del Duemila... So che tale discorso vale per tutte le nazioni, immesse in questa globalizzazione. A rischio di esserne inghiottite. Ma vale soprattutto per noi, vale soprattutto per l’Italia. Perché noi abbiamo una tradizione recente, classi dirigenti deboli, siamo una nazione divisa, contrastata. E la Seconda Repubblica è tutta da costruire, il suo spirito è tutto da scoprire» (p. 205).
Devo dire che ogni pagina di questo libro desta interessi diversi e può essere oggetto di approfondimenti; il libro poi, Post. Confessioni di un ex comunista, andrebbe letto assieme a due altri contributi sullo stesso argomento usciti lo scorso anno, ancora attuali: Ragioni e sentimento, di Achille Occhetto e Rendiconto, di Claudio Petruccioli: ne risulterebbe un quadro completo ed esaustivo degli avvenimenti politici capitati a cavallo degli anni Novanta.
Walter Montini




Tra memoria e testimonianza


Giuliana Mazzoni, Si può credere a un testimone?, Il Mulino, Bologna 2003, 222 pp., euro 12,80

Giuliana Mazzoni, Si può credere a un testimone?, Il Mulino, Bologna 2003, 222 pp., euro 12,80

La ricerca relativa ai processi di funzionamento della memoria fornisce un contributo importante per capire i problemi della vita quotidiana; tali conoscenze permettono di comprendere e prevedere il meccanismo che si mette in moto quando un testimone racconta ciò che ha visto o sentito.
Queste parole ci introducono alla lettura dell’interessante libro di Giuliana Mazzoni, Ki può credere a un testimone? La testimonianza e le trappole della memoria, edito da Il Mulino. Il libro illustra alcuni motivi per cui la testimonianza e i dati di fatto a cui essa si dovrebbe riferire in alcuni casi (e l’autrice li analizza) non coincidono: la causa di questa discrepanza sta nel modo in cui funziona la nostra memoria. In alternanza di analisi delle relazioni tra memoria e testimonianza («Lo strano intreccio tra memoria e testimonianza», p. 18) il libro indaga specifici casi (ad esempio quello, ormai famoso, di Marta Russo), avvenimenti traumatici che emergono dopo anni e anni, ad esempio abusi sessuali subìti da donne, casi di ricordi che improvvisamente riaffiorano alla memoria: ricordi ripescati o ricordi ricostruiti? Ricordi perduti e ricordi recuperati (cap. 6, p.111). Il caso di Marta Russo, che l’autrice analizza, è un caso particolarmente interessante per chi si occupa di memoria e di testimonianza, del modo in cui funziona la memoria umana e il modo in cui una persona decide di riportare ciò che ricorda. Vengono riferiti poi, nella terza parte del libro, esempi di casi processuali, svoltisi in Italia e negli Stati Uniti, che non vogliono costituire un capitolo giuridico, ma l’occasione per una riflessione più generale, ad esempio sul ruolo del perito psicologo in Italia e in altri Paesi (cap. 10, p.189): si veda, ad esempio, la bella analisi anche psicologica sulla testimonianza che spesso viene chiesta ai bambini (“La memoria dei bambini”, cap. 5, p. 103).
È un libro interessante per un vasto pubblico, non solo per avvocati, giudici, psicologi o pedagogisti. L’autrice – che insegna psicologia alla Seton Hall University del New Jersey – non usa, volutamente, il linguaggio scientifico di cui solitamente ci si serve per affrontare questioni del genere, che spesso rischia di non far comprendere l’argomento, bensì uno stile discorsivo e piano che ne rende piacevole la lettura. È l’autrice stessa ad affermare, nella conclusione, che «arriva un’età della vita in cui il ricercatore sente la necessità di lasciare per un certo tempo il laboratorio per offrire ad un pubblico più ampio i risultati della propria ricerca...». Anni di lavoro sui problemi della memoria e sulle tecniche di intervista le hanno permesso di mettere a disposizione del pubblico italiano alcuni elementi di fondo per capire che cosa accade quando un testimone racconta la sua esperienza. Il desiderio di diffondere queste conoscenze nasce dalla speranza che la sensibilizzazione di un pubblico colto porti a introdurre miglioramenti nel nostro Paese e a contrastare la tendenza al pressappochismo e l’approssimazione in questo delicato settore dell’intervento pubblico.
Walter Montini




Roma caput lucis


Mario Verdone, Il cinema a Roma, Edilazio, Roma 2003, 248 pp., euro 18,00

Mario Verdone, Il cinema a Roma, Edilazio, Roma 2003, 248 pp., euro 18,00

Il primo film di fiction italiano fu girato a Roma. Si trattava de La breccia di Porta Pia, di Filoteo Alberini, del 1905, prodotto dal “Primo stabilimento di manifattura cinematografica Alberini e Santoni”, società fondata a Roma e rivendicante fin nella denominazione la “primazia” tra le case produttrici di film in Italia. Un altro record capitolino nella storia del cinema, in questo caso un record mondiale, avremmo potuto oggi menzionare se lo stesso Alberini, nel 1895, fosse riuscito a precedere i fratelli Lumière rappresentando nell’Urbe le immagini in movimento col suo appena brevettato “kinetografo”. Vinsero sul filo di lana i due francesi che, il 28 dicembre di quell’anno, regalarono a Parigi l’orgoglio di ospitare, grazie al loro “cinématographe”, la assoluta “prima” mondiale di una pubblica proiezione. Ma, comunque sia andata, Alberini, il pioniere del kinetografo, diede il via ad una storia che avrebbe fatto di Roma la sede della “Hollywood italiana”. Infatti la società da lui fondata, che quasi subito cambiò nome in Cines, visse, tra alti e bassi, fino agli anni Cinquanta, producendo i muti “storici” (di ambientazione greco-romana, medievale, rinascimentale), i “kolossal” e, poi, con l’avvento del sonoro, i celebri “telefoni bianchi”. Ma anche molte pellicole dirette da De Sica, Camerini, Blasetti. La svolta avvenne dopo l’incendio che distrusse, il 26 settembre 1935, gli stabilimenti della Cines di Porta San Giovanni. Questo disastro diede il via alla costruzione, nella zona del Quadraro, dell’imponente Cinecittà, che fu inaugurata il 28 aprile di due anni dopo. Oggi, a distanza di quasi settant’anni da quell’inaugurazione, negli stabilimenti del Quadraro vengono a girare i loro film registi di calibro internazionale come Martin Scorsese o Mel Gibson. Segno che il titolo di “Hollywood italiana” ha ancora ragion d’essere.
Mario Verdone, professore emerito di Storia e critica del film all’Università di Roma La Sapienza, ha recentemente dato alle stampe il libro Il cinema a Roma, in cui sono raccolti alcuni suoi saggi apparsi nella rivista Roma, ieri, oggi, domani. Verdone ripercorre non solo la storia dell’attività cinematografica della capitale, ma pure le cronache, gli eventi e i fatti che rappresentano la “preistoria” del cinema prodotto nell’Urbe. In tale preistoria va ascritta la carriera artistica di Ettore Petrolini, ad esempio, il quale apparirà sui grandi schermi soltanto dopo un lungo noviziato nei caffè-concerto e nei teatri di varietà italiani e sudamericani, in cui rappresentò le sue geniali macchiette e le sue esilaranti “scemenze” romanesche. Il cinema arriverà dopo, con Nerone, Il cortile e Medico per forza, pellicole su cui le maschere petroliniane già celebri in Italia e nel mondo saranno fissate per sempre. Così pure vanno ricordate come antefatti del cinema a Roma le prime esperienze professionali di Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Renato Rascel, Alberto Sordi, i quali furono protagonisti dell’avanspettacolo capitolino prima che qualcuno decidesse di impressionare la celluloide con le loro caratterizzazioni. Roma ospitò anche l’anticipazione dal vivo dei western americani: la tournée di William F. Cody, alias Buffalo Bill, che, nel 1890, s’accampò sulle rive del Tevere con la sua carovana di quattro treni, 51 vagoni, 800 uomini e 500 cavalli per dare vita al “Buffalo Bill’s Wild West”. In quell’occasione il celeberrimo cacciatore di bisonti incontrò anche papa Leone XIII.
Tra i prodromi della storia del cinema a Roma che il libro offre in piacevole lettura, c’è anche l’attività di Leopoldo Fregoli, il grande trasformista nato a due passi da Fontana di Trevi, che, tra l’altro, intorno al 1896, perfezionò l’invenzione dei fratelli Lumière e diede vita al “Fregoligraph”, un macchinario con il quale proiettava le immagini in movimento delle sue folli metamorfiche performance. Fregoli riusciva anche ad effettuare personalmente il doppiaggio dal vivo e in perfetta sincronia con le immagini, anticipando così di un paio di decenni l’effetto del sonoro.
Roma, quindi, si prende cura del cinema italiano dalla culla, lo svezza, lo educa e lo segue fin nella sua maturità, quando lo trascina fuori dalle macerie della Seconda guerra mondiale suggerendogli un nuovo modo di esprimersi con strumenti poveri, gli unici disponibili per raccontare quei giorni di sofferenza e rinascita. Il Neorealismo di De Sica & Zavattini, Rossellini e Visconti, che farà scuola in tutto il mondo e rappresenterà un’esperienza da cui non si potrà più prescindere per fare dei buoni film, ha in Roma il suo centro di gravità permanente. Il professor Verdone, senese e romano d’adozione, conosce bene la città e sa individuare ogni angolo in cui il cinema, questo illustre ultracentenario, si è fermato assumendo di volta in volta le facce di decine di registi, sceneggiatori ed attori. Bragaglia, Zampa, Risi, Fellini, Pasolini, Leone, Monicelli, Scola, Corbucci, Magni, e ancora Magnani, Fabrizi, Vitti, Sordi, Mastroianni, Chiari, Tognazzi, Gassman… fino ai volti più recenti, quelli, ad esempio, di Carlo Verdone, figlio dell’autore del libro, o di Claudio Amendola, Christian De Sica, Valerio Mastandrea. Questo illustre ultracentenario continua a raccontarci storie – la storia – anche con la recitazione amara e ironica, distaccata e commossa che forse solo a Roma si può imparare veramente.
Paolo Mattei




Le falle dell’infallibile giustizia


Anatole France, Crainquebille, Liberilibri, Macerata 2002, 73 pp., euro 9,00

Anatole France, Crainquebille, Liberilibri, Macerata 2002, 73 pp., euro 9,00

La riproposizione della storia di Crainquebille, un racconto di Anatole France, Nobel per la letteratura nel 1921, scritto cent’anni fa, è l’occasione per una riflessione schietta, spassionata e appassionata sulla giustizia, su alcuni suoi risvolti di violenza legale, su alcuni soprusi (anche recenti) compiuti in nome della legge.
Continua con questo libro la denuncia dell’editrice Liberilibri sulla situazione della nostra giustizia. Il giudice Carlo Nordio (attualmente presidente della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale) ne cura l’introduzione e la postfazione. Un’introduzione dove richiama, con parole sentite, non retoriche, il suo primo incontro in carcere con l’“imputato Mannino” («a Calogero Mannino e alle altre vittime di errori giudiziari» è dedicato il libro); nella postfazione, partendo dall’avventura giudiziaria, grottesca e ingiusta, capitata a Crainquebille, un povero fruttivendolo ambulante della Parigi di inizio Novecento che viene denunciato, imprigionato, processato e condannato per un banale oltraggio a pubblico ufficiale, un vigile – l’agente 64 –, Nordio riconduce il fatto al presente con una riflessione aggiornata sulla coscienza e sull’attività del giudice. Ecco allora documentate considerazioni sulla penosa situazione della giustizia italiana, soprattutto degli ultimi dieci anni, sul numero degli imputati in attesa di giudizio, sulla durata dei processi penali (secondo un recente sondaggio, la grande maggioranza degli italiani non ha fiducia nella nostra giustizia. Per alcuni la fiducia manca perché i magistrati sono troppo severi; per altri perché sono troppo miti; per tutti perché sono troppo lenti); ecco riflessioni sui “pentiti”, questi nuovi privilegiati del terzo millennio, su Tangentopoli, le sue miserie, i suoi clamorosi fallimenti e i “sogni milanesi” infranti. E ancora: annotazioni sul ruolo dei media, con allusione «al sistema infallibile per cui, con il connubio tra informazione di garanzia e garanzia di informazione, dagli uffici giudiziari escono, ovviamente nel più stretto riserbo, quelle anticipazioni che fanno di un sospettato un inquisito e di un imputato un manigoldo. Notizie protette dal cosiddetto segreto istruttorio che, fatte sapientemente filtrare, hanno compromesso la tranquillità, la salute, la carriera e talvolta la vita di chi, improvvisamente, si è trovato sbattuto in televisione, indifeso come il povero Crainquebille sul più modesto palcoscenico di rue Montmartre...» (p. 65).
Walter Montini




Un libro da prete, ma non solo


Santo Canonaco, Essere prete in un mondo che cambia, La Scala, Noci (Ba) 2003, 222 pp., euro 13,00

Santo Canonaco, Essere prete in un mondo che cambia, La Scala, Noci (Ba) 2003, 222 pp., euro 13,00

Forse è vero, è un libro per preti, come preannuncia il titolo stesso, ma le Riflessioni teologico-pastorali per una spiritualità presbiterale nel terzo millennio, come dice il sottotitolo, possono riguardare le dimensioni culturali e religiose anche dei laici, i christifideles laici preoccupati della piega che ha preso la società moderna.
Continua dunque insistente la riflessione della Chiesa e dei suoi rappresentanti lungo diversi versanti, quasi a voler indicare la necessità di una nuova evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Stiamo parlando di Essere prete in un mondo che cambia, il libro di Santo Canonaco, monaco benedettino dell’abbazia Madonna della Scala di Noci (Bari). È vero, le sue riflessioni sono destinate ai preti, soprattutto nel periodo della loro formazione, ma perché non approfittarne in questo tempo nuovo e ambiguo, con i suoi smarrimenti e le sue indifferenze, con la sua “fame di senso” inteso come bisogno profondo di relazioni autentiche, di vera comunicazione? Il problema è, ancora una volta, di natura culturale, non v’è dubbio. Torna alla mente un libretto di Romano Guardini, ancora attuale, pubblicato nel 1951, oltre mezzo secolo fa e che andrebbe riletto oggi: La fine dell’epoca moderna, per comprendere le difficoltà e le insidie degli orientamenti filosofici della presente società post-moderna, dai contorni culturali non ancora ben definiti e delineati e che toccano anche, e soprattutto, i cristiani, i quali devono stare nella storia, devono “esserci”. La domanda di spiritualità presente nella società moderna, che si avverte e che non è soltanto “roba da preti”, è un po’ il segno di questo nostro tempo difficile. Le meditazioni di Canonaco, che si snodano in sedici brevi capitoli, assieme alla ricca e aggiornata indicazione bibliografica contenuta nel testo, sono di aiuto per una migliore comprensione dei nostri tempi nella prospettiva di una dimensione spirituale essenziale per l’uomo contemporaneo.
Walter Montini


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